Jidai
Masaki Kobayashi: 1962 - Harakiri - Hanshiro Tsugumo
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Il samurai presentatosi alla dimora degli Iyi (Tatsuya Nakadai) si presenta formalmente: è un ronin, già legato alla casata Fukushima di Hiroshima, e si chiama Hanshiro Tsugumo, “tsu come porto e gumo come nuvola”.
Presentarsi indicando con quali ideogrammi andava scritto il proprio nome era una pratica necessaria: venivano frequentemente sostituiti con altri ideogrammi dallo stesso suono ma con diverso significato, per rimarcare un nuovo momento nella vita nella persona.
Ma anche senza questa usanza la ricchezza di omofoni della lingua giapponese rende impossibile risalire alla scrittura del nome semplicemente ascoltandolo.
Tsugumo chiede con un atteggiamento rispettoso quanto fiero che gli venga concesso l’estremo favore, e qualcosa in lui induce l’intendente di palazzo a non liquidarlo in qualche modo ma a chiamare in prima persona il gokarô (御家老=dignitario) Kageyu Saito, sovrintendente della tenuta. E' interpretato da Rentaro Mikuni, indimenticabile protagonista anche in L'arpa birmana di Kon Ichikawa).
Sarà questultimo che turbato accennerà al ronin di un precedente episodio: la stessa richiesta era stata avanzata poco tempo prima da un giovane samurai, anche lui appartenente in passato alla casata di Fukushima. C’è forse qualcosa in comune tra i due?
Tsugumo nega. Ma lo svolgersi successivo degli eventi dimostrerà che non solo un legame esisteva, ma era anche stretto, indissolubile, e che rappresenta la ragione stessa della presenza di Tsugumo proprio in quel luogo e non in un altro, e della sua estrema decisione.
Il mistero del legame tra i due samurai non verrà sciolto immediatamente: come di consueto in molte rappresentazioni artistiche giapponesi la verità viene svelata gradualmente, in modo quasi insopportabilmente lento ed ambiguo eppure avvincente e coinvolgente, fino alla esplosione della catarsi finale che giunge quasi come liberatoria, per quanto cruenta.
Il lungo racconto di Tsugumo, già in posizione di seppuku nel cortile, di fronte ai dignitari in abito ed atteggiamento formale, esplicita l’esigenza di porre un termine onorevole al suo cammino, ormai giunto irrevocabilmente al tramonto, ma anche e soprattutto quella di rivendicare il proprio onore e la propria dignità, protestare contro l’ingiustizia patita e chiedere, con l’autorità ed il distacco di chi sta abbandonando tutto, che la casata di Iyi prenda atto dei suoi errori.
Tsugumo non verrà ascoltato. Eppure aveva offerto spontaneamente la soluzione più facile e dignitosa al grande problema che aveva posto di fronte alla coscienza dei seguaci di Iyi: il suo seppuku. L’ira di Saito prenderà il sopravvento e si rivolgerà, come spesso succede, contro l’incolpevole ambasciatore di un messaggio che non gli appartiene. Ma l’infausta decisione gli si rivolgerà contro, la conseguente ira di Tsugumo, ferito in quanto di più caro e sacro ha un essere umano, provocata dall'ira di chi avrebbe dovuto comprenderlo, travolgerà tutto e tutti.
Tutte le persone e istituzioni coinvolte finiranno per pagare un prezzo ben più caro di quello, sia pure elevato, che Tsugumo aveva intenzione di chiedere inizialmente.
Per la morale occidentale media forse il finale è eccessivamente amaro.
Della tragica missione portata fino in fondo da Tsugumo Hanshiro, non rimarrà traccia.
La verità ufficiale sarà scritta dai suoi antagonisti, che celeranno per sempre quanto accaduto non facendone alcuna menzione nel registro della casata, che chiude la pagina di quella torrida giornata del quinto mese accennando solo di sfuggita all'atto di pietà avuto verso un oscuro ronin.
Ma sarà evidente, per quanti avranno seguito fino in fondo avvinti davanti allo schermo l’odissea del ronin solitario che lui ha fatto quanto riteneva giusto ed inevitabile fare.
Ha accettato le conseguenze delle azioni e delle opinioni altrui senza darsene peso, senza consentire che influissero sulla linea di condotta da lui ritenuta giusta e sacrosanta.
E nemmeno si è lasciato condizionare dalla conoscenza e dall’apprezzamento delle sue azioni che potessero avere o non avere i posteri: ha fatto quanto doveva fare, e può abbandonare sereno la sua vita mortale.
Che la verità venga celata ha rilevanza solo per chi non è stato protagonista o spettatore della vicenda: smascherando l'ipocrisia della casata di Iyi e profanandone materialmente il simbolo, la rossa armatura della casata custodita nel sacrario, Hanshiro Tsugumo non solo vince la sua battaglia ma obbliga gli avversari a riconoscere con se stessi la loro sconfitta, che riescano o meno a celarla all'esterno.
Da una società e da una cultura che il nostro apprezzamento e il nostro studio non riescono ancora tutto sommato a svelare e apprezzare completamente, arriva nonostante tutto un messaggio chiaro ed universale.