Tecnica/Cultura
Il tantô da allenamento: questo misconosciuto
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Come è noto a ogni praticante di aikidô, anche con pochi mesi di tatami alle proprie spalle, vengono spesso utilizzate negli allenamenti, con varie modalità, alcune armi tipiche del samurai. Il bokken ed il jo sono destinati all'esecuzione di movimenti concatenati in sequenze, eseguiti a solo o in coppia. Non possiamo definirli kata (forme) in quanto non ne sono fissate le modalità esecutive: non sono rigidamente codificati la distanza di lavoro, i tempi di esecuzione ed ogni altro fattore che si possa prendere in considerazione. Il tantô è invece un pugnale di legno ad un solo tagliente (ovviamente simulato), che si utilizza esclusivamente per tecniche di evasione dall'attacco e di disarmo, definite tantôdori.
Il bokken è una spada di legno leggermente curva lunga normalmente 102 cm, il jo è un bastone perfettamente dritto lungo 128 cm e spesso dai 2,4 ai 2,8.
L'essenza principe utilizzata per lavorarli è la quercia, nelle varietà bianca (shirokaji) e rossa (akakaji). Più rari gli esemplari in ciliegio (sakura), nespolo (biwa) o in legni esotici di pregio.
Nella foto sono presenti anche un tantô - in alto - ed un wakizashi - in basso - utilizzato nei moderni kata di kendô e in diversi koryu (antiche scuole) e lungo intorno ai 45 cm.
Il tantô è lungo poco meno di 30 cm. Ne parleremo ora. Chiedo scusa se vi saranno numerose digressioni, ma ci daranno l'occasione di conoscere un po' più da vicino la storia di questa arma.
Cominciamo comunque da un tantô "classico". Vediamo nella foto un esemplare che ha diversi anni di carriera: proviene da un lotto importato dal Giappone nel 1975 per essere distribuito agli allievi del Dojo Centrale di Roma ed è della ditta Sakura.
Stendiamo un velo pietoso sulla incisione a fuoco di stile yellinge (diciamo per intenderci vichingo) frutto delle entusiastiche divagazioni giovanili del sottoscritto. Per il resto rIsponde in tutto e per tutto alle caratteristiche del tantô da allenamento di fattura regolare, che non corrispondono però alle caratteristiche storiche dell'arma. Le ragioni mi sono sconosciute, propendo per una banale necessità di riciclare gli scarti di lavorazione dei bokken, di cui infatti questi tantô riprendono la curvatura, che viene definita sori.
Il particolare della parte terminale ci permette di familiarizzare con la terminologia delle armi bianche giapponesi. Il dorso della lama viene chiamato mune. Sorvoliamo per il momento sulle varie tipologie del dorso e delle altre componenti, limitiamoci a qualche nozione di base. La punta della lama si chiama kissaki e la zona in cui inizia a rastremarsi viene definita boshi.
Il tagliente si chiama ha, ed è costituito nelle vere lame da una barra di acciaio a tenore di carbonio differenziato e temprato ad una temperatura più alta, visivamente dstinguible dal resto della lama. Questa zona, delimitata in basso dal tagliente (ha) e in alto dal contorno della zona a tempera selettiva (hamon) si chiama yakiba. Distinzioni ovviamente prive di senso parlando di un'arma da allenamento in legno, ma possono essere apprezzate nell'articolo che parla della terminologia del nihontô, la spada giapponese.
I lati della lama si raccordano al mune rastremandosi con piani inclinati chiamati shinogi, che sono quelli che vengono di preferenza a contatto con la lama nemica per bloccarla o deviarla, evitando di danneggiare il tagliente.
In realtà il tantô nasce come estrema risorsa sui campi di battaglia. Diceva a questo proposito Hosokawa sensei, sempre in quegli anni materialmente lontani ma indelebilmente fissati nella memoria: "Il tantô è l'arma cui il samurai tiene maggiormente. Quando la lancia è spezzata, la spada diventa inutile nella mischia, il tantô è l'ultima risorsa. L'ultimo amico cui affidare la propria vita".
Ideato come arma adatta a penetrare nelle giunture delle armature se non addirittura a sfondarle negli esemplari più robusti e di maggiore spessore (prendendo in questo caso il nome di yoroidoishi), il tantô è praticamente dritto, pensato soprattutto per vibrare micidiali affondi sebbene tagliente quanto e più di un rasoio.
