Jidai
Akira Kurosawa: 1985 - Ran
Indice articoli
Akira Kurosawa: Ran
1985
Tatsuya Nakadai, Akira Terao, Jinpachi Nezu, Daisuke Ryu, Mieko Harada, Yoshiko Miyazaki, Peter
Se nelle opere gendai Aikira Kurosawa aveva a più riprese dato sfogo ad un pessimismo senza rimedio, in quelle jidai si era sapientemente tenuto in equilibrio tra storie marcate da profonda delusione verso il genere umano ma in cui il male trovava sempre la sua punizione (Rashomon o Il trono di sangue per fare solo due esempi) ed altre sia pure venate da un velo di malinconia, talvolta da aperto cinismo, in cui era il bene a trionfare (I sette samurai, La fortezza nascosta, Yojimbo, Sanjuro).
Nelle opere tarde Kurosawa sembra voler caricare volutamente i toni e i chiaroscuri, come in molte opere di Caravaggio, lasciandoci due capolavori come Kagemusha e Ran: non facili, non gradevoli, ma che lasciano sicuramente tracce profonde in ogni spettatore. L'impatto visivo è di per se sconvolgente: nessuno aveva mai rappresentato sullo schermo in modo così realistico l'orrore, affascinante orrore, delle guerre feudali, guerre che pure erano infinitamente più "a misura d'uomo" di quelle moderne.
La guerra è presente già nel titolo, Ran: questa parola signifca generalmente confusione, ma anche guerra civile o guerra fratricida, ed effettivamente Kurosawa ci presenta la storia di una guerra. I fratelli Ichimonji si dilaniano assieme ai loro seguaci per ereditare il potere del padre Hidetora, vecchia tigre che ha spietatamente lasciato il suo segno sanguinoso ovunque è passato.
Hidetora Ichimonji presenta se stesso in uno dei magici incipit di Kurosawa - tanto più sorprendente in quanto per la prima volta i personaggi sono perfettamente immobili, in attesa di qualcosa che diverrà chiaro solo dopo, a cavallo in un paesaggio idilliaco e allo stesso tempo selvaggio ed inquietante, ben poca cosa rispetto alla maestosità della natura; eppure pieni di se e concentrati su di se. Autoironicamente Hidetora si paragona al vecchio cinghiale cui ha appena dato la caccia, troppo vecchio ed indigesto per essere un buon boccone, per interessare a qualcuno. E annuncia il suo ritiro per lasciare il potere al figlio Taro (Akira |Terao), che dovrà essere fedelmente assistito dai fratelli Jiro (Jinpachi Nezu) e Saburo (Daisuke Ryu).
Kurosawa si ispira ancora una volta per questa opera all'occidente: la trama gli è fornita da Shakespeare col suo Re Lear, l'ambientazione dalla saga giapponese del nobile Mori, che aveva tre valorosi figli a ognuno dei quali consegnò una freccia chiedendogli di spezzarla, cosa che fecero con facilità irrisoria. Rimanendo però colpiti dalla impossibilità di spezzare un fascio di tre frecce riunite, come venne loro richiesto immediatamente dopo. Riflettendo sulla leggenda, Kurosawa cominciò a chiedersi come sarebbe andata a finire se i tre fratelli non fossero stati valorosi, concordi e leali? Sarebbe bastato l'esempio mostrato loro dal padre? E fu così che Kurosawa iniziò la preparazione dell'opera che poi divenne Ran.
Mori Motonari (1497-1571) divenne ancora giovane, nel 1523, alla morte prematura del fratello Komatsumaru di cui era reggente, signore del feudo di Aki, che divenne in epoca Meiji la prefettura di Hiroshima.
Ebbe fama di governante al tempo stesso abile ma retto, coraggioso ma prudente, e seppe non solo conservare ma anche espandere e rendere florido il suo territorio, che pure era attorniato da agguerriti ed aggressivi clan rivali.
Lasciò la successione ai tre figli Takamoto, Motohari e Takakage, dopo averli ammoniti col celebre esempio delle tre frecce a mantenersi sempre uniti, cooperando tra loro per la grandezza del regno e dei loro domini personali.
