Jidai
Masaki Kobayashi: 1962 - Harakiri - Tsugumo racconta ancora
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Hanshiro Tsugumo tenta in qualche modo di tirare avanti fabbricando ombrelli di carta, che probabilmente rivende in nero ad un distributore: non gli sarebbe consentito avere una attività commerciale.
Nessuna possibilità di trovare un altro impiego come samurai. Edo, dove si è trasferito nel frattempo, è piena di ronin nelle sue stesse condizioni.
Il giovane Chijiiwa sopravvive a stento insegnando ai bambini i classici cinesi.
La situazione è tuttaltro che rosea, e la sola proposta concreta che arriva a Tsugumo lo lascia sconcertato ed indignato: accettare che Miho diventi una delle concubine di un importante daimyo, e rientrare così semi clandestinamente nel mondo che è stato costretto traumaticamente a lasciare.
Scoprendosi improvvisamente imbarazzato ed incapace di affrontare serenamente un argomento così delicato, avendo sempre in vita sua dedicato ogni pensiero al mestiere delle armi, convoca Motome.
Burberamente, sudando copiosamente, gli propone di prendere in sposa Miho, sottraendola alla vergognosa proposta.
Non ignora certamente il sentimento che corre tra i due giovani, e pur rendendosi conto che la loro situazione è estremamente difficile non intende chiudere gli occhi di fronte alla speranza che le cose migliorino.
Il matrimonio viene celebrato poco dopo.
Due anni dopo nacque un bimbo, a cui lo stesso Tsugumo impose il nome di Kingo.
La piccola famiglia potrebbe cominciare a sperare veramente in un futuro migliore.
Ma la situazione economica e sociale non migliora affatto.
Dopo avere smantellato i clan rivali e quelli che tentavano di mantenersi neutrali lo shogunato Tokugawa ne sta chiudendo anche diversi che erano fedeli alleati da decine di anni.
Tsugumo confessa di non riuscire a comprendere la politica delle autorità, che in questo modo riuscirà solo ad accrescere ancora il numero già esorbitante dei ronin senza meta e senza scopo nella vita.
E' in questa circostanza che Tsugumo e Chijiiwa discutono dell'episodio di Sengoku, il potente clan che aveva offerto un impiego al ronin venuto per compiere seppuku, e della ondata di altre richieste calmierate con offerte in denaro.
Chijiiwa aveva commentato che per quanto dure potessero essere le loro condizioni mendicare denaro rimaneva tuttavia azione non degna di un samurai.
Purtroppo il destino lo fece ricredere.
Nonostante tutto i tre vivevano felici, e senza dover rendere conto a nessuno della loro vita, mentre il piccolo Kingo era al centro della loro esistenza.
Ma proprio da lì iniziò la disastrosa caduta.
Per la prima volta, e sarà l'ultima, mentre lo stuolo di samurai che era poco prima pronto a gettarsi contro di lui ascolta attonito e ammutolito, Tsugumo sembra accusare la stanchezza di un colpo troppo duro da sopportare.
La felicità umana non dura mai a lungo...
Un giorno durante le estenuanti giornate di lavoro, in una casa umida ed esposta alle intemperie, Miho si sentì male, tossendo incessantemente e gettando sangue dalla bocca.
Nei giorni successivi le sue condizioni peggiorarono: non aveva una forte costituzione, ed aveva messo a dura prova il suo fisico per troppo tempo.
Motome, caduto nel panico, tentò invano di trovare un altro lavoro meglio ricompensato per pagare le cure.
Nessuno era disposto ad accettarlo, nemmeno per i lavori più pesanti ed umili, esposti alle intemperie.
Ad un samurai non era concessi che alcuni lavori intellettuali di ripiego, veniva quindi cacciato, spesso in malo modo, ovunque si presentasse in cerca di una occupazione.
Dargli lavoro avrebbe significato sicuramente avere delle noie da parte delle autorità.
All'inizio di quell'anno, Tsugumo non potrà mai dimenticarlo, uno stravolto Motome si presentò alla sua porta.
Temette subito il peggio per Miho, ma il colpo doveva essere ancora più duro: Kingo aveva la febbre, alta come se fosse divorato dal fuoco.
I due giovani non hanno nemmeno il coraggio di rispondere alle frenetiche domande di Tsugumo, che vuole sapere cosa ha detto il dottore.
Non hanno interpellato alcun dottore: non saprebbero come pagarlo.
Lo stesso Tsugumo non sa più cosa fare: ogni oggetto di valore è stato venduto da tempo, non possono fare assolutamente nulla per Kingo.
La sua disperazione lo porta a scongiurare il piccolo, che non è nemmeno in grado di sentirlo, di essere degno del nome di samurai e combattere per vincere, da solo, il male.
Fu allora che Motome gli confidò di avere una idea, pur rifiutandosi di rivelarla, e chiamandolo padre lo pregò di badare al bambino, per poi uscire di casa con fare risoluto. Non tornò mai più.
Una lunga attesa in cui ogni attimo sembrò interminabile.
Le sue spoglie tornarono alle 9 della sera, portate da alcuni samurai della casata di Iyi. Formalmente inappuntabili, fornirono tuttavia una versione di comodo completamente falsa, dichiarando che Motome Chijiiwa aveva insistito sulla serietà ed irrevocabilità della sua richiesta.
Mentre Hanshiro e Miho Tsugumo ascoltano, annientati, nella camera accanto il piccolo Kingo agonizza febbricitante.
I tre uomini responsabili dell'ambasciata, dopo essersi congratulati con lui per il comportamento esemplare di Chijiiwa, gli chiedono di esaminare le armi con cui egli si è tolto la vita, notando che le lame sono di bambu, in modo che nessuno possa accusare in seguito la casata di Iyi di averle sostituite per predarle. Tsugumo, che era all'oscuro di tutto, deve subire l'estremo oltraggio di una risata derisoria da parte di Kawabe, che fa notare che un vero samurai avrebbe meritato delle vere lame per porre fine alla sua vita, e getta con disprezzo il simulacro di spada sul cadavere di Chijiiwa.
Non rimane più molto da dire ad Hanshiro Tsugumo.
Lungi dal rimproverare il povero Motome per avere venduto il simbolo della sua casta e del suo onore, l'ha considerato un supremo atto di amore verso Miho, e ha rimproverato piuttosto se stesso per non averci pensato per primo.
Miho pianse ininterrottamente.
Il piccolo Kingo spirò due giorni dopo, senza mai riprendersi dal coma.
Tre giorni dopo ancora morì anche Miho.