Jidai
Akira Kurosawa: 1980 - Kagemusha
Indice articoli
Akira Kurosawa: Kagemusha (L'ombra del guerriero)
1980
Tatsuya Nakadai, Tsutomu Yamazaki, Kenichi Hagiwara, Daisuke Ryu, Masayuki Yui, Kota Yui, Takashi Shimura
Nel preambolo dell'opera appaiono 3 uomini, identici nell'aspetto e nei vestiti, di cui uno in posizione preminente accanto alla sua spada, evidentemente il signore del luogo. Uno al suo fianco e l'ultimo, in atteggiamento scontroso e dimesso, ai suoi piedi. Sono il grande generale Takeda Shingen (1521-1573 circa) conosciuto come la tigre del Kai - il suo feudo - suo fratello Nobukado che spesso confonde amici e nemici assumendo le vesti e l'identità di Shingen, ed un ladro di cui non conosceremo mai il nome, strappato da Nobukado all'esecuzione per la straordinaria somiglianza col fratello, che solo lui ha notato: sarà un nuovo e perfetto kagemusha, ombra del guerriero. Si sostituirà al signore ogni volta che verrà ritenuto opportuno, dopo aver ricevuto un lungo e meticoloso addestramento che lo prepari ad ogni evenienza.
Solo al termine di questa sequenza, che ci fornisce la chiave di lettura di una vicenda complessa che occuperà la nostra visione e le nostre menti per diverse ore, appaiono i titoli di testa: Kagemusha (L'ombra del guerriero).
Per kagemusha si intende ovviamente quello che in occidente viene comunemente definito un sosia. Un ricordo da una rappresentazione scenica anche questo: nella commedia Anfitrione di Plauto, scritta nel secondo secolo a.C., Sosia è il servo di Anfitrione, generale tebano che parte per la guerra lasciando sola la sposa Alcmena. La commedia, che ha anche risvolti politici (nei discorsi di Anfitrione molti leggono una parodia della campagna di guerra di Marco Fulvio Nobiliore contro l'Etolia), è uno dei prototipi di quella che venne poi definita "commedia degli equivoci".
Il dio Zeus, invaghitosi di Alcmena, assume le sembianze di Anfitrione per sedurla, accompagnato da Mercurio che ha assunto quelle di Sosia, si reca a Tebe e ottiene sotto mentite spoglie i favori di Alcmena. Senonché il vero Anfitrione (a sua volta nome assunto - comprensibilmente - a simbolo di ospite molto "generoso") torna accompagnato dal vero Sosia, e la presenza contemporanea delle due coppie, che si incrociano senza mai incontrarsi, genera una serie di divertenti equivoci. Inequivocabile comunque la conclusione dell'affare: dall'unione di Zeus con Alcmena nacque l'eroe Eracle.
Ma, pregando di scusarci la digressione, abbandoniamo i due Sosia e torniamo al nostro sosia: il kagemusha. Trattato dai due nobili come un oggetto da utilizzare a loro piacimento, l'uomo si ribella e rinfaccia a Takeda la sua crudeltà: Takeda non si scompone, rivendica anzi orgogliosamente il suo operato e lo giustifica con la necessità di affidare le sorti del Giappone ad un uomo forte, che sappia schiacciare ogni nemico versando sì del sangue, ma sangue necessario, che consenta di porre finalmente termine alla guerra civile che funesta da troppo tempo il Giappone. E l'orgoglio del ladro, la sua brutale franchezza, non lo indispongono: chi ha il coraggio di dire la verità ad ogni costo, rappresenta una risorsa da non disperdere. L'uomo diverrà il suo kagemusha.
E finalmente entriamo nel vivo dell'azione, con l'arrivo di uno dei tanti messaggeri ricorrenti in ogni opera di Kurosawa che tratti di eventi bellici dell'era feudale. Ma anche stavolta, il maestro sorprende ogni volta, con qualcosa di diverso: non arriva a cavallo a briglia sciolta, non si abbatte esausto appena arrivato a destinazione, ma appare come una figura surreale attraversando di corsa come se fosse impalpabile fitte schiere di armati che sembravano impenetrabili.
Kurosawa accenna un tema che tornerà prepotentemente più avanti e verrà sviluppato ancora in Ran: l'orrore della guerra. Qui è rappresentato da cumuli di cadaveri in mezzo ai quali si aggirano indifferenti i guerrieri vincitori, e che calpesta indifferente il messaggero. Ma l'occhio dello spettatore è attratto soprattutto dalla sua furiosa corsa, al macabro sfondo è facile non far nemmeno caso.
Samurai e ashigaru (guerrieri di rango minore che formano il nerbo della fanteria) portano sui sashimono, stendardi individuali, il simbolo dei Takeda, lo yotsume (quattro occhi). Per quanto si tratti piuttosto di quattro quadrati o rombi, che nel nostro immaginario non richiamano facilmente la rotondità della pupilla umana.
Le truppe sono chiaramente impegnate in un assedio, e si stanno riposando ai piedi della fortezza assediata, dopo un cruento scontro.
Il messaggero porta buone notizie: i genieri dei Takeda sono riusciti a tagliare l'acqua alla torre numero tre, caposaldo della fortezza nemica.
Il consiglio di guerra ritiene che con questa mossa oramai il destino della fortezza sia segnato: occore solamente attendere, la guerra sta volgendo a favore del clan di Kai. Al centro, Takeda Shingen, alla sua destra il figlio Katsuyori. L'armatura sul fondo è l'autentica armatura di Shingen, di cui Kurosawa ottenne l'uso da parte del Takeda Jinja in Kofu che la custodisce.