Tra i numerosi esempi di leggende analoghe, ne citiamo uno proveniente invece dalla storia, quella dell'antica Roma. Nel I secolo avanti Cristo il generale ribelle Quinto Sertorio guidava dalla Spagna la resistenza contro le legioni di Roma, guidate dall'esperto Metello e dal giovane Pompeo, astro nascente nell'affollato firmamento dei generali romani. Sertorio seppe mantenerli divisi, anche sfruttando la loro rivalità, impedendo ai due corpi d'armata di riunirsi per affrontarlo in campo aperto.
Tuttavia sconfitto in uno scontro, per risollevare il morale dei suoi soldati li chiamò a raccolta e mostrò loro due coppie: due cavalli, uno malandato e decrepito per l'età ed un altro splendido e nel fiore delle forze, e due uomini in condizioni simili. L'uomo più giovane e robusto afferrò ad un cenno di Sertorio la coda del ronzino ed iniziò a tirarla, senza riuscire ovviamente a staccarla anzi rendendosi ridicolo per la vanità dello sforzo. L'uomo tardo e mingherlino si pose dietro il superbo stallone, e tirando un crine alla volta in men che non si dica lo privò completamente della coda.
Hidetora Ichimonji è interpretato da uno splendido Tatsuya Nakadai. Il vecchio, stanco di una vita di continue battaglie, stanco del sangue versato, sogna una vita tranquilla, pago di vedere i suoi figli in possesso di quanto lui ha saputo conservare e conquistare.
Nakadai aveva all'epoca 53 anni e ha tuttora, quasi alla soglia degli 80 anni, un aspetto giovanile: prima di ogni ripresa doveva sottoporsi a diverse ore di trucco per assumere l'aspetto del settantenne Hidetora.
Taro Ichimonji è l'erede designato. Ma l'ombra ingombrante del padre turba lui e soprattutto la moglie Kaede (Mieko Harada), che lo incita a limitarne il residuo potere: anche se privo ormai di quello materiale Hidetora conserva tuttavia un grande potere morale, di cui orgogliosamente intende fare uso. La figura di Kaede richiama inevitabilmente alla mente quella di Asaji, la moglie del generale Washizu che lo porterà prima al delitto, poi al potere ed infine alla sconfitta ed alla morte (Il trono di sangue).
C'è chi ha cercato di leggere tra le righe di questa ricorrente attribuzione, nelle opere di Kurosawa, di ruoli negativi alle figure femminili. Ma il maestro, se pure confessava di sentirsi a disagio nel cogliere l'anima della donna, che infatti ricorre raramente tra i protagonisti delle sue opere, ricordava che le donne avevano avuto nella sua vita ruoli cruciali quanto positivi. E' probabile che Kurosawa abbia avuto l'intenzione di rendere un inconsueto omaggio all'animo femminile, sensibile e pronto a cogliere per vie che sono precluse agli uomini quello che è nell'aria, nel bene e talvolta, inevitabilmente, senza che esse possano contrastare questa necessità, anche nel male.
Jiro Ichimonji è circondato da una piccola corte di fedeli consiglieri, spietati ed ambiziosi ma a in un certo qual modo leali e coerenti, tra i quali spicca Kurogane (Higashi Higawa). Saranno loro a convincerlo, con irrisoria facilità, della "necessità" di sottrarre il dominio dalle deboli mani di Taro, che non è all'altezza del compito e finirebbe per portare presto o tardi alla rovina quanto faticosamenre messo assieme da Hidetaro.
Apparentemente aderente alle volontà del padre, Jiro attende invece nell'ombra che si presenti la sua opportunità, sognando e pregustando il potere.
Saburo, il minore dei figli di Hidetora, ha un carattere ribelle ed impetuoso, ma genuino. Con atto di titanica ribellione è lui a voler spezzare simbolicamente le tre frecce porte dal padre, dicharando il suo scetticismo di fronte alla idilliaca immagine che si è costruita intorno al mondo ed intorno agli esseri umani. Pagherà il suo ardire con l'esilio, condiviso da Tango Hirayama: l'unico dignitario che abbia il coraggio di comprendere il senso delle sue parole e difenderlo, sfidando l'ira di Hidetora.
Eppure Saburo è una delle poche persone genuinamente affezionate al vecchio Hidetora, come dimostra proteggendolo amorosamente con degli arbusti per non lasciarlo sotto il sole rovente, nel momento in cui si addormenta in un momento di debolezza senile.