E' normalmente privo di shinogi, assumendo la sezione triangolare denominata hirazukuri. Nella foto l'opera di uno dei primi maestri rinomati per la loro produzione di tantô: Rai Kunitoshi (XIII secolo). La foto proviene dalla grande esposizione tenuta al Museo di Solingen nel 2002. La yakiba, sottile e diritta come d'uso all'epoca, forma la linea detta suguha.
Il senso della domanda non è di chiedersi la ragione delle differenze tra il tantô da allenamento commerciale ed il "vero" tantô. In realtà questi attrezzi vanno benissimo per il compito che è loro richiesto, anche quando sono quelli economici fabbricati in Cina. La ridotta lunghezza e la mancanza di tecniche di impatto li rendono esenti dal rischio di rottura e la presenza dello shinogi, sia pure non ortodossa, facilita la presa nelle manovre di disarmo, che per ovvie ragioni si eseguono sempre facendo leva sul dorso della lama e non sul tagliente. Quindi la domanda è "perché volersi ostinare sui tantô "filologici?" Nemmeno questa risposta sarà facile, e ci porterà abbastanza lontani dal tema principale ma forse vicini a fare delle considerazioni ad un livello differente da quello puramente materiale.
Dico immediatamente che già nei "tempi eroici" che mi capita ogni tanto di rievocare mi era venuta l'idea fissa di fabbricare dei tantô e dei bokken, senza alcuna ragione pratica: il costo di quelli commerciali non era elevato, e come già detto svolgevano egregiamente il loro compito. Ma ne sentivo ugualmente il bisogno, e forse solo adesso riesco a comprenderne fino in fondo le ragioni e ve ne farò parte. All'epoca cedetti semplicemente ad un impulso istintivo, ma ben presto - con grande stupore - ricevetti segnali di approvazione e di incoraggiamento non solo e non tanto dai miei compagni di allenamento, che pure non mancavano mai di postulare un esemplare a loro uso e consumo, ma addiritura dai miei maestri.
Uno dei miei primi tantô venne donato al maestro Masatomi Ikeda, e mi capitò di rivederlo alcuni anni dopo durante un seminario nella saletta riservata ai maestri del Dojo Centrale, con chiari segnali di un uso prolungato.
Hosokawa sensei, stimato conoscitore del nihontô, fu immediatamente prodigo di consigli, che mi fecero intravedere che non potevo limitarmi a copiare ma avrei dovuto cercare in direzioni non ben definite qualcosa di diverso anche se non necessariamente "di meglio".
Il primo consiglio fu: "Li dovresti fare senza sori. O con un sori solamente accennato."
Non avevo mai visto in vita mia un vero tantô, quindi non ero in grado in quel momento di comprendere le ragioni delle sue istruzioni. Ma le seguii.
Per breve tempo però. Il primo bokken nello stile jigen ryu fu per me croce e delizia. Rimasi dapprima imbarazzato, poco dopo deliziato ma infine sconvolto quando grazie alla sfacciataggine di alcuni compagni di pratica questo bokken venne sottoposto all'esame di Tada sensei, che all'epoca prediligeva appunto quel tipo.
Avrei voluto scomparire, mi sembrava sintomo di infinita presunzione chiedere un parere alla massima autorità immaginabile. Ma ormai, perso per perso, visto che il maestro si attardava nell'esame, trovai il coraggio di chiedergli non che cosa ne pensasse - per non obbligarlo a diplomatici elogi - ma dove avrei dovuto impegnarmi per comprendere meglio. Come al solito la sua risposta fu concisa ed illuminante. Anche se imbarazzante: "Va bene così."
Perché imbarazzante? Perché io non avevo la più pallida idea del perché quel bokken andasse bene così.
Certamente, me ne rendevo conto in qualche modo, Ma le ragioni mi rimanevano completamente oscure: in un certo senso "si era fatto", non l'avevo fatto io. O perlomeno il mio contributo era stato marginale e casuale.