Non è dello stesso parere il vecchio generale Taguchi, alla sinistra di Shingen, impersonato da Takashi Shimura uno dei fedelissimi di Kurosawa, qui alla sua ultima apparizione in un ruolo chiave (scomparirà nel 1982, a 77 anni). Tatsuya Nakadai nei panni di Shingen è invece per la prima volta protagonista di un'opera del maestro: un ideale passaggio di consegne.
Dopo i contrasti avuti nella lavorazione di Barbarossa (1965), si era rotto per sempre il sodalizio pluridecennale tra Akira Kurosawa e Toshiro Mifune. Interprete di Kagemusha avrebbe dovuto essere Kentaro Katsu, divenuto celebre negli anni 60 con la serie dell'avventuriero Zatoichi, ripresa poi recentemente - e con successo - da Takeshi Kitano. Ma anche con Katsu la convivenza o perlomeno la collaborazione si rivelò troppo difficile. Una fortuna probabilmente: riesce difficile immaginare un interprete all'altezza di Nakadai, che seppe rendere l'opera indimenticabile.
Taguchi confida riservatamente di non essere troppo ottimista sulla resa della fortezza: il morale del nemico è alto, e ogni notte in segno di sfida le note di un flauto risuonano dalla torre assediata. Le stesse truppe dei Takeda sono affascinate dalle note dell'artista misterioso, e ogni notte si ammassano in silenzio, avvolti nelle loro pesanti armature, per ascoltarle.
Shingen decide rapidamente, come è solito fare: si recherà lui stesso al castello quella notte, o per ascoltare quel flauto mirabilmente suonato da uno sconosciuto nemico, o per constatare dalla mancata "esibizione"che le forze ed il morale del nemico stanno venendo meno.
Calate le tenebre, i guerrieri di Takeda si ammassano silenziosamente sotto la torre numero tre, in attesa delle note del flauto. Che finalmente riecheggiano nella notte, mentre migliaia di uomini in arme trattengono il respiro per ascoltare in silenzio.
Ma d'improvviso l'incanto notturno è spezzato da un colpo di archibugio. Nel buio fitto nessuno è in grado di comprendere cosa sia successo, ma è chiaro che l'incanto è spezzato, i pensieri ed i sogni suscitati dalla musica devono essere riposti per ritornare a pensare e ad agire in funzione della guerra.
Il giorno seguente l'armata Takeda abbandona l'assedio e si ritira. Tra le lunghe file di soldati in marcia serpeggiano la perplessità ed il timore.
Quella ritirata improvvisa ed apparentemente senza motivo, quando la vittoria sembrava a portata di mano, lascia intuire che qualcosa di grave, probabilmente legato al misterioso episodio notturno, sia successo. Corre voce che il generale sia stato ferito da quella fucilata, se non addirittura ucciso.
Ma all'improvviso, annunciato dal rutilìo delle sue bandiere, Takeda Shingen fa la sua comparsa tra le truppe. I soldati si rinfrancano, ma ovviamente non può essere confortato da questa visione lo spettatore, che è al corrente dei retroscena.
Quella figura maestosa che incede a cavallo, assorta e pensierosa, rivestita da una rossa armatura, è il vero Shingen o non piuttosto il suo kagemusha?
Anche i principali nemici di Shingen sentono che qualcosa non va: Oda Nobunaga è un giovane ambizioso quanto energico e capace.
Viene interpretato da Daisuke Ryu, che ritroveremo 5 anni dopo nella parte di Saburo Ichimonj in Ran.
Il suo principale alleato è Yeyasu Tokugawa (Masayuki Yui). Alla notizia della possibile morte di Shingen, Tokugawa sembra tuttaltro che felice: dichiara di non potersi rallegrare delle difficoltà di un nemico valoroso. Questo complesso rapporto tra due personaggi obbligati dalla sorte a combattersi pur nutrendo reciprocamente rispetto e stima, era in realtà intercorso tra Takeda Shingen e ed il suo eterno rivale Uesugi Kenshin, che in Kagemusha è solamente una figura di contorno.
Ma Kurosawa scelse per ragioni artistiche, e forse anche per non appesantire troppo la trama con un eccesso di personaggi, di prendersi non poche licenze storiche. Anche la figura di Oda, così come da lui tratteggiata, è molto lontana da quella che ci ha tramandato la storia.
Tokugawa, signore del castello assediato, cerca di vederci chiaro. Convoca a rapporto l'archibugiere che quella notte ha sparato, e gli chiede spiegazioni. Che sono relativamente semplici. L'uomo, che riveste grado e mansioni non elevate, non è tuttavia uno sprovveduto, conosce bene il suo mestiere e ha un forte spirito di iniziativa.
Osservando durante il giorno che i nemici stavano preparando in un luogo appartato un seggio, ha giustamente concluso che un generale nemico, se non addirittura il comandante in capo, durante la notte sarebbe intervenuto sul campo di battaglia, posizionandosi sul quel seggio.
Lo ha quindi accuratamente preso di mira, segnandosi con meticolosità i punti di riferimento in modo da poter riposizionare l'archibugio esattamente nella stessa posizione anche nel buio della notte. Poi si è appostato, ha atteso ed infine al momento che gli è sembrato più opportuno ha fatto fuoco.
Richiestogli di dimostrare quanto dice, non ha difficoltà: prende di mira un alberello, segna con pietre e con una corda la posizione e l'elevazione dell'archibugio e poi fa fuoco senza minimamente guardare il bersaglio: centrato. Ora Tokugawa sa: Shingen è ferito, forse gravemente. In caso di sua morte l'esercito furioso avrebbe dato immediatamente l'assalto alla fortezza per vendicarlo, senza lasciare pietra su pietra. Il riitro improvviso può averlo deciso solo lui, per disorientare il nemico e non lasciargli punti di riferimento.