Altro personaggio positivo della tragedia è Sue (Yoshiko Miyazaki), moglie di Jiro. La sua famiglia è stata sterminata da Hidetora, che ha preso dimora nel castello ove lei è nata e vissuta conquistandolo con le armi ed il tradimento e ha risparmiato solo lei perché funzionale ai suoi piani ed il fratello Tsurumaru (Mansai Nomura) che ha fatto crudelmente accecare.
La fede religiosa di Sue le dà la forza di trattare con Hidetora come se fosse suo padre. Il vecchio non comprende, non può comprendere, è tuttavia ammirato e conquistato dal carisma interiore della donna e dal suo distacco dalle passioni terrene.
Disegno originale di Akira Kurosawa, dalla sceneggiatura dell'opera.
Kurosawa affermava che ogni suo tentativo di disegnare con cura portava a risultati deludenti, quando invece si concentrava sulla storia la gente rimaneva affascinata dal risultato.
L'ingombrante figura del vecchio fa ombra all'erede Taro, e soprattutto alla ambiziosa ed intrigante Kaede. Con sua grande sorpresa Hidetora si vede richiedere di firmare la rinuncia ad ogni residuo potere e l'assoluta sottomissione al potere del figlio, sigillando il documento col suo sangue per renderlo sacro ed inviolabile.
Stupito, addolorato, indignato, Hidetora tuttavia firma. Ma decide poi di abbandonare il castello di Taro, seguito dai fedelissimi, per cercare rifugio presso l'altro figlio Jiro.
Il settantacinquenne Kurosawa - nemo propheta in patria - era stato costretto da diversi anni a ricorrere all'aiuto dei produttori stranieri per rompere l'accerchiamento e l'ostilità che lo circondava in patria. Dapprima vennero in suo soccorso i russi per Dersu Uzala, opera con cui interruppe un lungo e forzato silenzio, poi i suoi ammiratori americani George Lucas e Francis Coppola per Kagemusha, che stava naufragando per la rinuncia a produrlo da parte della Toho, la casa cinematografica con cui Kurosawa lavorava inintettottamente da quasi 40 anni. Infine il francese Serge Silberman per Ran.
Non può essere un caso che Kurosawa abbia scelto con Ran di rappresentare sullo schermo le vicende di un vecchio leone esausto, rifiutato dai figli che ha allevato, espulso dall'ambiente che ha costruito con le sue mani. In Hidetora chiaramente vediamo Akira Kurosawa riflesso nello specchio della sua delusione. Era indubbiamente stanco, prostrato: la preparazione di Ran gli prese circa 10 anni di lavoro assieme al fedele sceneggiatore Hideo Oguni, che lo aveva già seguito in tante avventure (Ikiru, I sette samurai, Il trono di sangue, Sanjuro, Akahige...), Quando iniziarono le riprese la vista di Kurosawa era deteriorata al punto da avere bisogno di un assistente che sulla scorta dei suoi disegni disponesse gli attori sul set. Eppure volle personalmente disegnare le circa 1000 armature utilizzate nell'opera, e quando perse improvvisamente la giovane moglie, interruppe le riprese per un solo giorno; già quello seguente convocò la troupe e riprese il lavoro, spinto da una disperata ed incrollabile volontà di compiere l'opera ad ogni costo.
L'odissea di Hidetora viene rappresentata ritornando agli stilemi già nel 1957 utilizzati da Kurosawa nel Trono di sangue: castelli di montagna avvolti dalle nebbie e collocati come corpi estranei in una natura nuda, scabra e ostile. Lente ieratiche processioni di uomini armati che entrano al seguito del signore, turbinose cavalcate di guerrieri che escono per la battaglia, sventolare di bandiere con i colori dei rispettivi clan, ma soprattutto gruppi di uomini d'arme in attesa fuori della porta, che si spalanca solo per mostrare gruppi di uomini in arme in attesa all'interno, che negano l'ingresso. Hidetora viene respinto da Jiro, e anche qui come nel Trono di sangue il sinistro cigolio delle porte del castello che vengono sbarrate ha un che di sovrannaturale.