Kobayashi Hideo sensei, che frequentava all'epoca il Dojo Centrale, mi chiese addirittura dopo aver visto e provato quel bokken di fabbricarne una piccola serie per i praticanti del corso di kendô che stava avviando in quel periodo. Con rammarico dovetti rinunciare, adducendo delle motivazioni di ordine meramente pratico. Non era infatti possibile procurarsi con continuità il legno necessario: tutte le essenze disponibili sul mercato si erano rivelate inadatte ed esaurita la piccola riserva di quercia calabrese inviatami per ferrovia dall'amico VIttorio Laiso, responsabie del Dojo di Lauria, avrei dovuto fermarmi. Ma la vera ragione, me ne resi conto solo dopo sia pure avendola intravista già all'epoca, era che io non ero in grado di produrre metodicamente - e non episodicamente - quello che intravedevo nella mente e vagheggiavo di fare.
A distanza di molti anni però ho sentito l'impulso ed il dovere di tornare a produrre quegli oggetti, ma limitandomi per una serie di ragioni che elencherò più tardi, alla sola arma corta: il tantô. Le ragioni di questo bisogno latente destinato a riaffiorare inesorabilmente nonostante ogni tentativo di reprimerlo, possono essere di interesse generale, per quanto rimangano mie e personali.
Nell'arte - o per meglio dire nell'artigianato - della produzione di tantô si esercitano, si mettono in pratica, si rendono visibili, molti dei concetti e precetti che dovremmo tenere sempre presenti nell'arte dell'aikido. E forse anche in quella della vita. Si deve entrare in sintonia con un elemento estraneo (il legno) che non dice nulla di se stesso. O almeno nulla che possa essere compreso con gli strumenti dell'intelletto. Lo si comprende, letteralmente, solo mettendogli - con amore - le mani addosso. Un compagno di percorso impegnativo. Ma, come ripeteva (e non solo ai tempi eroici) Hosokawa sensei, solo il confronto con chi è più forte di te permette la tua crescita interiore..
La lavorazione del legno inoltre ha molte affinità con l'essenza delle arti tradizionali giapponesi maggiormente legate allo spirito marziale.
E qui mi devo spiegare. Perché molti grandi maestri amano studiare e praticare lo shodô (calligrafia), il chanoyu (cerimonia del te), la poesia haiku? Perchè richiedono coraggio, decisione, imperturbabilità, sensibilità. La traccia lasciata dall'inchiostro sulla carta non può essere cancellata o corretta: è definitiva, giusta o sbagliata che sia. Come un colpo di spada.
Il gesto del cerimoniere nel chanoyu è perfetto od errato, in modo inesorabilmente perpetuo: quel gesto è stato sbagliato, e tale rimarrà in eterno. Non varrà a correggerlo il gesto successivo eseguito nel migliore dei modi.
Similmente, quando mi chiedono come si procede alla fabbricazione di un tantô, rispondo spavaldamente citando Michelangelo: "Basta prendere un pezzo di legno e comprendere se dentro c'è o non c'è quello che si cerca. Dopo, basta togliere il superfluo. Quello che rimane è il tantô."
Va da se che si lavora in equilibrio precario e senza rete di protezione. Mentre è sempre possibile in altre discipline coprire un errore aggiungendovi sopra qualcosa, qui ciò che è tolto è tolto. Nulla e nessuno potrà mai farlo tornare.
Ed ecco che nasce l'opportunità di praticare anche fuori dal tatami uno dei concetti secondo me più importanti dell'arte: l'aikido si affina togliendo il superfluo.
Non aggiungendo all'infinito strato dopo strato...
Non ci sono ragioni impellenti per volersi costruire un tantô: sia pure dozzinali e poco aderenti ai modelli storici quelli che si trovano in vendita nei maggiori negozi, reali o virtuali, fanno decentemente il loro lavoro e non costano molto. Ma impegnarsi per costruire un oggetto che risponda a quanto si è immaginato (dal punto di vista creativo) e ai requisiti tecnici necessari (dal punto di vista tecnico) è comunque un esercizio che permette di passare momenti piacevoli, appaganti e che aiutano a comprendere meglio i limiti e le potenzialità del proprio essere.
La costruzione di un jô o di un bokken, le altre armi utilizzate nella pratica dell'aikido, richiede l'uso di essenze lignee non solo di pregio, ma anche con determinate caratteristiche (peso specifico, durezza, regolarità e disposizione delle fibre) non facili da soddisfare. Superato questo primo ostacolo ci si trova comunque impegnati nella costruzione di un oggetto impegnativo, per quanto la forma relativamente semplice possa trarre in inganno e lasciar cullare qualche illusione.
