Gendai
Akira Kurosawa: 1951 - L'idiota
Indice articoli
Akira Kurosawa - 1951
L'idiota
da F. Dostoevskij
Toshiro Mifune, Takashi Shimura, Masayuki Mori, Setsuko Hara, Yoshiko Kuga
L'idiota fu probabilmente l'opera cui Kurosawa affidò le maggiori ambizioni. Era un astro già alto nel firmamento internazionale dopo il successo di Rashomon che aveva trionfato al festival di Venezia l'anno precedente. Come fin troppo spesso gli accadde nel corso della sua lunga e pur straordinaria carriera, proprio quello fu invece un clamoroso insuccesso.
E' basato sull'omonimo romanzo che Fëdor Dostoevskij aveva scritto in esilio per debiti tra la Svizzera e l'Italia (lo terminò nel 1869 a Firenze) narrando le amare vicende del principe Myskin, tradito dal suo amore per esseri destinati alla perdizione, uomini e donne, che l'autore così anticipava:
Da tempo mi tormentava un'idea, ma avevo paura di farne un romanzo, perché è un'idea troppo difficile e non ci sono preparato, anche se è estremamente seducente e la amo. Quest'idea è raffigurare un uomo assolutamente buono. Niente, secondo me, può essere più difficile di questo, al giorno d'oggi soprattutto.
L'idea evidentemente attrasse come una falena anche Kurosawa, che decise di effettuare le riprese nella gelida isola di Hokkaido per ricreare le atmosfere della Russia di Dostoevskij. Ne volle fare una opera impegnativa (era prevista una durata di 4 ore e trenta minuti, da dividere in due parti) ma i drastici tagli imposti dalla produzione limitarono la versione distribuita nelle sale a 2 ore e 45 minuti. Come già detto, le accoglienze da parte di pubblico e critica furono molto fredde.
Leggiamo che il film venne parzialmente rivalutato anni dopo grazie al successo di Rashomon, e non possiamo fare a meno di sorriderne: come già detto Rashomon era stato girato l'anno prima e dopo essere stato premiato a Venezia nel 1950 ottenne anche il premio Oscar mentre iniziavano le riprese dell'Idiota.
Kurosawa non se ne dette comunque per inteso, e le sue opere successive, Ikiru (Vivere, 1952) e Shichinin no samurai (I sette samurai, 1954) sono considerati da pubblico e critica concordi i suoi capolavori, rispettivamente nel genere gendai e in quello jidai. Lui tuttavia continuò per sempre a dichiarare che la sua opera migliore era L'idiota.
Il regista, come di consueto, è anche autore della sceneggiatura. Se le opere che portano la sua firma di direttore sono trenta, quelle da lui sceneggiate sono molte di più: oltre settanta.
Trasporta l'azione dalla Russia della seconda metà 800 al Giappone del dopoguerra, ossia in epoca praticamente contemporanea e di cui lo spettatore aveva nel 1951 conoscenza e ricordi diretti.
All'inizio della Parte Prima (Amore e sofferenza) ci troviamo a bordo di una nave che trasporta dei reduci. La scritta in sovraimpressione dice Hokkaido, Juni gatsu: Hokkaido, dicembre (dodicesimo mese).
Nelle stive di quella nave, stipate di passeggeri costretti a viaggiare ammassati, a dormire sul nudo pavimento, ad essere assordati dal rumore della sala macchine, avviene l'incontro tra i due principali protagonisti della intricata e drammatica vicenda.
Sono Kinji Kameda (Masayuki Mori) che nella trama di Dostoevskij è il principe Myskin e Denkichi Akama (Toshiro Mifune) che corrisponde al personaggio di Rogozin (nella versione recensita viene stranamente chiamato Amada nei sottotitoli).
I due erano già stati antagonisti l'anno precedente in Rashomon. Mori nei panni del samurai Takehiro e Mifune in quelli del brigante Tajomaru.
Kameda si risveglia urlando da un incubo, tremando. Dostoevskj aveva immaginato che Myskin, epilettico, tornasse in patria dopo un ricovero in Svizzera per curarsi della sua epilessia. Akama, che appare subito una persona molto diretta, ai limiti della sfrontatezza ma non priva di sensibilità (ruolo che Mifune interpreta come di consueto con inarrivabile maestria) si trova accanto a lui. Sentiamo la sua inconfondibile voce prima ancora che appaia sullo schermo, e ci chiediamo come sia riuscito ad essere sempre se stesso pur impersonando figure completamente differenti.
I due iniziano a discutere, e da lì prende il via l'intera vicenda. Kameda ha sempre lo stesso incubo: sta per essere fucilato. Era stato accusato infatti di crimini di guerra e condannato a morte, per uno scambio di persona chiarito solamente in extremis quando era già di fronte al plotone di esecuzione. Non si è più ripreso da quel trauma. Le sue crisi lo portano ogni volta ad uno stato di idiozia.
Qui Kurosawa ricorda allo spettatore con delle didascalie (che altrove coprono invece i vuoti dei tagli imposti dalla produzione) che fu Dostoevskij a voler scegliere ironicamente, per incarnare il personaggio di un uomo troppo buono per essere compreso ed apprezzato dagli altri esseri umani, un idiota. Il primo a rimanere stupito di tanta autolesionistica sincerità, e non sarà ovviamente l'ultimo, è Akama.
Immediatamente avverte un forte simpatia nei confronti di Kameda, e assume un atteggiamento protettivo nei confronti del fragile e febbricitante compagno casuale di viaggio.