Hidetora vaga nella landa desolata col suo sparuto seguito, privo di ogni risorsa: è stato messo al bando, e chi oserà aiutarlo verrà punito con la morte. Lo raggiunge Tango Hirayama (Masayuki Yuji), il fedele vassallo che aveva osato sfidare la sua collera e la sua spada per prendere le difese di Saburo, rivendicando il suo diritto dovere di esprimere apertamente la propria opinione per rendere un migliore servizio al signore. E' proprio Saburo che gli ha ordinato di non seguirlo nell'esilio ma di vigilare da lontano sul vecchio padre. Tango suggerisce di raggiungere Saburo, ospite del signore Fujimaki, ma il vecchio non osa presentarsi umiliato e sconfitto di fronte al figlio, da lui ciecamente cacciato proprio nel momento in cui cercava di prestargli aiuto e proteggerlo.
Assecondando apparentemente il suo sentimento il consigliere Ikoma (Kazuo Kato) suggerisce ad Hidetora di rifugiarsi piuttosto nel castello di Saburo, abbandonato dai suoi uomini che hanno deciso di raggiungerlo nell'esilio per non all'arroganza di Taro. Il comandante Ogura (Norio Matsui) non dispone che di poche truppe e non potrà opporsi.
Il buffone di corte, Kyoami, nella sua lucida follia deride l'insania del vecchio, che lo colpisce con lo scudiscio e lo abbandona sul posto assieme allo sconsolato Tango. Eppure sarà proprio lui, il folle, ad essere fedele ad Hidetora fino alla fine. Non esisteva in Giappone una figura assimilabile a quella del buffone di corte occidentale, ma Kurosawa volle mantenere questo personaggio, essenziale nel Re Lear di Shakespeare cui attingeva la sua ispirazione, e in cui il buffone ha un complesso rapporto sia con Lear che, omesso da Kurosawa, con Cordelia. Kyoami è impersonato da Shinnosuke Hikehata, conosciuto col nome d'arte di Peter per il suo modo naturale eppure stralunato di ballare e cantare, ricordando la figura del Peter Pan delle favole occidentali. Non è la prima però volta che Kurosawa introduce una figura animalescamente sensibile ai moti dell'animo umano e libera di dire la verità, refrattaria ad ogni convenzione: fece infatti uso del celebre mimo Kenichi Enomoto in Tora no o fumu otokotachi, quaranta anni prima, nel 1945.
Si ripete il sinistro cerimoniale dell'ingresso nel castello ostile: Hidetora, seguito dallo stendardo degli Ichimonji col sole e la luna, che non ha voluto lasciare al figlio Taro, dalle sue concubine e dal manipolo di fedelissimi guerrieri, varca le porte del nebbioso castello che fu di Saburo.
Si chiudono le porte. Cala la notte.
Nel mezzo della notte una sensazione indefinibile e nefasta desta all'improvviso Hidetora. Sente delle grida, dei bagliori rossastri squarciano le tenebre.
Quello che vede affacciandosi alla finestra è inequivocabile ed agghiacciante: i gialli vessilli di Taro e quelli rossi di Jiro sventolano dappertutto.
I figli hanno unito le loro forze per assalire a tradimento il castello, con la complicità di Ikoma e Ogura, e togliere definitivamente di mezzo l'ostinato ed ingombrante Hidetora.
L'ambizioso Jiro, il crudele consigliere Kurogane, sembrano avere ceduto alla volontà di Taro. O forse hanno solo deciso di assecondare gli eventi, cavalcandone l'onda per poter cogliere il primo momento favorevole.
Comunque sia, alla testa delle loro truppe comandano l'assalto con spietata efficacia.
Hidetora orgogliosamente apre la porta della torre dove si era alloggiato, e si getta solo contro la turba dei nemici. Ma il destino non vuole che Hidetora scompaia combattendo, come ha sempre vissuto: la sua spada si spezza, e deve rifugiarsi nella torre.
Tutto è perduto. Mentre gli ultimi fedeli di Hidetora si immolano in una eroica quanto vana - forse assurda - difesa, le concubine si uccidono pur di non cadere in mano al nemico.
Hidetora decide di seguirle nell'oltretomba. Solo allora si rende conto che senza spada anche questo gli è negato: la morte non lo vuole.
E' dovere del cronista ricordare che la vita di Kurosawa fu segnata da una dolorosa perdita: il suicidio in giovane età del fratello maggiore Heigo, che era stato fino ad allora la sua guida ed il suo mentore.Negli anni 70, caduto in preda della depressione in seguito all'insuccesso di Dodeskaden, un'opera a cui aveva creduto molto, anche Akira Kurosawa aveva tentato il suicidio, tagliandosi sei volte alla gola ed otto volte ai polsi. La morte non volle neppure lui, così come non vuole Hidetora.