Un tantô non è invece sottoposto ai traumi delle armi lunghe, e la sua compattezza fa sì che non sia praticamente soggetto a rotture quindi la scelta del legno è meno vincolante anche perché è molto più facile trovare legno esente da difetti quando la lunghezza richiesta è poco più di 30 cm invece di 110 o 140. Si può addirittura pensare di reperire il legname andandolo a cercare nelle campagne, ed iniziare la lavorazione direttamente da un tronchetto. Che va però normalmente segato a mano: le segherie ormai sono attrezzate solamente per il taglio di tavole e pannelli modulari perfettamente squadrati, i soli inseribili nei complessi macchinari computerizzati.
E' ugualmente preferibile che si tratti di legno compatto, robusto ed abbastanza pesante: per lasciare una sensazione realistica nell'impugnarlo, per non essere soggetto alla perdita di schegge che ferirebbero chi lo utilizza, ed infine per permettere una finitura abbastanza accurata che ne faccia se possibile anche un bell'oggetto. Non avrebbe senso un impegno lavorativo non lieve disperso su materiale di scarto.
Ogni considerazione di carattere economico va rigorosamente abbandonata: una essenza di pregio può arrivare a costare decine di migliaia di €/mc, mediamente stiamo sui 4/5.000€, ed i tempi di lavorazione del tantô sono difficilmente inferiori alla mezza giornata anche per una persona esperta e dotata di tutta l'attrezzatura richiesta.
I tempi possono naturalmente essere ridotti di molto mediante l'uso di macchinari, ma questo aumenta ulteriormente la spesa e priva il processo di fabbricazione di quasi tutta la sua poesia. E' accettabile la sgrossatura del materiale con seghe o levigatrici meccanici, ma come vedremo dopo lo strumento principe per la fabbricazione del tantô rimane la mano dell'uomo.
Ogni essenza ha comunque le sue caratteristiche di base, ed ogni singola tavola di legno ha le sue particolarità quindi ci si ritrova spesso a dover affrontare situazioni impreviste. Nella foto a destra appaiono in alto i trucioli di lavorazione del palissandro indiano, essenza considerata tra le più dure e difficili da lavorare.
Il tantô in lavorazione, ricavato da uno scarto di leccio calabrese stagionato per oltre 30 anni, si dimostra visibilmente più restio alla piallatura, nonostante la mano sia sempre la stessa: il legno è durissimo e i trucioli che si accumulano sulla destra sono talmente minuti da sembrare quasi segatura.
Quindi non sempre è necessario mettersi alla ricerca di legni esotici, che oltretutto sono ormai sempre più spesso protetti dalla convenzione CITES e non commerciabili.
La lunghezza preferibile di un tantô per allenamento è intorno ai 30 cm, circa il 10% maggiore dei tantô commerciali. Il jusen (giusta misura) di un tantô antico è di 9 sun (27 cm) per la lama, cui vanno aggiunti grossomodo 10 cm per il manico.
La montatura cui si rifanno le armi di allenamento è quella definita aikuchi: non è presente la tsuba (guardia) ed il manico non ha tsukamaki (nastratura) ma presenta il rivestimento di samegawa (pelle di razza) ed il menuki (borchia) a vista.
Si tenga presente, per le proporzioni, che talvolta il fodero del tantô era di lunghezza superiore al necessario, per dargli maggiore importanza; è raro invece che la lunghezza di una lama si estenda oltre il punto ove è avvolto il sageo (fettuccia) .
La lavorazione del "nostro" tantô inizia dalla selezione del legno: va rispettata la venatura, che deve essere se possibile ortogonale ai piani di taglio.
Dall'alto: due pezzi in ulivo, uno in boubinga (o palissandro africano, originario del Congo), due in palissandro indiano.
Questa ultima essenza è ora protetta e non più in commercio, giacenze di magazzino a parte.
Eventuali nodi complicano la lavorazione ma possono arricchire l'estetica dell'oggetto. Non rendono il pezzo assolutamente inutilizzabile, come sarebbe il caso se il legno fosse destinato ad un bokken.
Nella foto un esemplare in legno di tasso, terminato nel novembre 2013. Presenta anche "una linea di tempera" (di tipo suguha, ossia diritta); ovviamente non ha alcuna funzione pratica e si tratta soprattutto di un capriccio ma si sa che chi ha pretese artistiche qualche capriccio ritiene di poterselo permettere.