L'acuto Tokugawa, non a caso è destinato pochi anni dopo questi avvenimenti a divenire shogun, capostipite di una dinastia che governerà il Giappone per circa 260 anni e che darà a quel periodo il suo nome: l'era Tokugawa (detta anche epoca di Edo a causa dello spostamento della capitale da Kyoto alla attuale Tokyo).
La sua supposizione è giusta, Shingen è gravemente ferito e avvolto dalle bende, visibilmente sofferente, ha riunito il consiglio di guerra.
Sa che la sua ferita è grave, e detta le sue volontà agli attoniti consiglieri e al figlio Katsuyori (Kenichi Hagiwara): la sua eventuale morte deve essere tenuta segreta per tre anni. Il consiglio non sa ancora che lo sostituirà in ogni apparizione, non solo quelle pubbliche ma anche quelle di fronte alla corte, perfino di fronte ai familiari, il kagemusha.
Il feudo dovrà abbandonare ogni mira espansionistica e concentrarsi per difendere i suoi confini e la sua stessa sopravvivenza. Ma Shingen dichiara di non essere ancora pronto a morire: è saggio prendere precauzioni nel caso che le peggiori previsioni si avverassero, ma Takeda Shingen vuole vivere. Vuole continuare la sua lotta, vuole vincerla.
Il destino non glielo concederà: durante un momento di sosta, durante uno spostamento tra le suggestive montagne della regione del Kai, dall'interno della sua portantina Shingen non risponde ai richiami del fedele Taguchi.
La ferita si è riaperta: Takeda Shingen, mentre gli appare nel momento supremo la visione dell'entrata vittoriosa a Kyoto, muore.
Le truppe dei Takeda abbandonano le posizioni pagate col sangue ed iniziano a ritirarsi: i suoi consiglieri hanno deciso, e non potevano fare altrimenti, di eseguire le sue ultime volontà.
Non sanno ancora come provvedere alle altre disposizioni di Shingen: come celare per tre anni la sua morte, e come mantenere la difensiva tenendo a bada l'irruente Katsuyopri, figlio di Shingen. Per complicate ragioni dinastiche non potrà essere lui nominalmente il nuovo signore del feudo ma assumerà la reggenza in nome di suo figlio Takemaru, ancora bambino.
Nobukado ha pronta una prima sorprendente soluzione: il consiglio era già al corrente del ruolo di sostituto di Shingen da lui spesso assunto .
L'espediente tuttavia non era stato adottato sistematicamente: poteva ingannare solo da lontano e per un tempo limitato, Nobukado non sarebbe stato in grado di reggere a lungo il ruolo, soprattutto di fronte a chi conosceva bene - e da vicino -Takeda Shingen.
Durante una riunione notturna nell'accampamento chiede di farsi avanti ad un uomo: è un guerriero rivestito dall'armatura di Shingen e celato dall'elmo. L'apparizione, tra le fioche e tremolanti luci delle torce, è inquietante, allarmante. Senza dire nulla, dopo un attimo di esitazione, l'uomo si siede sullo scranno vuoto davanti ai consiglieri, col volto ancora nascosto. Finché, ponendo fine alla tensione giunta a livelli altissimi, Nobukado gli ordina di levare il menpo, la maschera di protezione che nasconde il viso.
E' Kagemusha, pronto infine per essere messo alla prova, dopo un lungo periodo di preparazione in cui, come apprenderemo man mano, non solo l'aspetto ma anche qualcosa dei pensieri e degli ideali di Shingen è penetrato in lui.
L'uomo ha un attimo di sconcerto: non conosce ancora la morte di Shingen, nulla gli è stato detto, e la strana riunione notturna rende inquieto anche lui.
Basta sentirlo parlare, basta anche soltanto notare le sue espressioni perché i consiglieri si rendano conto che si tratta di un sosia, tanto sono lontani dal modello gli atteggiamenti esteriori di Kagemusha.
Chi lo ha appena visto è sicuro che nessuno potrebbe mai cadere in un inganno tanto grossolano.
Ma questo basta per richiamare Kagemusha al suo ruolo: alla finzione, o forse, chissà, alla realtà.
In un attimo, ecco tornato Takeda Shngen. Kagemusha finge, recita, o non ha piuttosto con la frequentazione del suo modello iniziato ad assimilarne non solo i modi e la parlata ma anche le idee, gli ideali, gli obiettivi, la determinazione e la forza interiore?
Passato l'attimo di debolezza Kagemusha non imita più Shingen, ma piuttosto si incarna in Shingen: i consiglieri rivedono in mezzo a loro, davanti a loro, Shingen. L'ombra del guerriero ha assunto il suo ruolo.
Per quali vie misteriose il ruolo rivestito travalica così spesso la volontà e la natura stessa degli esseri umani che accettano di assumerlo? Nel bene o purtroppo nel male questa legge non scritta, che pure conosce tante eccezioni, tuttavia si impone talvolta senza alcuna alternativa e senza alcuna concessione, come fosse discesa dall'alto, da un livello non conoscibile e non contestabile dall'uomo.
Il lascito di Shingen non sarà facile, ed il peso maggiore è scritto che debba ricadere sull'anello più debole: Kagemusha.
Ancora tenuto all'oscuro della morte del signore, sottoposto a forti pressioni ed avvolto da oscuri presentimentii , nottetempo si reca furtivamente nella stanza, sorvegliata a vista, dove viene conservata un misterioso orcio in terracotta, deciso ad aprirlo per conoscerne il mistero.
La risposta che ne riceve è agghiacciante: nell'orcio è conservata la salma di Shingen.
Le guardie accorrono, i consiglieri arrivati subito dopo possono solo prendere atto del disastro.
Kagemusha viene imprigionato, e resiste ad ogni tentativo per persuaderlo a continuare la sua parte. Sarà poi rilasciato, considerandolo ormai inutile ma comunque non in grado di nuocere alla causa dei Takeda.