Solo lentamente e con grande fatica il maestro risorse, prima lavorando per cinque anni al suo solo film a soggetto non giapponese, Dersu Uzala, poi ponendo mano a Kagemusha, ed infine a Ran che considerava il suo testamento spirituale.
Se altrove - e anche più tardi in questa stessa opera - Kurosawa rappresenta ai massimi livelli il crudele fascino della guerra, ora decide di mostrarne senza pietismi e senza nulla celare l'assoluto orrore.
Le scariche degli arcieri e le raffiche dei fucilieri abbattono senza pietà i guerrieri di Hidetora, infierendo oltre ogni necessità.
L'occhio è sinistramente attratto dalla carneficina. Lo spettatore vorrebbe dire basta eppure non ne ha la forza: avverte che è necessario assistere fino in fondo a quanto il maestro Kurosawa sente il dovere di rappresentarci.
Alla testa delle sue truppe Taro Ichimonji entra nel castello. La sua espressione è impenetrabile: si guarda intorno, tutto è distruzione, sterminio.
Non sappiamo e non sapremo mai cosa prova in questo momento. Ma ci lascia un'impressione: che si stia chiedendo quale obiettivo terreno possa giustificare tale scempio.
Non conosceremo mai la risposta: un colpo di fucile isolato abbatte Taro Ichimonji nel momento del suo trionfo.
La vile pallottola colpisce il jimbaori color zafferano indossato dal guerriero proprio là dove spicca l'emblema solare della casata degli i Ichimonji.
Era in quel punto ove - in segno di assoluto dominio - i samurai vibravano il colpo di grazia all'avversario abbattuto.
Kurogane, consigliere e braccio destro di Jiro Ichimonji, ha pronta una spiegazione: il colpo è partito dalla torre, che fucilieri ed arcieri continuano a crivellare di colpi, attendendo un ordine di smettere che tarda ad arrivare: il desiderio di spegnere per sempre la vita di Hidetora forse si scontra col desiderio di rimandare per quanto possibile l'incontro con la propria coscienza quando si constaterà la sua morte.
Non ha apparentemente coscienza, scrupoli o remore Kurogane. Mentre assicura Jiro che il colpo a tradimento - mortale e provvidenziale - è partito dalla torre, stringe con noncuranza nella mano il fucile da cui con ogni evidenza è stata lanciata la pallottola fatale.
Lo getterà poi al suolo, con noncuranza. Il suo cinismo nasconde una volontà incrollabile e spietata ma non priva di logica: per il bene degli Ichimonji, non era consentibile che il debole Taro mantenesse il potere.
Tuttavia Hidetora Hichimonji è ancora su questa terra. Impossibilitato a compiere seppuku, costretto ad assistere alla strage dei suoi, costretto a vedere la mano dei suoi stessi figli armata contro di lui, è stato abbandonato dal senno.
Emerge, tragica e terribile apparizione, dalle fiamme che avvolgono la torre .
I rossi guerrieri di Jiro, i gialli guerrieri di Taro, inorridiscono, ammutoliscono e rimangono pietrificati all'unisono.
La tragica figura, il grande e terribile uomo sopravvissuto al suo tempo e rifiutato dalla morte, percorre lentamente un cammino che non ci è dato sapere ove porti, e sui cui non è lecito interferire.
Hidetora incede lentamente tra due ali di uomini che non osano nemmeno fiatare al suo passaggio.
Vengono ricondotti di colpo a riflettere sulla sciocca vanità delle loro ambizioni, sulla impossibilità assoluta di confrontarsi con colui che anche nella sconfitta, dell'annientamento, della follia, rimane troppo più grande di loro per osare pensare di paragonarvisi.
Kurosawa ha voluto - ha dovuto - con la parabola di Hidetora Ichimonji rappresentare se stesso? Riteniamo doveroso proporre al lettore questo quesito. Non abbiamo l'ardire di proporre una risposta.
Hidetora ormai privo di senno viene soccorso da Tango Hirayama e dal buffone Kyoami, che per ironia della sorte lo ricoverano in una capanna buia abitata da uno strano personaggio. E' Tsurumaru, fratello di Sue: l'innocente che Hidetora ha accecato per spegnere sul nascere ogni sua possibilità di vendetta.