Dovrà però tenere presente che in fatto di capricci anche il legno la sa lunga; molto lunga.
I nodi in particolare, che nascono solitamente nel punto di inserzione di un nuovo ramo, sono maggiormente ricchi di linfa e vasi conduttori e di conseguenza maggiormente soggetti a restringersi con l'essiccatura: é facile che al termine della lavorazione (sarebbe più pietoso se accadesse prima) l'intero nodo dopo qualche giorno si sfili semplicemente e venga via in blocco. Il pezzo grezzo che presenti tali tipi di nodo richiede quindi di essere preventivamente stabilizzato con stucco, mastice o colla, a seconda dei casi. La lavorazione in corrispondenza dei nodi rimarrà comunque un brutto cliente.
Non riesco a tacere che questo tantô costituisce una proposta che ritengo molto giapponese: un artigiano europeo avrebbe con ogni probabilità scartato il legno, troppo problematico e denso di "difetti". Un certo tipo di cultura giapponese accetta invece i "difetti" della natura - compresi quelli della mano dell'uomo -, non li nasconde ed anzi a volte gli vuole conferire risalto.
Gli strumenti necessari per la fabbricazione del tantô, partendo dall'oggetto già abbozzato, sono pochi e semplici.
Occorre resistere alla tentazione di lavorare esclusivamente per abrasione: procedendo a mano con legni molto duri si rischierebbe l'esaurimento nervoso, e la situazione non migliora di molto con le levigatrici orbitali: ne occorrerebbe una a nastro, ingombrante, rumorosa e che produce molta polvere e segatura di scarto (e quando dico molta intendo molta). E' preferibile utilizzare una pialla, in alto. Richiede però un buon periodo di pratica prima di arrivare a risultati accettabili ed il pezzo deve essere fissato saldamente per poterlo lavorare. Inoltre è un attrezzo adatto soprattutto a preparare superfici piane, tantevvero che viene anche chiamato pianuzza e si presta male se si è scelto di dare al tanto un certo grado di curvatura (sori, ormai dovremmo saperlo).
Personalmente preferisco utilizzare delle banali lame di acciaio flessibile, del tipo utilizzato dagli imbianchini per livellare le stuccature nei muri (spatole). Il prezzo è irrisorio, sono disponibili in infinite dimensioni e gradi di flessibilità, si possono portare ovunque, si possono utilizzare anche a mano libera, se necessario anche tenendo fermo il pezzo semplicemente con l'altra mano, si adattano facilmente a lavorare su superfici curve
Hanno l'unico inconveniente di incidere relativamente poco, il numero di passate necessarie per ottenere l'effetto voluto è superiore e di molto a quelle richieste per la pialla. Ma non è detto che sia un inconveniente: questo tipo di attività non ammette impazienza, e con la pialla è facile asportare troppo per eccesso di entusiasmo ritrovandosi con un pezzo di legno non più utilizzabile, o perlomeno non come tantô.
Qui vediamo un tantô che si trova già vicino alle fasi finali della lavorazione: è stato sgrossato con l'utilizzo della lama.
E' stata utilizzata anche per lavorare il piano degli shinogi, raccordando con questa rastrematura i fianchi ed il dorso della lama.
La carta vetrata, di grana non superiore al 200, interviene solamente per rifinire quando è terminato il lavoro della lama.
Ulteriori passate, dopo aver trattato il legno con olio di oliva vergine, verrano date utilizzando grana 600 od 800 per i legni relativamente teneri, 800-1200 per quelli più compatti.
Un'altra delle tentazioni cui bisogna resistere è proprio quella di utilizzare i costosi oli chimici "per legno" disponibili sul mercato: sono sgradevoli durante la lavorazione e non comportano alcun vantaggio rispetto all'olio di oliva extra vergine, che non irrita né la pelle né il legno, che si trova ad una frazione del costo e i cui esuberi si possono utilizzare in cucina senza problemi di smaltimento (come vi potrà entusiasticamente confermare qualunque maestro nipponico che abbia assaggiato a Roma le puntarelle).
Una semplice cassetta di legno può essere utilizzata sia per il trasporto del tantô in lavorazione e dei relativi strumenti, sia come rudimentale ma efficace banco di lavoro, che oltre a fornire i necessari punti di appoggio e di leva permette di raccogliere i trucioli e la segatura senza sporcare l'ambiente di lavoro.