Il corpo di Shingen viene affidato alle acque del lago di montagna, avvolto dalle brume e squassato dal vento, ove si estendeva il dominio del Kai.
L'intero consiglio assiste dalla riva all'allontanarsi della barca, che scompare nella nebbia.
Solo un tonfo nell'acqua segnala il definitivo addio di Shingen a questa terra. Non ancora l'addio ai suoi sogni ed al suo disegno politico.
Da lontano hanno assistito alla scena le spie di Tokugawa e Nobunaga, che ormai comprenderanno l'inganno, e soprattutto Kagemusha: ancora indissolubilmente legato alle sorti di Shingen, per ragioni che non riesce a spiegarsi, si è recato sul posto ed ha ascoltato non visto i discorsi delle spie. Corre a mettere sull'avviso il consiglio.
Viene trattato tuttavia rudemente, e di nuovo cacciato.
E' allora che scatta definitivamente un meccanismo nell'anima di Kagemusha. E' in quel momento che realizza di non poter in alcun modo spezzare il vincolo col guerriero di cui lui è stato l'ombra. Continuerà ad esserlo.
Si getta ai piedi di Nobukado, l'unico che possa comprenderlo, avendo portato anche lui sulle spalle il grave peso di essere l'ombra del guerriero, ed implora di "essere usato", di non interrompere la missione cui è destinato.
Ormai non si tornerà più indietro: per confondere le idee alle spie, il misterioso episodio della deposizione dell'orcio nel lago viene spiegato ufficialmente come una offerta alle divinità locali per placare una involontaria offesa.
Kagemusha inizia la sua nuova vita passando in rassegna le truppe. Ancora non si rende conto di trovarsi, per riprendere un noto modo di dire giapponese, che ispira anche il tiitolo della prima opera jidai di Kurosawa, a camminare sulla coda di una tigre.
Travolto dall'esaltazione del momento, sprona il cavallo al pieno galoppo, rispondendo col bastone di comando al saluto dei "suoi "cavalieri".
Kagemusha ha chiesto troppo alla fortuna: il cavallo gli prende inesorabilmente la mano e cade rovinosamente, fortunatamente quando ormai si è allontanato dall'esercito schierato e nessuno lo può vedere.
Nobukado e gli altri lo rimproverano aspramente. Ma le prove che dovrà affrontare Kagemusha saranno ancora molte, e le cadute inevitabili.
Questo sarà solo il primo di una serie di passi falsi, che riusciranno tuttavia a renderlo pienamente consapevole della gravità del suo compito e della necessità di mantenere sempre lo stesso livello di concentrazione, in ogni momento della giornata, per il resto della sua vita come ombra del guerriero.
Anche la prova successiva è destinata a mettere a dura prova le capacità di concentrazione e di estraniamento di Kagemusha.
Il ritorno in pompa magna al castello dei Takeda, ove sarà al centro dell'attenzione in ogni momento della giornata e dove lo attendono le truppe schierate, i dignitari e tutto l'apparato di corte, le concubine.
Kurosawa ama interrompere i momenti di tensione con parentesi umoristiche, e ama prendersi gioco delle vanità umane.
Il cavallo del messaggero che è arrivato al galoppo per annunciare l'imminente arrivo del corteo di Shingen ha lasciato irriverenti tracce del suo passaggio sul percorso ove deve passare il corteo.
Mentre già si susseguono i comandi degli ufficiali che ordinano il saluto alle truppe schierate fuori dalla porta, mentre già si ode lo scalpiccio della testa del corteo, si provvede a ripulire febbrilmente dalle tracce di letame.
Non contento dell'opera dei suoi sottoposti lo stesso capo del cerimoniale toglie di mano la scopa ad un addetto e provvede al rimuovere le ultime tracce. Appena in tempo! L'onore è salvo.
Kagemusha è ora dentro al castello: signore e padrone di un luogo sconosciuto e di pesone sconosciute, che si suppone lui conosca meglio di se stesso e con cui dovrà trattare senza la minima esitazione e senza potersi permettere alcun passo falso. E' evidente il suo sgomento.
La prova successiva metterà Kagemusha a dura prova. Il nipote ed erede Takemaru, con la spontaneità del bambino, non tenendo conto dell'apparato e delle apparenze esteriori, indifferente al cerimoniale di corte sente istintivamente che quell'uomo non è il suo adorato nonno e lo grida al mondo.
Condizionato ad assumere costantemente atteggiamenti rigorosamente controllati, Kagemusha ha per una volta una reazione istintiva, che si dimostrerà la più appropriata: con gesto affettuoso riveste il capo del bambino col suo elmo, come fosse un giocattolo.
E confessa a Takemaru di essere effettivamente cambiato, di non essere più lo stesso Shingen che era partito da quel castello; la guerra e le vicende umane cambiano inesorabilmente gli uomini.
Ma ora è tornato a casa, e saprà anche tornare ad essere il nonno di Takemaru.
L'ennesimo momento di crisi sembra superato, tra il sollievo generale. Ma l'espressione di Katsuyori lascia comprendere che non è in grado di accettare la situazione.
Già costretto ad accettare l'ingombrante presenza del padre, che ne frenava l'irruenza e ne smorzava le ambizioni, potrà assistere passivamente alla presa di possesso di tutto quanto lui ritiene suo da parte di un impostore?
Potrà acconsentire ad essere comandato, e da un'ombra, quando è arrivato finalmente il suo momento e tocca a lui decidere del destino dei Takeda?
Nobukado, l'unico che possa comprendere il dramma di Kagemusha, avendo rivestito anche lui lo scomodo ruolo di ombra del guerriero, lo segue costantemente, e gli ricorda che anche in sua assenza sarà sempre seguito in ogni momento della sua giornata.
