Jidai
Bolognini S.: Come vento, come onda
Come vento, come onda
Dalla finestra di uno psicoanalista, i nostri (bi)sogni di gloria
Stefano Bolognini
Bollati Boringhieri, 1999 (2. edizione 2008)
ISBN 88-339-1167-5
Cosa ci fa su queste pagine tecniche la recensione di un libro che tratta evidentemente di psicoanalisi, o perlomeno del mondo visto dalla finestra di uno psicoanalista? Per la verità, perlomeno a giudicare da certi discorsi che si leggono nei forum telematici o che si orecchiano negli spogliatoi, la presenza di uno o più psicoanalisti ogni un certo numero di praticanti di aikido potrebbe sembrare cosa saggia ed opportuna. Ma questo sarebbe un altro discorso e ci porterebbe troppo lontano.
Cominciamo invece dall'inizio: alcuni anni fa allo sportello telematico dell’Aikikai d'Italia giunse per posta elettronica una richiesta di maggiori informazioni sull’aikido: veniva motivava con l'esigenza di seguire gli insegnamenti del leggendario maestro Tadà (sic), di cui lo scrivente aveva appreso leggendo appunto questo libro. Trovarlo, acquistarlo e leggerlo divenne naturalmente un obbligo. Della raccolta di 10 episodi tratti dalla vita dell’autore ce n'è uno, quello che riguarda appunto il maestro Hiroshi Tada, fondatore dell'Aikikai d'Italia, che ha ispirato il titolo dell’opera ed è però l'unico che abbia attinenza all'arte dell'aikido. Ma lasciamo la parola a Bolognini.
Com’era all’epoca il Grande Maestro Hiroshi Tadà? Non ho più saputo nulla di lui, se non che gli inizi degli anni 70 si era stabilito a Ginevra, dove insegnava l’aikido ai massimi livelli. Non so se sia rimasto lì o se sia tornato in Giappone, se sia vivo o se sia morto; se fosse ancora vivo, credo che dovrebbe avere adesso una novantina di anni.
Trent’anni fa, quando per un intero pomeriggio rimasi a bocca aperta, assieme ai miei compagni, durante il suo “stage”, doveva essere appunto verso la sessantina; era un giapponese magrissimo, dall’espressione severa e profonda, ascetica ma ricca di interiorità.
E’ evidente qui ma anche dopo, ma non staremo a sottolinearlo ogni volta, che l’autore è stato tradito dalla memoria o gioca con civetteria con i suoi ricordi, ricostruendo una situazione e un personaggio dai contorni mitologici. Ove si dimostra che anche gli psicoanalisti hanno sogni e (bi)sogni.
Per chi non avesse a disposizione gli strumenti per rendersene conto, ricordiamo che si sta parlando evidentemente di un episodio del finire degli anni sessanta, quando il maestro Tada non aveva ancora compiuto i quaranta anni; per il suo aspetto fisico rimando alla foto.
Proviene dall'archivio dell'Aikikai d'Italia e dovrebbe risalire al raduno di Venezia del 1968. Uke è il maestro Katsuaki Asai. Per il resto chiunque partecipa ai suoi raduni ha ogni elemento necessario a farsi una idea di persona.
Ma veniamo al momento topico del racconto di Bolognini: la dimostrazione del maestro.
Giunse così il momento del gran finale, come negli spettacoli dei fuochi d’artificio. Lo speaker annunciò che il Maestro Hiroshi Tadà avrebbe affrontato tutti gli avversari contemporaneamente, a mani nude, consentendo loro l’uso dei bastoni da combattimento.
...
L’impenetrabile Tadà cominciò a parlare, divenendo assorto e poetico, squisito dicitore dei fatti che andavano a compiersi, in perfetta atmosfera zen, al di là della volontà dei partecipanti e della sua personale, quasi trascurabile intenzione terrena. Tadà disse, in un italiano rudimentale: “Come vento spinge onda...” (e giù tre aggressori, vittime della spinta inerziale delle loro impure bastonate) “... così onda spinge sabbia..” (e tre altri lunghi distesi, uno addirittura in braccio agli spettatori della prima fila); “... come sabbia lega vento...” (vari nemici attorcigliati uno sopra l’altro) “così vento spinge onda...” (altri decolli, altri atterraggi, altra catasta).
...
Poi, siccome nell’ordine universale tutto deve umilmente avere un termine, Tadà si indurì, e la metafora poetica si fece minacciosa: “... come scoglio di pietra...”. Non era un bell’annuncio, e quel che successe poi – essendosi egli fatto scoglio di pietra – ve lo lascio immaginare. All’uscita dal Palazzetto sciamammo tutti lentamente, senza grandi commenti, con l’evidente necessità di metabolizzare un po’ per conto nostro quel personaggio straordinario, prima di poterlo rievocare di tanto in tanto dalla dimensione mitica in cui esso si era comunque – e giustamente – ormai collocato.