Sappiamo già dal monito di Kurosawa che nonostante tutto Kameda è destinato alla rovina; presto apprenderemo che il cammino verso la fine dovrà passare proprio attraverso l'amicizia con Akama.
Il loro viaggio continua in treno. Akama, sia pure con modi rudi e sbrigativi, si preocccupa sempre di trovare un posto a sedere per Kameda e di rendergli più agevole la convivenza con la sua debolezza.
Akama ama perdutamente Taeko Nasu: avendole regalato una collana di diamanti con del denaro sottratto al padre ne è stato diseredato. Ma ora il padre è morto, e lui torna per prendere possesso dell'eredità e presumibillmente di Taeko.
Camminano per le strade sotto una fitta tormenta di neve, mentre intorno risuonano i canti del Natale. Akama ha detto semplicemente all'amico di seguirlo, penserà a tutto lui.
Nel loro peregrinare si imbattono in un ritratto in mostra nella vetrina di un fotografo: é Taeko. Akama la riconosce immediatamente, si arresta e parla ad Kameda della loro storia.
Taeko (Setsuko Hara) ancora giovanissima, praticamente bambina, è stata comprata per una cifra enorme da un uomo che ne ha fatto la sua amante. L'inizio della relazione con Akama le avrebbe forse dato la forza per uscire da quella situazione, ma la guerra ha bruscamente separato i due giovani.
Gli chiede se la trova bella. Certamente. Eppure Kameda avverte un senso di timore nel vedere il suo volto. Un presagio che verrà confermato. Akama è irritato dal commento: i due si separano.
L'azione si sposta in una grande casa che denota un tenore di vita elevato.
Una giovane donna si arresta sulle scale della casa perché ha ascoltato frammenti di una conversazione che le interessa.
E' Ayako (Yoshiko Kuga).
Suo padre, Ono (Takashi Shimura), ha appreso del ritorno di Kameda, che è loro parente. La moglie gii chiede cosa intende fare ora.
Gli troverà un alloggio ed un lavoro. Non si tratta di benevolenza da parte sua ma di una sorta di compenso per tenerlo tranquillo.
Era stato dato per morto, e lui, amministratore delle proprietà d famiglia, si era accordato per venderle attraverso il mediatore Kayama.
Costui sta per sposare Taeko, allettato dal pagamento di una forte somma versata da Tohata, il suo precedente 'padrone', per liberarsene.
Ma è una situazione che gli è stata imposta forzando il suo debole carattere. Lui si sente invece attratto da Ayako.
L'intrico delle situazioni, lo diciamo ancora una volta senza più ritornarci sopra in continuazione, troppo spesso non viene raccontato da Kurosawa ma sommariamente descritto dalle fastidose ricorrenti didascalie.
Inevitabile concludere che i produttori hanno completamente fallito l'obiettivo di rendere l'opera più attraente mediante i drastici tagli imposti al regista: hanno ottenuto solo di renderla meno comprensibile, e sono probabilmente loro i responsabili del suo fallimento.
Il primo incontro tra Kameda e Kayama (Minoru Chiaki) rivela immediatamente attraverso discreti ma evidenti ed inequivocabili segnali che Kurosawa invia allo spettatore che tra i due non ci sarà compatibilità.
I sentimenti di Ayako vengono invece immediatamente dopo riassunti nella consueta scritta che appare sullo schermo, ennesimo corpo estraneo alla narrazione - e rimangono inevitabilmente immotivati e difficilmente comprensibili.
Kameda passeggia sulla neve nella grande fattoria di cui ignora di essere il vero proprietario: gli viene lasciato credere che nulla gli sia rimasto dei beni di famiglia.
E' assieme ad Ayako, che gli chiede di raccontargli della sua vita prima della guerra.
In realtà ricorda ben poco di quanto gli era successo prima di sfuggire alla fucilazione: la sua debolezza e la sua vicinanza con la morte gli hanno fatto da allora apprezzare gli esseri viventi e si sente legato a tutti essi, uomini ed animali, destinato a cercare il bene di ognuno.
Kameda viene sistemato provvisoriamente presso Kayama, che è legato alla famiglia Ono non solo dagli affari.
Nonostante la freddezza con cui lo ha accolto al primo incontro gli chiede amicizia e collaborazione: deve consegnare una lettera ad Ayako, non vuole essere visto a consegnarla di persona.
Le esitazioni di Kayama sono legate al suo carattere indeciso e remissivo: convinto da altri a sposare a caro prezzo Taeko, preferirebbe tuttavia Ayako ma sembra non trovare il coraggio per dichiararlo e viene per questo disprezzato.
Kameda, sotto il fuoco incrociato delle passioni altrui, viene chiamato da ognuno per avere sostegno, e a nessuno lo nega.
Ayako le mostra il contenuto della lettera: Kayama afferma che se lei lo vuole ancora romperà la promessa con Taeko. Ma è tardi, la donna si sente umiliata da un amore tradito per danaro, e chiede di restituire la lettera al mittente con questa risposta:
"L'amicizia non si compra".
Pur rifiutato da Ayako, Kayama viene ancora incessantemente pressato sia dalla madre che dalla sorella a rompere un matrimonio d'interesse che lo legherebbe ad una donna dalla pessima reputazione. Kadema assiste ad animate discussioni tra i tre. Il padre, alcolizzato, non viene preso in considerazione.