Tsurumaru non ne cerca: non potendo offrire altro ai suoi ospiti, li rasserena col suono del suo flauto. Il vecchio Hidetora respinge l'idea di trovare rifugio presso il figlio Saburo, avverte animalescamente anche nella sua follia di avere mancato nei suoi confronti.
Sarà Tango, lasciato Hidetora alle cure di Kyoami, folle di professione che si dimostra più lucido e più umano di chi lo circonda, ad andare a cercare Saburo per chiamarlo a salvare suo padre.
Nel frattempo la follia di Hidetora e la sua scomparsa nel nulla non hanno portato pace nel castello: non era lui la pietra dello scandalo, non era lui ad attizzare la discordia e l'odio, che si autoalimentavano negli animi di chi lo attorniava quando era il grande Hidetora, circondandolo di lodi e attenzioni.
Il sogno di grandezza di Kaede sembra svanire, annientato dal colpo di fucile a tradimento che ha eliminato da questa tragica partita a scacchi il primogenito Taro, debole fantoccio nelle sue mani.
Apparentemente remissiva, è la stessa Kaede a consegnare al cognato Jiro l'elmo che fu prima di Hidetora e poi di Taro, emblema del potere.
Si tratta solo di uno stratagemma: a tu per tu con il cognato Kaede lo assale, come una tigre, gli sottrae il tanto che Jiro porta sempre alla cintura e lo ferisce crudelmente, senza che lui riesca ad opporre la minima resistenza.
Ma non è la sua vita che vuole Kaede, è il potere. Se non c'è più Taro, sarà Jiro lo strumento della sua ambizione.
Kaede gli offre in alternativa alla morte allo stesso tempo il potere e se stessa.
La macchina da presa non indulge in particolari morbosi: il maestro Kurosawa sa bene che il potere evocativo di una sottile allusione è 1000 volte più potente ed efficace di ogni plateale esibizione.
L'elmo del guerriero è avvolto nelle spire mortali della cintura di Kaede, non inquadrata, che la riavvolge lentamente dando allo spettatore la sensazione che un serpente micidiale si stia ritirando dalla sua preda.
Kaede e Jiro si ricompongono, apparentemente impassibili. Il patto scellerato è stato concluso, ma Kaede non può tollerare di essere una semplice concubina né di dividere con alcuno al mondo il suo potere e le sue prede. L'innocente Sue non dovrà essere semplicemente ripudiata in favore di Kaede: deve morire.
Sorprendentemente il cinico e spietato Kurogane non condivide: secondo la sua etica è necessario uccidere quando ne derivi un vantaggio per la causa del suo signore, che lui ha deciso di seguire fino alla morte con assoluta e incondizionata fedeltà.
Ma uccidere senza ragione una persona innocente non è ragionevole. Kurogane rifiuta con fermezza di eseguire l'ordine, e ricorda di essere al servizio della casata degli Ichimonji, e non di Kaede.
Kaede insiste, ma Kurogane la piega: tornando con un involto lo consegna ritualmente a Kaede, che lo apre convinta di trovarvi la testa mozzata di Sue. E' invece una scultura in rozza pietra che rappresenta la testa di una volpe.
La volpe è un animale presente ovunque nelle affabulazioni giapponesi, quasi sempre come spirito maligno che si incarna in una donna prendendone le sembianze, seminando discordia tra gli esseri umani fino al momento in cui viene provvidenzialmente smascherata.
Giocando pesantemente sull'equivoco Kurogane invita il suo signore a stare in guardia dalle volpi che hanno assunto le sembianze di donna. Nel frattempo ha segretamente avvertito Sue di mettersi in salvo.
Ma la resa dei conti finale si avvicina: il fiume che segna il confine viene attraversato da una schiera di guerrieri al galoppo, che portano sulle schiene degli stendardi azzurri.
Saburo Ichimonji cavalca alla loro testa, col jimbaori celeste che indossa sopra l'armatura che spicca nella massa di cavalieri al galoppo. Saburo torna, per riprendere Hidetora.
Come già in altre opere Kurosawa ricostruisce i concitati momenti dell'annuncio e dei preparativi della guerra attraverso un susseguirsi incessante di messaggeri che annunciano questa o quella mossa del nemico.