Celati da paratie all'interno della sua stanza, tre attendenti e due valletti, che sono al corrente della sua vera identità, lo controlleranno giorno e notte.
Legati da un vincolo indissolubile alla memoria di Shingen, attendenti e valletti non nascondono il loro disprezzo nei confronti dell'ombra, così visibibilmente e tangibilmente inadeguata a rappresentare la grandezza del signore.
Però l'insulto ha l'effetto provvidenziale di un richiamo all'ordine.
Kagemusha si rende conto che nessun momento gli è concesso in cui poter abbassare la guardia. Istantaneamente riprende ad essere Shingen.
Gli astanti si rendono conto a loro volta della grandezza del momento: davanti a loro non è più in quell'istante Kagemusha, ma Shingen. D'istinto riprendono la posizione formale dovuta davanti al signore, Anche loro debbono incarnarsi nella loro parte, solo così renderanno possibile il compito dell'ombra.
Ovviamente le concubine conoscono Shingen meglio di chiunque altro, e nessuno potrebbe ingannare l'indomabile cavallo da battaglia di Shingen, che solo da lui si lasciava cavalcare. Viene quindi per precauzione prescritto che il signore, in conseguenza delle recenti ferite di guerra, si astenga dal cavalcare e non onori della sua presenza il letto delle concubine. Ingannarle sarà comunque arduo, e anche qui Kagemusha vacilla e sembra sul punto di cadere. Ma resisterà.
Kagemusha scopre giorno per giorno la grandezza dell'uomo di cui è divenuto l'ombra. Una domanda del piccolo Takemaru, del cui affetto ha iniziato a nutrirsi, porge l'occasione ad un attendente per illustrare il significato dello stendardo dei Takeda: porta il seguente motto:
Veloce come il vento,
Implacabile come il fuoco ,
Silenzioso come la foresta,
Irremovibile come la montagna.
Sono parole che Takeda Shingen, fervente studioso, aveva tratto dall'Arte della guerra del saggio cinese Sun tzu ed aveva fatto sue. L''emblema dei suoi leggendari reggimenti di cavalleria erano gli ideogrammi fu (vento), ka (fuoco) , la fanteria portava lo stendardo rin (foresta).
Quando l'esercito dei Takeda entrava in battaglia, la carica della cavalleria era veloce come il vento, seguiva l'attacco della fanteria silenziosa come la foresta, e infine la seconda andata di cavalleria, devastatrice ed implacabile come il fuoco. L'ideogramma zan (montagna, yama in giapponese) rappresentava lui stesso, saldo ed immobile come una montagna nella guida delle battaglie, determinato a logorare avversari e nemici con l'arma della impassibilità agli eventi.
L'occasione di mettere a profitto quanto appreso arriva immediatamente.
Yeyasu Tokugawa decide un attacco provocatorio nella terre del Kai, per saggiare la reazione del clan e confermare o smentire i sospetti, mai del tutto messi a tacere, sulla vera sorte di Shingen.
Si rinnova il rituale dell'affannoso arrivo dei messaggeri a briglia sciolta, i tamburi di guerra danno l'allarme e chiamano di nuovo a raccolta i samurai Takeda.
Il gran consiglio si riunisce: Kagemusha è stato istruito da Nobukado con somma cura.
Davanti all'assemblea dei consiglieri e dei dignitari deve ascoltare attentamente il parere di ognuno dei consiglieri, ed infine alzarsi senza prendere alcuna decisione, congedando i presenti.
Ma Katsuyori lo provoca, gli chiede direttamente e pubblicamente di comunicare il suo comando: tenta di forzargli la mano, di obbligarlo a consentire un contrattacco.
E' forse il momento più difficile per l'ombra del guerriero.
Infine Kagemusha, o forse dovremmo dire Shingen che parla ormai attraverso la sua bocca e si esprime attraverso il suo corpo, si pronuncia: "Una montagna non si muove."
Le truppe dei Takeda rimarranno immobili e non reagiranno all'attacco.
Il guerriero e la sua ombra su questa terra sono definitivamente legati l'uno all'altro, ma il vincolo non è lieve, Kagemusha lo sente giorno e notte.
Sente che Shingen lo chiama, e nei suoi sogni lo vede apparire quasi ogni notte: indissolubilmente legati eppure irragiungibili l'uno con l'altro.
Kagemusha si sveglia spesso dai suoi sogni od incubi sudato ed in preda al panico, senza poter comprendere cosa vogliano da lui il destino e lo stesso Shingen.
E' una fortuna per lui oppure piuttosto un tragico destino, che gli eventi lo chiamino ben presto all'azione senza dargli più modo di pensare?
Oda Nobunaga ha deciso di rompere gli indugi ed attaccare i Takeda in forze, senza più delegare al suo alleato Tokugawa.
Vestito come sempre con una armatura di foggia namban, ossia di tipo occidentale, avvolto in un manto di porpora che ricorda quello dei generali romani, guida le sue truppe verso le frontiere del Kai.
La chiesa cattolica, che aveva iniziato alcuni decenni prima l'evangelizzazione del Giappone sotto l'impulso di san Francis Xavier, ha deciso di appoggiare Nobunaga non solo con la forza delle armi europee , ma anche con tutto il peso della sua ideologia e della sua influenza.
Le truppe di Nobunaga ricevono la benedizione, che il condottiero accetta con un "Amen".
L'ennesimo messaggero raggiunge la fortezza dei Takeda, ma stavolta il pericolo non viene dall'interno.
Katsuyori non intende rimanere passivo di fronte all'attacco di Nobunaga, e lo ha prevenuto investendo con tutti i suoi uomini il castello di Takatenjin, principale caposaldo nemico, senza attendere le decisioni del feudo.