E' in quel frangente che Taeko bussa alla porta, e Kadema che stava tentando di interrompere un alterco va ad aprire per permettere agli altri di ricomporsi.
Per la prima volta incontra di persona Taeko, e ne rimane immediatamente colpito, come rimane visibilmente colpita lei. Quelle due persone sono destinate a legarsi, pagando qualunque prezzo.
Lei riprende per prima la voce, dopo che a lungo sono rimasti a fissarsi in silenzio, dicendogli che ha l'aria di chi ha appena visto un fantasma.
Ed è probabilmente vero: Kadema incontra per la prima volta una persona che incarna i suoi sogni, forse i suoi incubi.
Taeko chiede di entrare per essere presentata ai familiari di Kayama.
Non le nasconderanno la loro ostilità.
L'incontro viene ulteriormente turbato dall'ingresso improvviso di un nugolo di persone.
Accompagnano Akama, che appena saputo del progetto di matrimonio è venuto a rivendicare Taeko, rimanendo estremamente sorpreso di incontrare lì anche Kameda.
Taeko si ricorda dei loro progetti, dell'anello di diamanti che lui le aveva donato in pegno. Ma non sembra interessata a riprendere i rapporti, e non veda perché debba interessarsi ai suoi programmi di matrimonio.
Denkichi Akama non è una persona che demorde facilmente.
Come se non avesse ascoltato il rifiuto della donna Akama offre denaro a Kayama per lasciarla.
Inizialmente la stessa cifra promessagli per sposarla, per poi subito proporre cifre molto più alte, che consegnerà immediatamente.
Taeko è mossa ad un riso nervoso, quasi isterico: trova buffo quanto strano che la sua quotazione sia improvvisamente lievitata, in pochi minuti.
La situazione degenera rapidamente in un nuovo litigio.
Kameda cerca di trattenere Kayama dal mettere le mani addosso alla sorella, ma è lui ad essere colpito per reazione da un violento schiaffo.
La gravità del gesto sembra far rinsavire momentanemente i litiganti, o perlomeno pentirli delle loro esagerazioni.
Kameda si affanna a spiegare che non è successo nulla e non si è offeso, rincuorando i più mortificati: è il suo destino. mentre quello dell'irruente Akama è quello di ribellarsi come una animale selvaggio ad ogni situazione sgradita.
Eppure anche Kadema ha una notevole forza interiore.
Il suo primo pensiero quando si è ristabilita la calma è di rivolgere delle parole gentili a Taeko. Egli sa che il suo vero essere non è quello che sembra, quello che gli altri hanno creduto di capire. Il volto in lagrime di Kameda fa nascere - tra le lagrime - un sorriso su quello di Taeko.
Lei non osa rispondere, bruscamente volta le spalle e si allontana, ma prima ancora di arrivare alla porta avvertirà il bisogno di tornare ed andare a scusarsi con la madre di Kayama. Tutto quello che la donna ha detto nei suoi confronti è, purtroppo, vero, ma chiede solo di essere dimenticata.
Kurosawa volta pagina. Taeko sta partecipando ad una festa elegante, la festa del suo compleanno; è molto fredda con Tohata, il suo amante e padrone che vuole allontanarla. Continua a bere nervosamente e nessuno osa rivolgerle la parola. I tre uomini che le sono accanto (Ono, Kayama e Tohata) la fissano senza riuscire a dire o fare nulla.
L'impasse viene rotta dall'arrivo di Kameda, che Taeko ha voluto invitare senza dirgli cosa lo aspettava: è vestito con la sua solita giacca militare, malridotta ed inzuppata dalla pioggia. A chi è sorpreso e contrariato del suo arrivo Taeko contesta che sia l'idiota che credono. E' anzi molto più acuto di loro nel comprendere la natura umana.
L'arrivo di Kameda è sfortunato: entrando nel salone urta un vaso prezioso e lo fa cadere a terra dove va in mille pezzi. Gelida, Taeko affronta e risolve anche questa situazione: detestava quel vaso, nonostante il suo grande valore, e avrebbe desiderato romperlo lei, cui d'altra parte era stato regalato. Per dimostrarlo getta immediatamente al suolo il vaso gemello. Nessuno osa fiatare, Ancora una volta Taeko con la sua sola presenza intimidisce ogni uomo che le si trovi di fronte.
Ben presto la tensione torna a salire: Kameda assicura di avere visto già degli occhi come quelli della donna, senza però riuscire a ricordare dove. Lentamente i ricordi iniziano a riafforare: erano gli occhi di una persona condannata a morte, come lui. Sente nella mente i passi cadenzati dei soldati pronti ad aprire il fuoco sui condannati, che attendono il loro turno schierati su due file. L'uomo i cui occhi lo hanno colpito si trova nel primo gruppo di condannati ed è molto giovane, sui venti anni. I suoi occhi mostrano tutto l'orrore della situazione, e Kameda non può sostenerne lo sguardo.
Taeko, di fronte a tutti, informa Kameda che dovrà dare quella notte una risposta a Kayama, che ha chiesto di sposarla. Le consiglia di accettare? A chi trova sconveniente questa richiesta pubblica Taeko rinfaccia che Kameda è l'unica persona che le abbia prestato fiducia senza chiedere nulla di lei, che è pertanto tenuta a ricambiare questa fiducia. Kameda le consiglia di rifiutare e lei è irremovibile: seguirà il consiglio.