Le intenzioni di Saburo non sono chiare, le sue esigue forze non possono permettergli di sfidare in campo aperto il fratello. I consiglieri suggeriscono a Jiro di armare le sue truppe ma attendere gli eventi.
Ben presto le forze dei due fratelli sono schierate nella pianura di Hachiman e si fronteggiano, in una attesa carica di tensione.
E' subito evidente che Saburo non è solo: sulle colline che sovrastano l'armata rossa e quella azzurra si è schierato con tutte le sue forze il bianco esercito di Fujimaki, suocero di Saburo.
Intende tenersi pronto ad ogni evenienza per spalleggiare il genero, per intervenire solo se costretto dagli eventi.
Ma la sua presenza certamente non rassicura.
Dal lato opposto fanno la loro apparizione le nere armature e i neri stendardi delle truppe di Ayabe, fiero nemico degli Ichimonji, che intende assistere impassibile alla lotta fratricida, per poi gettarsi sicuramente addosso al superstite per finirlo. Il minimo gesto inconsulto può far precipitare la situazione.
Kurosawa ci rappresenta una drammatica partita a scacchi, ma giocata con schiere di armati su un vero campo di battaglia
Un messaggero arriva a briglia sciolta dallo schieramento di Jiro, e consegna un messaggio a Saburo: ha via libera per ritrovare il vecchio Hidetora e prenderlo con se, dovrà poi ritirarsi senza compiere atti ostili.
Apparentemente Jiro sta seguendo il parere dei suoi consiglieri, in realtà sta orgogliosamente quanto scioccamente sottraendosi alla loro tutela.
Su consiglio di Kaede, lascia il passo libero a Saburo per farlo seguire da un gruppo di fucilieri ed eliminarlo al momento opportuno. E appena Saburo si sarà allontanato, lancerà le sue truppe all'assalto.
E' stato detto, ed il maestro lo ha confermato, che nelle sue scene di battaglia Akira Kurosawa si sia ispirato alla pittura italiana.
Il suo modello sarebbe stato la celeberrrima battaglia di San Romano, dipinta dal grande Paolo Uccello nel XV secolo, che si trova nella Galleria degli Uffizi di Firenze.
La conferma di Kurosawa forse va interpretata come come uno dei suoi momenti - non infrequenti - di delicato sarcasmo.
Nella storia giapponese infatti non sono certamente mancati né le battaglie né gli artisti in grado di rappresentarle, e con una forza impressionistica che talvolta non ha eguali.
Questa stampa di Utagawa Yoshitora (attivo nella prima epoca Meiji) rappresenta l'assedio di Shikoku che avvenne nel XIV secolo ed è narrato nel Taiheiki.
L'uso delle armi da fuoco è probabilmente anacronistico ma ci aiuta a notare le similitudini con l'assedio di Takatenjin ricostruito da Kurosawa in Kagemusha.
In un susseguirsi vorticoso di assalti e ritirate Kurosawa ci propone una rappresentazione dinamica della battaglia, una immagine che nessuno prima di allora aveva saputo intuire e tantomeno tentare di porre in opera.
Le difficoltà materiali che dovette superare per arrivare a questi risultati furono ai limiti delle sue possibilità, ma il risultato finale lasciò attoniti anche i suoi detrattori.
Si disse che Kurosawa aveva potuto utilizzare mezzi faraonici, schierando sul campo migliaia di generici e comparse. In realtà riuscì a mettere assieme non più di 200 cavalieri, e se riesce a darci la sensazione di avere comandato grandi masse di uomini , è solo grazie al suo genio.
La cavalleria di Jiro carica le truppe nemiche, seguita dai lancieri. Ma i reparti di fucilieri appostati nel bosco li decimano impietosamente e li ricacciano indietro.
Non è la prima volta, che Kurosawa sottolinea l'intrinseca insidiosità e vigliaccheria delle moderne armi di offesa, che disumanizzano quel poco che ancora restava di umano in una guerra senza quartiere. E su questo tema ritornerà ancora più avanti.
Falcidiati dalle scariche i cavalieri rossi, sono alla fine gli azzurri guerrieri di Saburo Ichimonji a prevalere.
Inferiori di numero ma guidati da un abile generale e consapevoli di combattere la giusta battaglia, respingono il nemico e lo mettono in rotta caricandolo con le lance in resta.