La mossa è rischiosa, l'esito incerto, ma i consiglieri non possono nascondersi che non è priva di senso e che è inevitabile appoggiarla piuttosto che lasciare Katsuyori ad affrontare da solo l'intera armata nemica.
Liberata con una sanguinosa scaramuccia una collina che domina la fortezza, preceduto da una nutrita scorta di fanteria e cavalleria quello che tutti credono Takeda Shingen arriva tra un rutilìo di bandiere sul teatro della battaglia, da dove le sue forze osserveranno gli eventi senza necessariamente intervenire.
Il magistero di Kurosawa si manifesta appieno in questa lunga sequenza. La battaglia ci viene rappresentata come una sanguinosa, drammatica e spettacolare partita a scacchi.
Le mosse dell'uno e dell'altro fronte si susseguono vertiginosamente, seguendo una logica che l'incalzare degli eventi rende difficile analizzare ma la precisione chirurgica e la velocità dei movimenti delle truppe che si muovono in un impervio terreno che li cela gli uni agli altri manifestano inequivocabilmente.
Dall'alto della collina, mentre è calata la notte che rende ancora più indecifrabile il susseguirsi degli attacchi e contrattacchi, Kagemusha immobile sul suo seggio osserva gli uomini combattere intorno a lui, vede le sue guardie del corpo morire proteggendolo col loro corpo. Il suo timore, lo sconvolgimento della sua mente di fronte a qualcosa a cui nessuno può essere preparato, è evidente.
Eppure si domina, e mentre chi gli sta attorno continua a raccomandargli la calma, è lui con voce tuonante ad intimare ai soldati di rimanere fermi ed immobili, morendo al loro posto se necessario, trasformandosi nella montagna irremovibile che fu Shingen.
Per Katsuyori questa che avrebbe potuto e dovuto essere la sua giornata rischia di trasformarsi nella conferma e nella continuazione di un incubo: non è mai riuscito a liberarsi della pesante tutela di Shingen quando egli era in vita, ora sembra che non riesca nemmeno a liberarsi dalla sua ombra.
Katsuyori moltiplica gli attacchi, ed infine la fortezza cade tra le fiamme. Ma sulla vittoria di Katsuyori permane l'ombra di un sospetto: è stato lui a vincere, o è stata la presenza apparentemente inattiva di Shingen sulla collina ad intimorire il nemico, a condizionarlo, a trascinarlo alla sconfitta? Anche Katsuyori ha perso la sua battaglia.
Oda Nobunaga e Yeyasu Tokugawa tengono consiglio: i loro dubbi non sono del tutto sopiti, la sorte di Shingen rimane incerta ma è chiaro tuttavia che il feudo di Kai ha ancora la capacità di resistere, ed è ben guidato. La loro prossima mossa dovrà attendere.
Kurosawa si prende ora una delle sue frequenti licenze storiche, giustificate dalla particolare intonazione che intende dare ad alcuni episodi, tradendo la lettura fedele degli avvenimenti per darne un'altra più impressionistica e in definitiva più artistica. Per rimarcare l'orientamento esterofilo di Nobunaga e la sua dipendenza da tecnologie ed ideologie straniere, il maestro ce lo mostra intento a gustare con visibile piacere una coppa di vino.
Sappiamo invece, dalla testimonianza del padre gesuita Luis Frois, che nel 1569 ebbe modo di incontrare Nobunaga, citata da Giovanni Granone in Aikido, anno 1978, quanto segue:
"Deve avere circa 37 anni, è alto, magro, la barba rada., la voce chiara usa al comando, coraggioso, tempera la gisutizia con la pietà ... Non beve vino, ha maniere brusche, è sprezzante verso i re e i nobili del Giappone ... sprezza le divinità sia buddhiste che shintoiste e ogni forma di idolatria e di superstizione. Appartiene alla setta Hokke ma dichiara che non esistono né Creatore dell'Universo, né immortalità dell'anima, né vita dopo la morte."
Yeyasu Tokugawa ci viene invece rappresentato nell'atto di tossire disgustato al sapiore del vino. Una allusione di Kurosawa alla politica di rifiuto del contatto con la cultura occidentale?
Già Toyotomi Hideyoshi successore di Oda aveva iniziato a reprimere la religione cattolica, ma solo dopo l'avvento della dinastia Tokugawa, inziaita con la presa del potere da parte di Yeyasu dopo la morte di Hideyoshi, che il Giappone avrebbe rifiutato di aprirsi all'occidente ed al cristianesimo.
Ma nel frattempo Oda Nobunaga continua la sua ascesa verso il potere, appoggiato dagli archibugi acquistati dagli europei e forte del simbolo del cristianesimo che accompagna le sue truppe, ma rimandando a tempi più propizi la resa dei conti con i Takeda.
Anche Katsuyori ha deciso di attendere: il tempo dovrà inesorabilmente portargli il potere che desidera, visto che ogni tentativo di coglierlo prima del momento sembra destinato ad infrangersi.
Come si infrangono inutilmente sulla riva le onde del lago ove riposa Shingen e su cui si affaccia il suo castello.
E la tregua finisce. I tre anni indicati da Shingen sono quasi passati, sta per giungere l'ora di porre fine alla finzione. Kagemusha ormai si è abituato al suo ruolo, e perfino le guardie hanno allentato la vigilanza e lo lasciano spesso solo, padrone del castello ove in realtà passa gran parte del suo tempo col piccolo Takemaru.
Solo Nobukado è inquieto. Non per i Takeda, ma proprio per Kagemusha: il tempo è quasi scaduto, e l'ombra del guerriero dovrà abbandonare il suo ruolo. Ma che ne sarà di lui, saprà resistere al trauma di essere sopravvissuto al suo ruolo, alla sua missione, saprà l'ombra separarsi dal guerriero?