Kurosawa è uno dei più grandi maestri nell'arte di montare la tensione, di costringere lo spettatore ad abbarbicarsi allo schermo con i mezzi del mestiere o con quelli che l'arte impone di creare al momento. Troppi per essere citati, e sciocca sarebbe la pretesa di 'spiegarli'. Rimane unica e peculiare la sua capacità di contaminare il dramma e la tragedia con l'ironia.
I tre uomini interessati alla risposta di Taeko inscenano un grottesco balletto. Ognuno di loro si sente beffato: Kayama perde Taeko, Tohata è costretto a tenerla, Ono perde la provvigione. Gli ultimi due trovano necessario superare il trauma bevendo compulsivamente fino a sottrarsi la bottiglia dalle mani l'uno con l'altro, mentre Kayama nel goffo tentativo di rifiutare quasi per dispetto i bicchieri che gli vengono offerti si imbratta di liquore.
Taeko non ha ancora finito di stupirli e traumatizzarli: non sposerà Kayama ma non rimarrà con Tohata. Ma costui non si preoccupi, non dovrà pagare alcuna cifra per liberarsi di lei. Andrà via con i soli vestiti che porta indosso, lasciandogli tutto.
A quel punto irrompe di nuovo, sembra ed è il suo destino, Akama. Ha con se il solito pittoresco codazzo ed un pacco: un milione di yen, il suo prezzo per avere Taeko.
Anche lui ottiene un rifiuto. Taeko chiede a Kameda come si regolerebbe lui per farle una offerta. La prenderebbe semplicemente con se e si prenderebbe cura di lei, se lei volesse.
Tutto sembra volgere al meglio, ma non sarà così: nel suo ingenuo entusiasmo Kameda tesse le lodi di Taeko, casta ai suoi occhi, suscitando le risate dei presenti. La donna, furiosa per essere stata messa in ridicolo, ha uno scatto d'ira, lo definisce anche lei idiota, e fa per mettergli le mani addosso.
Si ferma solo quando scorge in Kameda lo stesso sguardo disperato che lui ha scorto nei suoi stessi occhi.
Kameda rivendica la purezza delle sue intenzioni, anche quando sono tradite da parole inadeguate. L'aggressività di Akama, gli apprezzamenti materialisti di Kayama sulla impossibilità che uno spiantato mantenga una donna abituato al lusso, non li scuotono minimamente.
Tornando al registro umoristico che Kurosawa ama spesso provocatoriamente inserire nella scene più drammatiche, mentre i due discutono ancora, incuranti della folla che li sta ascoltando, alcuni degli astanti manifestano un ingenuo ed intrusivo sbigottimento, che ricorda quello dei bambini ad uno spettacolo di marionette.
Nemmeno i comportamenti più invasivi riescono a distoglierli i due dai loro discorsi.
Lui si è sentito chiamato, quando ha visto per la prima volta il suo ritratto. E lei ha atteso a lungo un uomo come lui.
La macchina da presa si sposta ad inquadrare il 'pubblico', che si è spontaneamente diviso in due gruppi. Gli uomini sono perplessi. Le donne piangono senza ritegno.
Non è possibile resistere alla tentazione di cogliervi una finissima ma affettuosa presa in giro di Kurosawa nei confronti di noi spettatori.
Il tutto costituisce un preludio di prammatica per il previsto lieto fine: Ono, colto dai rimorsi, avverte di dover fare un annuncio, anzi una confessione.
Kameda non è povero come hanno creduto tutti: come suo parente più prossimo lui ne ha amministrato al meglio le fortune.
Si è trovato in grande imbarazzo quando, dopo averlo creduto morto, lo ha visto ritornare inaspettatamente. Si era già impegnato a vendere i suoi beni, e ha tentato di nascondergli la verità facendogli credere che la guerra si era portato via tutto.
Ma ora è pentito: Kameda è ancora il ricco proprietario della grande fattoria che abbiamo visto, che gli verrà restituita immediatamente.
E' solo una beffa giocataci dal maestro.
Il rude e battagliero Akama non può accettare così facilmente la sconfitta, e chiede a Taeko se veramente vuole unirsi a Kameda.
Viste le premesse sembra una domanda retorica, con una risposta scontata.
Invece, dopo una lunga esitazione, lei dichiara di no: andrà piuttosto via con lui, con lo stupefatto Akama.
Non vuole andarsene però senza dare una spiegazione a Kameda: sente che lo renderà infelice, non saprà mai adeguarsi ad un uomo così buono e puro. Ecco perché deve lasciarlo.
Rimane un particolare: cosa fare del milione di yen? L'amico che accompagna fedelmente Akama tenta di restituirglieli.
E' impersonato da Bokuzen Hidari che rivedremo nei panni di Johei 2 anni dopo (I sette Samurai), e che in questo film già avevamo scorto nella parte iniziale sul treno che riporta indietro i due protagonisti. Incomprensibilmente riappare solo adesso per poi sparire di nuovo. La sua parte evidentemente cadde, vittima della censura dei produttori.
Taeko furente afferra il denaro e lo getta nel fuoco del caminetto, invitando Kayama, cui era destinato, ad andarlo a riprendere se veramente lo vuole. Kayama vorrebbe, è chiaro. Ma non ha il coraggio di perdere la faccia ed è questa volta lui ad avere bisogno di bere qualcosa di forte, finendo di imbrattarsi di liquore nel bere affannosamente, come si era imbrattato prima nel tentativo affannoso di rifiutare l'alcol.
Dopo di che, dignitosamente, sviene.