Credendo di emanciparsi finalmente dalla invadente ma previdente tutela di Kurogane, Jiro ha tuttavia segnato la sua fine. Le fosche schiere di Ayabe lo hanno nel frattempo assalito alle spalle, e gli stendardi neri già incalzano le sue truppe ed assaltano il suo castello.
Mentre si sbarrano ancora una volta - ma invano, ma troppo tardi - le porte, un cavaliere irrompe al galoppo, fendendo la calca dei soldati in fuga, trasportando qualcosa.
Kurogane scopre con orrore la testa mozzata di Sue, raggiunta nonostante tutto dalla vendetta di Kaede. Il suo corpo senza vita giace là dove pensava di avere ormai raggiunto la salvezza.
Furente, senza che nessuno, lo stesso Jiro compreso, ardisca fermarlo, il guerriero raggiunge Kaede, che attende impassibile gli eventi, e le grida in faccia tutto il suo disprezzo.
Impassibile Kaede rivendica orgogliosamente la coerenza del suo operato: non ha agito in preda alla follia o all'ambizione, ha costantemente e lucidamente tramato nell'ombra per portare alla rovina la casata degli Ichimonji, che ha seminato di lutti la sua vita e sterminato la sua famiglia.
Mentre Jiro assiste impietrito, ormai incapace di reagire alla tragica catena di eventi che pure è stato lui a scatenare, la lama di Kurogane tronca immediatamente la vita di Kaede. Kurogane incita Jiro a prepararsi al momento estremo: è la fine degli Ichimonj.
Jiro si sottrarrà all'onta della sconfitta compiendo seppuku, e Kurogane lo seguirà immediatamente nell'oltretomba dopo averlo assistito.
Le fiamme devastratrici iniziano la loro opera di distruzione: quello che è stato fatto è stato reso. Il dominio degli Ichimonji trova la sua fine così come aveva trovato la sua origine, tra la strage e la desolazione.
Il destino esige che nulla rimanga della casata che aveva esteso il suo dominio tra le vallate e le montagne.
Quelle che aveva orgogliosamente indicate Hidetora Hichimonji nella scena di apertura dell'opera.
Saburo è finalmente riuscito a rintracciare il padre, ne ha vinto il pudore e la vergogna ed è riuscito a restituirgli il senno perduto.
Padre e figlio cavalcano assieme abbracciati sulla via del ritorno, parlando della loro nuova vita.
Che non dovrà esserci. I fucilieri di Jiro sono in agguato.
L'ennesima precisa quanto vile palla di archibugio spegne la vita di Saburo, che si accascia lentamente.
Hidetora stringe invano al petto il corpo privo di vita del figlio. E finalmente la morte pietosa pone fine alle sue sofferenze. Kyoami invoca il suo nome, ma Tango gli suggerisce di rassegnarsi al destino.
Hidetora Ichimonji ha trovato finalmente la pace, quella che in vita non ha saputo dare né a sé stesso né agli altri.
Kyoami disperato rimprovera con un moto blasfemo ma comprensibile coloro che hanno voluto tutto questo, dei od altro che siano , per prendersi gioco delle sofferenze dell'uomo.
Ma infine tace: forse si rende conto che gli dei sono estranei a tutto questo, ogni cosa è stata voluta e compiuta dall'uomo.
Unico superstite della immane strage, della insensata e vana carneficina, Tsurumaru è terminato, privo ormai per sempre della guida della sorella Sue, in cima alle ennesime rovine di un castello costruito e poi distrutto dalla cupidigia di potere degli uomini.
Non è in grado di rendersi conto che si trova sull'orlo di un precipizio.
E nessuno potrà mai venire in suo soccorso.
Se in altre opere il maestro Kurosawa ha voluto lasciarci un messaggio di speranza, la visione di Ran sembra non lasciarne, non volerne lasciare. E' un'opera non facile da accettare e perfino da vedere.
E forse proprio per questo va vista e va compresa, o perlomeno ne va tentata la comprensione. La grandezza del maestro si misura proprio in questo suo desiderio di rappresentarci non solamente le virtù dell'essere umano, ma anche i suoi vizi e le sue mancanze, per ammonirci e metterci in guardia.
E' doveroso accettare l'impegno di essere all'altezza di questo suo nobile lascito, anche se gravoso, anche se amaro ed arduo.