Un drammatico incidente arriva ad interrompere prematuramente l'avventura di Kagemusha.
Per assecondare un desiderio infantile di Takemaru, ormai sentendosi troppo sicuro di sé, ha tentato di cavalcare l'indomabile cavallo da battaglia di Shingen.
Invano: con la sicurezza dell'istinto animale il cavallo ha riconosciuto l'impostore e lo ha gettato a terra.
Le concubine accorse a soccorrere il loro signore possono capire solo allora che il suo corpo è privo delle inconfondibili cicatrici di guerra che lo segnavano.
Anche loro si rendono conto di avere a che fare con un impostore, la commedia è finita. Gli effetti pratici della rivelazione non sembrerebbero rovinosi, era dopotutto previsto che la messinscena finisse di lì a poco, ma sono piscologicamente devastanti.
Soprattutto per Kagemusha, che si stringe disperato al petto per l'ultima volta il piccolo Takemaru, cui si è legato da profondo affetto.
Ma il destino si deve compiere.
Kagemusha, sotto la pioggia implacabile che tanto spesso Kurosawa chiama ad accompagnare i momenti cruciali delle sue opere, viene accompagnato alla porta e compensato per i suoi servigi.
E lui, ladro abituato a prendere con indifferenza, mediante frode o violenza, quello che non gli appartiene, si sente ferito a dover accettare un compenso materiale per qualcosa che non solo non può essere pagato, ma per cui sente di essere ancora lui in debito.
Non vuole, non vorrebbe andarsene. Ma dopo essere stato il signore, è ora divenuto solamente un impostore, e l'affetto ed il rispetto che gli erano stati tributati in quegli anni gli ritornano indietro sotto forma di odio e disprezzo. Viene cacciato via a sassate dalle guardie.
Oda Nobunaga viene avvertito della scomparsa, ormai definitivamente accertata, del suo più grande nemico. La sua risposta non manca di lasciare sbalordito lo spettatore occidentale: estrae il ventaglio ed improvvisa una danza. Non sta gioendo per la morte di Shingen, la sta piangendo.
In una conversazione di molti anni fa il maestro Hideki Hosokawa confidava ad alcuni suoi allievi che per quanto l'opera non fosse del tutto esente da critiche, soprattutto per l'eccessiva semplicizzazione di alcune vicende per incontrare i gusti del pubblico occidentale, quella scena era quanto di più giapponese, di più conforme allo spirito tradizionale giapponese, si potesse immaginare. Per potersi spiegare paragonò Oda e Takeda a due praticanti di aikido, l'arte di cui egli è maestro.
Per confrontarsi, per migliorarsi, ogni praticante cerca un compagno di allenamento al proprio livello, anche se sa di doversi impegnare di più, forse anche al limite delle proprie forze, e si rende conto di non poter praticare con la stessa intensità con compagni di livello tecnico o maturità nferiori. Allo stesso modo Oda Nobunaga manifestava con la sua danza il dolore di essere rimasto solo, senza nessuno che lo potesse stimolare ad una ulteriore crescita interiore.
La battaglia di Nagashino, che ebbe luogo nel 1575, rimane uno degli episodi indelebili della cruenta storia del Giappone feudale. Sotto il comando di Katsuyori Takeda venne portato un violento attacco contro il castello di Nagashino, che minacciava le linee di sussistenza dei Takeda,.
Nominalmente sotto la signoria di Yeyasu Tokugawa, il castello dopo che un samurai di nome Torii Suneemon era riuscito nottetempo a violare il blocco per avvertire dell'attacco, venne tuttavia soccorso dalle forze riunite di Tokugawa e del suo signore Oda, cui spettò il comando supremo.
Attestati dietro delle palizzate, che avevano all'origine lo scopo di rallentare la carica di fanti e cavalieri, i quasi 40000 uomini delle forze di Oda, tra cui alcune migliaia di archibugieri, attesero la carica del'armata dei Takeda, che ammontava a circa 12000 uomini e il cui nerbo era costituito come sempre dalla celeberrima cavalleria, divisa in due reggimenti: quello del Vento che attaccava per primo e quello del Fuoco che spazzava via il nemico dopo che anche la fanteria, il Bosco, ne aveva fiaccato la resistenza.
Forse la pioggia battente e la breve distanza che separava il bosco dalle linee nemiche lasciarono pensare che gli archibugi sarebbero stati in gran parte inutilizzabili e che la carica avrebbe spezzato la resistenza del nemico.
Non fu così: fu la fine dei Takeda come clan organizzato in grado di lottare per la supremazia assoluta del Giappone.
Pochi anni dopo Katsuyori, sopravvissuto alla battaglia, subì un'altra decisiva sconfitta e commise seppuku assieme al figlio, che si chiamava in realtà Nobukatsu e non Takemaru. In questa stampa di Utagawa Toyonobu (1859-1886) vediamo Katsuyori Takeda che guida la carica durante la battaglia di Nagashino.
Nel capolavoro di Kurosawa veniamo a sapere dal dialogo dei comandanti prima della battaglia che sono consapevoli del destino che li attende, e chiedono solo di porre onorevolmente fine ai loro giorni sul campo di battaglia. Sui loro uma jirushi, stendardi di comando, gli ideogrammi fu (vento), ka (fuoco) e rin (foresta). Nella realtà, otto dei ventiquattro generali dei Takeda persero la vita nella mischia.
Le cifre sulle perdite di uomini sono contrastanti, oscillano tra i 3000 e gli 8000 morti tra i Takeda, con perdite non rilevanti tra i nemici: non si arrivò ad una lotta corpo a corpo, le cariche incessanti vennero spezzate dal fuoco degli ashigaru, samurai di basso rango armati di teppo (archibugio).