Accanto al suo corpo, in attesa che rinvenga, Taeko deposita la somma, salvata in extremis con la perdita di poche banconote. Taeko e Akama si allontanano nella notte, mentre Kameda corre loro dietro.
Sembra il canovaccio di una commedia dell'arte, che come sappiamo trae le sue origini dal teatro greco e da quello romano. Lo sciocco avaro viene sbeffeggiato, e la bella rifiuta il ricco spasimante che sembrava averla vinta, per unirsi con colui al quale è stata sempre legata. E non ci sentiamo di escludere che Kurosawa sensei a quel genere di arte si sia voluto ispirare nel dettare i toni di questo non-finale.
Crediamo lecito supporre che qui Kurosawa avrebbe voluto concludere la prima parte dell'opera. Dopo aver lasciato credere - perlomeno tra chi non conosce la trama di Dostoevskij - al lieto fine convenzionale, alla catarsi in cui tutto viene spiegato e viene risolto, rovescia bruscamente la logica del racconto e incatena lo spettatore con una serie di domande insolute che potranno trovare risposta solamente in una seconda parte.
Non concordiamo con la sovraimpressione che sposta più avanti l'inizio della seconda parte. Ammettendo che quello fosse il punto in cui Kurosawa intendeva concludere la prima, lo squilbrio dell'opera dovuta ai pesanti tagli della produzione suggerisce di farla iniziare qui, quando appare sullo schermo la scritta Nigatsu (Febbraio), in quanto conclude una fase della vicenda e se ne aprirà poi una nuova di segno differente
Va detto però che la storia di Kameda e delle persone che gravitano intorno a lui conosce una cesura temporale legata ad un lungo viaggio del protagonista a Tokyo che lo allontana dalla vicenda, e questo giustificherebbe l'identificazione della seconda parte nel punto indicato dalle scritte. Ma i tagli hanno fatto sì che non risulti affatto significativo nello svolgimento delle vicende.
Come già detto il film fu un fallimento e probabilmente fu decisiva nel giudizio negativo questa seconda parte che è estremamente dura, e non facile.
Pur concedendo quanto appena detto, dobbiamo quindi pensare che la rappresentazione della tragedia umana abbia così pochi estimatori, ed ogni tentativo di Kurosawa sia stato destinato a fallire miseramente fin dall'inizio? Sarebbe probabilmente un errore di valutazione: Rashomon, Il trono di sangue, ed anche le grandi opere tarde Kagemusha e Ran: cosa rappresentano se non immani tragedie causate dai sentimenti umani? Eppure riscossero successo su scala mondiale e vengono ancora oggi incessantemente proiettate ed ammirate, ogni giorno.
Sembrerebbe che l'essere umano sia capace di accettare la rappresentazione dei propri vizi solo quando viene ambientata in una epoca lontana, attribuendo ambizione, falsità e ogni altra qualità negativa ad esseri quasi mitologici con i quali non è possibile identificarsi, e si rifiuti invece non solo di approvare l'opera ma perfino di prenderne visione quando l'ambiente e le situazioni sono troppo vicine a lui e corre il sospetto che quei vizi e quelle miserie possano albergare anche dentro chi guarda.
Questa parte del film non si presta ad essere raccontata e nemmeno riassunta, va semplicemente vista. E' un grande affresco sul problema della incomunicabilità umana, un tema che ha attirato le attenzioni di altri grandi artisti e che Kurosawa affronta senza concessioni alla retorica e con minime concessioni allo spettacolo.
Cercheremo di ridurre al minimo la nostra esposizione, al solo scopo di consentire di conoscere l'opera per sommi capi anche a chi non l'ha visto e forse non ha modo di vederla: in italiano esiste una versione del 2006 pubblicata da Minerva Video in cofanetto assieme a Scandalo, ma è difficile reperirla. Ogni tentativo di far conoscere o addirittura comprendere qualcosa di più con la nostra povera prosa sarebbe presuntuoso.
La prima sequenza mostra la famiglia Ono che discute dei difficili rapporti con Kameda, criticato pesantemente dalla signora Satoko che si chiede - anche lei - se non sia veramente idiota.
Ayako, offesa, rivela che ha ricevuto da lui una lettera e inizia a leggerla, ma l'ingenua prosa di Kameda suscita solo ilarità. Non però in Ayako: quella che per altri sembra bizzarria è per lei semplicemente onestà e trasparenza.
Taeko infine non ha scelto Kameda né Akama, ed entrambi la cercano ancora. Si incontrano un giorno: Akama conduce l'amico e rivale per un interminabile ed inquietante percorso all'interno di un grande edificio semidiroccato ed invaso da ghiaccio e neve. Vive là, in un singolare miscuglio di lusso e trascuratezza.
Dopo un lungo silenzio i due finalmente si parlano: Kadema chiede all'altro se ha ancora intenzione di sposare Taeko. Sente che sarebbe la rovina per entrambi, e non lo dice per il proprio interesse: l'ha sempre detto.
Akama lo trattiene quando fa per andarsene. Sente che appena sarà andato via ricomincerà a detestarlo. Eppure gli è legato come prima, per quanto siano diversi ed anzi agli opposti.
Il loro amore per Taeko è differente: Kameda la ama perché la vede sofferente, lui la ama semplicemente, ma la odia allo stesso tempo. E il fato vuole che Taeko, innamorata di Kameda, non possa accettare l'idea di stargli vicino portandolo alla rovina. Preferisce rovinare assieme ad Akama.