Dopo avere rievocato altri episodi della vita del maestro, che dobbiamo purtroppo classificare nella categoria del sentito dire, e al cui confronto impallidisce anche la fantasiosa ricostruzione di quel “leggendario” enbukai, in cui verosimilmente era stata data una semplice per quanto sicuramente elevata e spettacolare dimostrazione di futaridori (evasione dalla presa di più attaccanti) Bolognini giunge alla conclusione ed al commento, ovviamente in chiave psicoanalitica.
Dopo anni di studi e riflessioni sulla natura e le funzioni dell’ideale dell’Io (prima comparsa del concetto: nel 1914 in “Introduzione al narcisismo”), siamo in grado oggigiorno di abbozzare a grandi linee alcuni punti fermi.
Il primo è che in presenza di un eccesso di ideale dell’Io (o – il che non è lo stesso – con un’ideale dell’Io troppo elevato) l’individuo ha praticamente la garanzia di rovinarsi l’esistenza, alla perenne rincorsa di un sé stesso irrealizzabile: il confronto con ciò che si sarebbe desiderato essere o diventare è fonte implacabile di vissuti di insufficienza, inadeguatezza, vergogna, insoddisfazione. Ora, se ciò è vero, come può un ideale dell’Io elevatissimo, stellare, porsi al di sopra dei conflitti? Ovvero, perché l’inarrivabile Tadà non provocò sofferenze a me e ai miei amici e non ci indusse a scoraggianti paragoni con lui? Risposta possibile: proprio perché era un fenomeno, perché era un alieno, perché era di un altro pianeta.
Non era un banale ideale dell’Io “eccessivo”: era molto di più! I conflitti, le ambivalenze, le rabbie e le mortificazioni li vivevamo col compagno più abile e robusto, oppure col maestro Visentin, tanto più forte di noi ma fatto, in definitiva, della nostra stessa pasta. Il magico Tadà era semmai l’emanazione personificata e concretizzata del nostro segreto desiderio di onnipotenza: un ideale dell’io talmente ideale, che non ce lo saremmo mai neanche immaginato. Egli poteva solo stupirci.
Termina qui il capitolo del libro dedicato al maestro Tada e di conseguenza all'aikido, e cominciano qui le nostre riflessioni.
E’ innegabile che ci sia molto di vero nei commenti di Bolognini.
Ma non si può tacere sul fatto incontestabile che perfino lui, complice probabilmente la giovane età che aveva al momento del “fatto”, si rifugia forse non deliberatamente in una dimensione oniristica ed irrealistica, deformando il ricordo e le sensazioni a giustificare la inevitabile rinuncia da parte di chiunque ad un confronto giudicato impari.
E’ una reazione comprensibile, specialmente da parte di chi abbia avuto con un maestro d’arte, qualsiasi arte, solo incontri occasionali e fortuiti.
Noi sappiamo però – o dovremmo sapere – che esiste una obiezione incontrastabile: non è questa la volontà del maestro. Non è quello lo scopo dell'arte.
La ragione per cui è venuto od è stato inviato tra noi è di diffondere l'arte proponendosi come punto di riferimento. La ragione per cui si sceglie di seguirne l’insegnamento è di adeguarsi a questo modello reale, senza chiedersi se sia possibile una aderenza assoluta, perfettamente sovrapponibile all'originale.
Anzi, in ogni forma di arte si diventa veramente grandi solo quando si rinuncia alla mera ripetizione di un modello, ci si astiene dalla irrealistica pretesa di riprodurre fedelmente ed integralmente, mediante l'applicazione di adeguate tecniche, che sia su tela o su marmo, che sia celebrando una cerimonia o lasciando fluire l'energia del proprio corpo e della propria mente, l'armonia dell'universo.
Così come Tada sensei è stato confrontato a sua volta con un modello irripetibile ed irraggiungibile, Ueshiba Morihei, senza rinunciare a ripercorrerne la strada ma senza alcun sentimento di frustrazione, è compito di ogni discepolo di confrontarsi col suo maestro senza presunzione ma senza atteggiamenti aprioristicamente rinunciatari. Il confronto con un modello più elevato è costantemente necessario, se non altro come metro di confronto dei propri progressi – o regressi – sul cammino e come stimolo continuo. Quello stimolo e pietra di paragone che solo la presenza vigile di una persona più avanzata nella via puo’ assicurare al meglio.
Quando si può fare a meno di tutto questo, allora si è raggiunta quella che gli orientali definiscono illuminazione. E' l'obiettivo di molti, ma sappiamo fin dall'inizio che è una meta raggiunta da pochi. Non per questo si può rinunciare a percorrere la via.
P.B.