Oda Nobunaga, coperto come sempre da una armatura di ispirazione europea, o più probabilmente fornitagli dagli alleati europei, sorveglia la disposizione delle sue truppe. La sconfitta dei Takeda gli darà lo slancio per sperare di conquistare la supremazia assoluta in Giappone, ma il suo sarà solo un breve interludio e il trionfo solo parziale. Era nato nel 1534, ed era quindi più maturo di come lo rappresenta Kurosawa, morirà nel 1582, pochi mesi dopo avere soggiogato definitivamente il feudo di Kai.
Gli succederà il suo vassallo Toyotomi Hideyoshi, che finalmente arriverà al potere supremo. Solo con la scomparsa di questultimo scoccherà finalmente l'ora del paziente Tokugawa. Recita un noto detto giapponese:
Nakanunara koroshite shimae hototogisu.
Nakazutomo nakasete mishoo hototogisu.
Nakanunara nakumade matoo hototogisu.
Se non canta, ucciderò il cuculo.
Anche se non canta, farò cantare il cuculo.
Se non canta, aspetterò che canti il cuculo.
Il primo verso allude allo spietato Nobunaga, il secondo all'abile Hideyoshi, il terzo al paziente Tokugawa.
Gli ashigaru di Nobunaga, per quanto in numero relativamente ridotto, decideranno le sorti della battaglia.
Contrariamente alle sue abitudini Kurosawa rinuncia a inserire la furia degli elementi nella battaglia finale, che nella sua opera si svolge sotto un cielo azzurro e quasi terso, ingombrato solo da qualche nuvola.
La carica della cavalleria Takeda sembra irrefrenabile. Kurosawa inizia in questa opera l'utilizzo intenso di qui cromatismi che torneranno poi in Ran. Non aveva evidentemente potuto utilizzarli in precedenza, essendo questo il suo primo filmjidai che faccia uso del colore. I sashimono del reggimento del fuoco sono evidentemente rossi.
La carica della fanteria è dominata invece dal colore verde dei sashimono: quello della foresta.
Le pallottole degli ashigaru sono però destinate ad infrangere lo slancio dei guerrieri Takeda.
Si abbattono i cavalieri blu che militano sotto le insegne del vento
Si abbattono i verdi fanti della foresta.
Si abbatte al suolo infine la terza ondata del reggimento a cavallo del fuoco.
Impartendoci l'ennesima lectio magistralis Kurosawa non esaspera l'effetto delle terribili scariche di fucileria sui guerrieri che muovono all'assalto.
L'impatto di quei proiettili viene reso drammaticamente evidente dalla reazione dei comandanti, che sobbalzano a vedere le loro truppe falciate come grano maturo, e sembrano volersi slanciare contro le linee nemiche, quasi ad arrestare il piombo mortale con i loro corpi e le loro volontà.
Il solo Nobukado rimane immobile, impietrito, apparentemente impassibile, sul suo scranno di battaglia. E' evidente che già immaginava, che già sapeva, è evidente che è rassegnato al destino dei Takeda, sa che nulla ormai può fare.
Nobukado scomparirà 7 anni dopo la battaglia di Nagashino, quando Nobunaga avrà ragione di ogni resistenza e dopo aver invaso il territorio del Kai metterà a morte i suoi rivali.
Un ramo della famiglia guidato da Takeda Kunitsugu si rifugiò nel feudo di Aizu nel nord e sopravvisse fino ai nostri giorni, trasmettendo l'arte di combattimento ancestrale conosciuta oggigiorno come daito ryu aikijujutsu e comunemente come Takeda ryu. Si dice sia stata introdotta da Minamoto Yoshimitsu, da cui discendevano i Takeda e che fu nel XII secolo il primo signore del Kai, sulla base di arti precedenti come il mitico tegoi, arte di combattimento degli dei, ed il sumai michie. Dal daito ryu aikijujutsu, che ha ancor oggi come emblema lo yotsume, attraverso l'insegnamento del maestro Takeda Sokaku, deriva una delle maggiori arti marziali moderne: l'aikido, elaborato dal grande maestro Ueshiba Morihei.
L'occhio del maestro Kurosawa indugia a lungo sul campo di battaglia e sui corpi esanimi od agonizzanti, coperti di polvere e di sangue, dei samurai Takeda. Un tocco di agghiacciante realismo è dato dalle sofferenze dei cavalli abbattuti ma ancora in vita, che tentano di rialzarsi o vagano senza meta in mezzo alla carneficina.
Kurosawa fu pesantemente criticato per avere inflitto inutili sofferenze agli animali, e si giustificò spiegando di averli semplicemente fatti addormentare: i loro movimenti confusi, i loro vani tentativi di rialzarsi, erano quelli di chi si risveglia dal sonno e non quelli di chi si trova in agonia.
Altri occhi hanno assistito alla battaglia, e non possono rimanere impassibili come quelli di Nobukado. E' Kagemusha, che si sente ancora irreversibilmente legato alle sorti del guerriero di cui è stato l'ombra e dell'intero clan.
Non ha potuto resistere lontano dagli eventi ed in qualche modo ha fatto in modo di essere presente ed assistere, inorridito eppure irresistibilmente attratto, alla battaglia.
Battaglia cui sente di non poter mancare: raccoglie da terra una lancia e corre a perdifiato verso le linee nemiche.
Finché un misericordioso colpo di archibugio lo abbatterà, dandogli la morte che cercava.
Il suo corpo esanime viene portato via dalla corrente del fiume Rengogawa, presso cui si è svolta la battaglia.
Accanto a lui viene trascinato dalle acque anche il nobori, il grande stendardo di battaglia del clan dei Takeda.
E' azzurro e riporta una scritta:
Veloce come il vento,
Implacabile come il fuoco ,
Silenzioso come la foresta,
Irremovibile come la montagna.