Kameda è turbato, e senza rendersene conto rigira per le mani un coltello poggiato sul tavolo: Akama ne è turbato a sua volta. E' un presagio infausto, ma Kameda continua ad essere sinistramente attratto dalla lama. Tenta ancora di prendere congedo, quando sulla soglia si ode un campanello: è la madre di Akama che prega per gli antenati.
Crede Kameda nella religione? Non particolarmente, ma ha un suo o-mamori (portafortuna che si porta appeso al collo dentro un sacchetto, abitudine che hanno molti giapponesi). E' una pietra raccolta convulsamente da terra quando gli venne risparmiata la condanna a morte. I due si scambiano i rispettivi portafortuna e Akama propone di prendere un te assieme a sua madre.
La donna è affetta da una forma benigna di follia: è rinchiusa in un suo mondo impermeabile dall'esterno, e tuttavia sorride incessantemente. I suoi gesti sono esatti e meticolosi, nonostamte la sua mente sia assente. I due escono infine rinfrancati da quel momento sereno ma le loro inquietudini riprendono subito il sopravvento. Akama non accetta la mano tesa di Kameda, scusandosi col dire che non ce n'è bisogno dopo lo scambio di portafortuna. E' nervoso per quello che sta per dire e lo dice quasi con violenza: Taeko appartiene a Kameda, lui deve farsi da parte. Serbino solamente il suo ricordo.
Da quel momento in molte scene si acolta il suono di campanelli - sonagliere dei cavalli od altro - che ricordano con i loro incessanti rintocchi quelli dell'altare degli antenati in casa Akama. Risuonano in continuazione nelle orecchie di Kameda, turbandone il già fragile equilibrio e portandolo ad aggirarsi inquieto e solitario per la città affollata, brulicante di persone chiuse come lui nei propri problemi.
Si sente spiato e guarda tutti come potenziali nemici, ogni incontro casuale gli fa temere un agguato. Viene affascinato, e allo stesso tempo terrorizzato, dai coltelli da cucina visti in una vetrina. Fugge, senza sapere da cosa, senza sapere dove. Alla fine di una corsa disperata e all'impazzata, si ritrova davanti ad Akama, armato di quel coltello da cui tutto è partito, che gli si avventa contro.
L'urlo inarestabie di bestia ferita che esce dalla gola di Kameda annienta la volontà di Akama prima che riesca a vibrare il colpo: dapprima esita, poi arretra, infine fugge all'impazzata.
E' a questo punto che compare a schermo la scritta FINE DELLA PRIMA PARTE. Ma non sembra coerente con la trama e siamo già a due terzi del film. La scritta successiva è PARTE DUE: AMORE E REPULSIONE.
Veniamo a sapere nella scena seguente che Kameda, appena uscito dall'ospedale, è ospite dei Kayama. E' infatti in pigiama e ha appena mandato Karube, il buffo accompagnatore di Akama, a chiedere alla famiglia Ono un anticipo sulle rendite della fattoria per pagare le cure.
Questo ha scatenato l'ira della signora Ono che è venuta per protestare.
In realtà, ma ne parlerà solo a tu per tu con Kameda, vuole conoscere le sue intenzioni nei riguardi di Ayako. Probabilmente nemmeno lui le conosce realmente, il suo imbarazzo è evidente.
Kurosawa rende evidente allo spettatore che la donna fingendo di essere contrariata sta in realtà astutamente incoraggiando Kameda tantevvero che lo rassicura: se Ayako gli ha vietato di visitarla sicuramente vuole invece vederlo...
Siamo nel pieno del Carnevale, e i protagonisti si incontrano ad una sfilata in costume sulla pista di pattinaggio. Costumi fantasmagorici ed inquietanti appaiono e scompaiono alla luce delle fiaccole, accompagnati dalla musica della Notte sul monte Calvo. Kurosawa ricorrerà spesso ad accompagnamenti musicali di origine russa, più avanti sentiremo Ayako accennare al pianoforte I quadri di una esposizione. Anche la costante presenza della neve, ricercata da Kurosawa fin in Hokkaido contribuisce a ricostruire l'atmosfera immaginata da Dostoevskij, e le frequenti scene notturne ne accentuano la cupezza.
Ayako si lascia accompagnare da Kayama, Kameda pur contrariato non riesce a dire nulla. Chi parla è invece una dama mascherata (Taeko) che con poche battute getta lo scompiglio nel gruppo. Tutti incontrano tutti, ma nessuno si muove dalle sue posizioni. Tuttavia Ayako, che chiaramente voleva solo ingelosire Kameda, gli chiede un appuntamento per il giorno dopo nello stesso posto.
Kameda vi arriva stanco, ha dormito poco e nulla durante la notte: Kayama ha tentato il suicidio, o forse l'ha solamente inscenato. I discorsi di Ayako sono incoerenti: inizia dichiarando grande stima per le qualità di Kameda, ma subito dopo di detestarlo e di amare il povero Kayama.
Invano Kameda le fa notare le sue incongruenze, è lei piuttosto a chiedere a lui di dire la verità: ama ancora Taeko? Per la verità Kameda non lo ha mai negato. Quello che non sa fare è spiegarne le ragioni, e anche se potesse dubita che Ayako potrebbe capirle. I suoi sentimenti sono quelli di chi vede una persona chiusa in gabbia e maltrattata e vorrebbe accettare su di se quella sofferenza per liberarla, pur cosciente che è un gesto non apprezzabile da una persona ormai turbata.
