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Akira Kurosawa: 1985 - Ran - La strage ed il trionfo

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Se altrove - e anche più tardi in questa stessa opera - Kurosawa rappresenta ai massimi livelli il crudele fascino della guerra, ora decide di mostrarne senza pietismi e senza nulla celare l'assoluto orrore.

Le scariche degli arcieri e le raffiche dei fucilieri abbattono senza pietà i guerrieri di Hidetora, infierendo oltre ogni necessità.

 

 

 

 

 

L'occhio è sinistramente attratto dalla carneficina. Lo spettatore vorrebbe dire basta eppure non ne ha la forza: avverte che è necessario assistere fino in fondo a quanto il maestro Kurosawa sente il dovere di rappresentarci.

 

 

 

 

 

 

 

 

Alla testa delle sue truppe Taro Ichimonji entra nel castello. La sua espressione è impenetrabile: si guarda intorno, tutto è distruzione, sterminio.

Non sappiamo e non sapremo mai cosa prova in questo momento. Ma ci lascia un'impressione: che si stia chiedendo quale obiettivo terreno possa giustificare tale scempio.

 

 

 

 

 

 

Non conosceremo mai la risposta: un colpo di fucile isolato abbatte Taro Ichimonji nel momento del suo trionfo.

La vile pallottola colpisce il jimbaori color zafferano indossato dal guerriero proprio là dove spicca l'emblema solare della casata degli i Ichimonji.

Era in quel punto ove - in segno di assoluto dominio - i samurai vibravano il colpo di grazia all'avversario abbattuto.

 

 

 

 

 

Kurogane, consigliere e braccio destro di Jiro Ichimonji, ha pronta una spiegazione: il colpo è partito dalla torre, che fucilieri ed arcieri continuano a crivellare di colpi, attendendo un ordine di smettere che tarda ad arrivare: il desiderio di spegnere per sempre la vita di Hidetora forse si scontra col desiderio di rimandare per quanto possibile l'incontro con la propria coscienza quando si constaterà la sua morte.

Non ha apparentemente coscienza, scrupoli o remore Kurogane. Mentre assicura Jiro che il colpo a tradimento - mortale e provvidenziale - è partito dalla torre, stringe con noncuranza nella mano il fucile da cui con ogni evidenza è stata lanciata la pallottola fatale.

Lo getterà poi al suolo, con noncuranza. Il suo cinismo nasconde una volontà incrollabile e spietata ma non priva di logica: per il bene degli Ichimonji, non era consentibile che il debole Taro mantenesse il potere.

Tuttavia Hidetora Hichimonji è ancora su questa terra. Impossibilitato a compiere seppuku, costretto ad assistere alla strage dei suoi, costretto a vedere la mano dei suoi stessi figli armata contro di lui, è stato abbandonato dal senno.

Emerge, tragica e terribile apparizione, dalle fiamme che avvolgono la torre .

I rossi guerrieri di Jiro, i gialli guerrieri di Taro, inorridiscono, ammutoliscono e rimangono pietrificati all'unisono.

 

 

 

 

La tragica figura, il grande e terribile uomo sopravvissuto al suo tempo e rifiutato dalla morte, percorre lentamente un cammino che non ci è dato sapere ove porti, e sui cui non è lecito interferire.

Hidetora incede lentamente tra due ali di uomini che non osano nemmeno fiatare al suo passaggio.

 

 

 

 

 

 

 

Vengono ricondotti di colpo a riflettere sulla sciocca vanità delle loro ambizioni, sulla impossibilità assoluta di confrontarsi con colui che anche nella sconfitta, dell'annientamento, della follia,  rimane troppo più grande di loro per osare pensare di paragonarvisi.

Kurosawa ha voluto - ha dovuto - con la parabola di Hidetora Ichimonji rappresentare se stesso? Riteniamo doveroso proporre al lettore questo quesito. Non abbiamo l'ardire di proporre una risposta.

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