Jidai
Akira Kurosawa: 1965 - Barbarossa (Akahige)
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Akira Kurosawa: Akahige
1965
Toshiro Mifune, Yuzo Kayama
Dal romanzo Akahige shinryotan, di Shugoro Yamamoto
Il ritratto di Akahige è di Mauro Cerri
Altre opere sono visibili sul suo sito.
Poco prima dell'epoca Meiji, nella prima metà dell’800, un giovane di casta samurai, Noboru Yasumoto, ha terminato gli studi di medicina. Il suo curriculum è brillante e gode di buoni appoggi, e il suo scopo è di diventare medico di corte.
Ma dopo essersi brillantemente diplomato viene con sua sorpresa assegnato per il periodo di pratica ad un oscuro ospedale in un quartiere malfamato, burberamente diretto dal dottor Niide soprannominato Barbarossa (Akahige). Lì scoprirà suo malgrado che la missione del medico è di curarsi dei più deboli e non di salire la scala sociale.
Dopo un lungo e durissimo praticantato rifiuterà la “promozione” guadagnatasi proprio col servizio degli umili, e chiederà di rimanere con l’imbarazzato Akahige, che non sapendo come esprimergli la propria gratitudine se la caverà con una burbera alzata di spalle, allontanandosi senza dir nulla.
Protagonista assoluto dell'opera, nella parte di Akahige, è Toshiro Mifune. Contro la volontà dello stesso Kurosawa, che per questa ragione ruppe definitivamente i rapporti con lui. D'altra parte lo stesso Kurosawa, nella sua autobiografia, spiega che l'unico modo per impedire a quello straordinario attore di impadronirsi del centro della scena era di non farlo apparire del tutto.
Barbarossa avrebbe dovuto essere una figura con molte sfaccettature, non priva di lati negativi, e l'opera avrebbe dovuto essere corale, senza alcuna figura che spiccasse troppo pù delle altre.
Mifune fece al contrario di Akahige, e non è facile comprendere come sia riuscito ad imporsi nonostante tutto, un eroe. L'opera racchiude ugualmente le vicende di numerosi personaggi, ma è soprattutto la storia di Akahige e Yasumoto.
Normalmente poter identificare una precisa figura di protagonista è proprio quello che chiede il pubblico, il film tuttavia fu un fiasco e segnò l'inizio di una lunga fase di inattività di Kurosawa, che dal 1942 al 1965 aveva già girato tredici delle sue trentuno opere ma dopo Akahige dovette attendere ben dieci anni prima di poter riprendere, e dovette accettare di lavorare all'estero - in Unione Sovietica - essendo completamente discreditato agli occhi dei produttori giapponesi.
Non è facile comprendere i motivi di questo fallimento. Per la prima volta - e rimase l'ultima - Kurosawa tentava di mescolare le sue tematiche preferite: l'epicità, la grandiosità e la meticolosità che traspare dalle opere jidai incentrate su grandi figure di uomini straordinari - nel bene, nel male o sospesi tra l'uno e l'altro - ed il crudo realismo, la denuncia sociale che furono la costante delle sue opere gendai, quasi sempre rigorose ed impietose analisi di microcosmi popolati di piccoli personaggi e derelitti che hanno rifiuutato la società o ne sono stati rifiutati.
E' possibile che questo tentativo di mescolare i due generi abbia disorientato pubblico e critica, che hanno accolto quasi sempre con entusiasmo le opere jidai ma si sono dimostrati più tiepidi nei confronti di quelle gendai, fatta eccezione per Ikiru (Vivere) considerata da molti il suo capolavoro.
Certamente Akahige non è completamente all'altezza delle ambizioni dei suoi realizzatori. Kurosawa probabilmente si è dilungato troppo anche ove sarebbe bastato accennare, lasciando allo spettatore il compito non difficile di ricostruire quanto che non veniva esplicitamente dichiarato, eppure non si può assolutamente dire che sia un fallimento. Affascina ed inchioda alla sedia, se si ha il coraggio - che indubbiamente è necessario - di accettare la visione di immagini e di situazioni sgradevoli e la pazienza di adattarsi ad una certa lentezza dell'azione scenica.