Ayako rivela di avere ricevuto da Taeko alcune lettere in cui le consigliava di sposarsi con Kameda: le ritene una offensiva intromissione, che ha lo scopo di dividerli e non unirli.
Autorizzato dalla madre a frequentare Ayako in vista di un matrimonio, Kameda si renderà conto ben presto che la ragazza gli darà filo da torcere. Esige la sua presenza per poi rinfacciargli che è troppo invadente, dichiara di detestarlo per poi immediatamente proporgli di fuggire assieme, e così via.
Kurosawa commenta a suo modo chiedendo all'autore delle musiche (Fumyo Hayasaku, che scomparve pochi anni dopo durante le riprese di Vivere nella paura) di accompagnare queste scene, su cui si compiace di indugiare, con un beffardo sottofondo musicale.
Nonostante tutto, proprio durante una delle peggiori scenate di Ayako, Kameda prende il coraggio a due mani e le chiede davanti ai genitori di sposarlo.
La madre oppone subito il suo rifiuto, mentre il padre temporeggia, ma ben presto entrambi i genitori si rendono conto che devono lasciare la decisione ad Ayako.
Lei incontra di nuovo Kameda, rimanendo alle sue spalle poiché non vuole essere osservata in volto.
Il cuore le dice nonostante tutto di accettare ma entrambi si rendono conto che tra loro due incombe l'ombra di un'altra persona e che non riescono a lberarsene.
Non è solo un'ombra, è una presenza reale. Una sera, mentre vaga solitario in luoghi deserti, Kameda vede in lontananza due persone, che si rivelano poi essere Akama e Taeko. Lei lo raggiunge, Akama si tiene a distanza, in silenzio. E' un addio: Taeko vuole sapere se è felice o pensa di poterlo essere con Ayako. Ma non riesce nemmeno ad ascoltare la risposta, si allontana di corsa sparendo nelle tenebre. E' Akama a spiegare: il giorno seguente i due partiranno, e probabilmente non torneranno mai più.
Prima della partenza sono però destinati ad incontrarsi ancora. Ayako confessa di comprendere la sua rivale e di avere il desiderio anzi la necessità di conoscerla. Dal canto suo Taeko ammette che Ayako ha tutto quello che lei avvrebbe voluto essere senza averne mai avuto la possibilità, e costituisce per lei un punto di riferimento: vuole che i suoi sogni si avverino attraverso di lei. Mentre fa queste confidenze ad Akama l'altra coppia sta attendendo di fuori, sferzata da un vento gelido mentre raccoglie il coraggio per entrare.
All'interno della enorme e inquietante dimora le due donne continuano a lungo a fissarsi, senza dir nulla. I due uomini si tengono in disparte, in attesa ed anchessi in silenzio. E' Ayako infine a parlare. E' venuta per portare una risposta alla lettera di Taeko, ma non prima di averle fatto una domanda: ha idea del tipo di persona che è Kameda? Taeko afferma orgogliosamente di saperlo meglio di lei. Ma è possibile che una persona egocentrica possa esplorare il cuore del suo prossimo? E perché ha esposto al pericolo Kameda se ne comprende ed apprezza la purezza d'animo? In quanto alla risposta alla lettera: Taeko si tenga solamente lontana da loro due, senza interferire con la loro vita.
La reazione di Taeko è risentita e aggressiva: Ayako è venuta solamente per gelosia, per vedere con i suoi occhi la persona che Kameda ama più di lei. Ma questo importa poco: non sentendosi degna di questo amore preferisce che sia lei a prendersi Kameda, per quanto incapace di rendersi conto che è proprio lei a farlo soffrire costringendolo a vivere queste situazioni. Andrà via.
Come Ayako però anche lei facilmente cede all'ira cambiando idea senza preavviso: Kameda decida subito, immediatamente, chi vuole delle due. Una volta per tutte. Ma lei non rinuncerà spontaneamente
Kameda è irresistibilmente attratto dalla sofferenza. Scegliendo Ayako soffre per Taeko e sente il bisogno di scegliere lei, a questo punto ha pena di Ayako e non sa più che fare. In un momento in cui Taeko sembra la scelta definitiva Ayako non resiste alla tensione e fugge.
Kameda vorrebbe allora rincorrerla, ma in quel momento Taeko sviene. Si arresta per soccorrerla, sempre più impietosito. E' Akama a rompere l'incantesimo: vada dietro Ayako senza perdere tempo. A Taeko penserà lui.
Le emozioni hanno sfibrato Ayako, che tornata a casa da sola in mezzo alla tormenta è ora preda ad una forte febbre. Esasperato il padre dichiara a Kameda di averne abbastanza di lui. Quella storia è finita.
Quando esce abbattuto dalla casa trova Akama ad attenderlo nel buio. Bruscamente gli dice di seguirlo: hanno bisogno di camminare. Mentre camminano si rifiuta di rispondere ad ogni domanda.
Dopo un lungo percorso ritornano alla dimora di Akama. Solo la luce di una candela illumina la stanza, buia e fredda perché Akama dichiara di non poter accendere la stufa. Makeda trema, e non solamente per il freddo.
Vede una sagoma oltre la cortina del letto. Chiede se Taeko sta dormendo. Sì. Vuole vederla? Akama lo accompagna verso il letto, ma lasciando la candela sul tavolo. Ci si vedrà lo stesso.
Kameda scosta le cortine. Ne esce sconvolto e tremante, Akama lo deve sorreggere.
Akama vuole che passino la notte assieme, parlando. Non è il caso di ripetere i loro discorsi, non avrebbero alcun senso trasportati fuori dalla rappresentazione.
La mente di Akama lentamente cede alla follia ed i suoi discorsi diventano sempre più allucinati. Kameda lo convince a riposare e si coricano abbracciati. L'ultima candela si spegne, assieme alle loro vite.
La mattina il freddo - Akama non ha voluto accendere la stufa per preservare intatto il corpo di Taeko - li ha uccisi entrambi.
La morte di Kameda non sarà inutile: il suo amore indiscriminato per ogni essere umano verrà ricordato e rimpianto da quanti lo hanno conosciuto pur senza riuscire ad apprezzarlo al momento.
A a tutti presta la sua voce Ayako augurandosi tra le lagrime che sia possibile anche per altri amare gli esseri umani come li ha amati Kinji Kameda, l'idiota.
Con queste parole inizia L'idiota di Fedor Dostoevskij, descrivendo il primo incontro tra i due protagonisti.
Sulla fine di novembre, verso le nove del mattino, il treno di Varsavia arrivava a tutto vapore a Pietroburgo e trovava un tempo umido e freddo.La nebbia era così fitta che il sole dell'alba faceva luce a stento: a destra e sinistra, guardando fuori dai finestrini del vagone, era difficile distinguere qualcosa,
Fra i passeggeri, alcuni stavano rimpatriando; ma erano soprattutto piene le carrozze di terza classe, e la povera gente che le occupava non veniva da molto lontano. Tutti, come sempre accade, erano stanchi, gli occhi pesanti, le membra intirizzite, le facce ingiallite dalla fatica e dalla nebbia.
In una di queste carrozze di terza classe, alle prime ore del mattino, due viaggiatori si trovarono vicino allo stesso finestrino: giovani entrambi, non eleganti, dalla fisionomia abbastanza espressiva, desiderosi di trovare un motivo per attaccare discorso. Se avessero saputo per quale motivo, in quel momento, tutti e due erano interessanti l'uno per l'altro, si sarebbero senzaltro stupiti dello strano caso che li aveva fatti sedere di fronte in uno scompartimento di terza classe del treno Pietroburgo-Varsavia.
Uno dei due, piccolo, sui ventisette anni, capelli ricci e quasi neri, occhietti grigi pieni di fuoco - aveva il naso largo, gli zigomi sporgenti e le labbra sottili, piegate in una smorfia, gli trasformavano in un ghigno cattivo quello che voleva essere un sorriso. Un tipo che avrebbe fatto una cattiva impressione a chiunque, se non fosse stato per la fronte spaziosa e ben modellata che temperava la volgarità della sua bocca. Eccezionale, poi, era il suo pallore cadaverico; un colorito che lo faceva appaire debole malgrado la robusta costituzione e che gli dava un aspetto appassionato fino alla sofferenza, un'aria tormentata che stonava col suo ghigno beffardo e la vivacità quasi impertinente degli occhi. Avvolto in una calda pelliccia d'agnello, non aveva preso il freddo della notte, mentre il suo compagno stava sentendo nella schiena tutto il rigore dell'autunno russo, al quale, evidentemente, non era preparato.
Questo indossava solo un largo mantello col cappuccio e senza maniche, come si usa in Svizzera o nell'Italia settentrionale, dove il clima è meno rigido e dove nessuno si sogna di viaggiare da Eydtkuhnen a Pietroburgo durante la notte. Anche lui era giovane, tra i ventisei e i ventisette anni, alto poco più della media, capelli folti e biondissimi, guance infossate, pizzo quasi bianco. Aveva gli occhi grandi, celesti, fissi: uno sguardo dolce ma appesantito da quella strana espressione dalla quale alcuni sanno riconoscere gli individui soggetti ad attacchi epilettici. Il suo viso era delicato, quasi livido tanto era pallido, ma, malgrado tutto, sprigionava simpatia. Tra le mani stringeva un fagotto leggero: tutto il suo bagaglio, molto probabilmente. E, ai piedi, portava scarpe con la suola spessa e ghette coi bottoni. Il giovane dai capelli neri, stretto nel suo cappotto di pelliccia, osservò tutto questo, tanto per ammazzare il tempo, e, con quel sorriso indelicato che rivela, a volte, una maligna compiacenza dei guai del prossimo, finalmente domandò al suo vicino:
«Avete freddo?»
«Un freddo terribile», rispose pronto il compagno. «E per fortuna che siamo ancora in autunno... non credevo davvero di trovare tanto freddo. Non ci sono abituato.»
«Venite dall'estero?»
«Sì, dalla Svizzera.»
«Eh, eh!»
Il giovane dai capelli neri fischiò e si mise a ridere. S'intavolò la conversazione. Meravigliosa la prontezza del giovane biondo, che, senz'ombra di diffidenza, soddisfava le domande, più o meno vacue e indiscrete, del compagno.
Mancava dalla Russia da più di quattro anni; l'avevano spedito all'estero perché afflitto da una strana malattia nervosa, epilessia o ballo di san Vito, accompagnata da tremiti e convulsioni. L'altro ascoltandolo, più di una volta si mise a ridere; soprattutto quando alla domanda:
«Ebbene, vi hanno guarito?»,
il biondo rispose semplicemente
«Guarito? No, non mi hanno guarito.»
Fedor Dostoevskij, L'idiota
Newton Compton, 2011, p. 21-22
Traduzione di Federigo Verdinois