Nella foto è possibile notare che il tantô ha la punta mozza, per quanto la vista laterale faccia immaginare il contrario.
E' una misura di sicurezza su cui non si insisterà mai abbastanza. Chi vuole evitare anche ogni minima possibilità di incidenti farà bene a smussarne anche i bordi, evitando spigoli vivi.
Per la verità però è una precauzione da prendere soprattutto per l'estremità del manico, da arrotondare per evitare che possa far male ad uke durante le manovre di disarmo.
Per firmare le proprie opere è preferibile l'uso di un saldatore con punta fine ma di discreta potenza, altrimenti non si riuscirà ad avere ragione dei legni più duri. Quelli a gas possono essere utilizzati ovunque, quelli elettrici arrivano a potenze maggiori, a volte necessarie.
La firma va apposta sul lato omote del tantô, che è quello mostrato nella foto. Sull' altro lato (ura) si incidono sempre a fuoco - eventualmente - la data, il nome del proprietario, una dedica.
Ci sarebbe da aprire un capitolo a parte sulle firme (mei): gli spadai utilizzavano di preferenza degli ideogrammi particolari, che spesso non vengono più riconosciuti al giorno d'oggi. La mia firma (Bokumoto) ad esempio è stata riconosciuta solo parzialmente al primo acchitto da Fujimoto sensei. L'ideogramma moto da me scelto è infatti se non ricordo male il ventiduesimo tra quelli realmente utilizzati in passato e non ha nulla in comune con il moto utilizzato invece nel suo cognome..
La firma completa dice Bokumoto saku (Legno-moto fece) e riprende lo stile di firma, con due ideogrammi riservati al nome ed il terzo alla dicitura saku oppure tsukuru, preferito alcuni secoli or sono. In epoca successiva le firme divennero più complesse, arricchendosi di titoli onorifici.
Perché Bokumoto? Kane che invece significa acciaio è presente nel mei di molti maestri spadai: Kanemoto, Kanefusa, Kaneuji... Il secondo ideogramma è stato scelto casualmente per mere ragioni di gusto, ho scoperto solo dopo che tra i differenti sigificati che può avere ci sono oriente, provenienza, nascita. Insomma: Nato dal legno. Direi che va bene
Nella foto il mei Kanemoto (una dinastia di spadai attiva per secoli). Come si vede il kanji Moto è un altro ancora. Inoltre la firma è apposta sul lato ura, anomalia tipica della dinastia. Sono intuibili nonostante il colore scuro del nakago, che non viene mai pulito perchè il grado di ossidazione testimonia l'epoca di fabbricazione della lama, anche gli yasurime: incisioni a lima che hanno lo scopo di favorire l'adesione del nakago al manico e sono caratteristiche di ogni maestro, quasi una seconda firma.
Terminata la produzione di un tantô è inevitabile ritrovarsi circondati da molti piccoli pezzi di scarto, che hanno le forme apparentemente casuali determinate dalle necessità di taglio.
Sarebbe una vergogna gettare del legno pregiato, o comunque reperito dopo lunghe e difficoltose ricerche.
Questi "scarti" possono diventare di volta in volta tagliacarte, portaincenso, o assumere caso per caso le funzioni che la sorte vorrà assegnare loro.
Rimane un solo ultimo punto da chiarire.
Accettata l'idea che fabbricare un tantô non debba avere risvolti utilitaristici, è altrettanto vero che si tratta di un attrezzo pensato per un uso specifico e sarebbe negativo confinarlo al ruolo di oggetto di decorazione: deve "lavorare".
L'investimento economico per produrlo è tollerabile, anche se non indifferente, ed il lavoro necessario ripaga da solo in termini di soddisfazione personale: questi oggetti potrebbero essere regalati senza troppe remore a praticanti di arti marziali che ne sappiano apprezzare il valore e li possano utilizzare sul campo.
Alcune essenze, difficilmente reperibili in Europa, costringono ad affrontare anche spese di trasporto e dogana superiori al costo di acquisto.
Nella foto a destra un tantô in guaiacum argentino (lignum vitae). La qualità centroamericana è protetta dal Cites quindi non commerciabile, ed essendo un arbusto è molto difficile trovarne di dimensioni sufficienti.
Presenta due sgusci sul dorso (questo tipo di tantô ha il nome di unokubi tsukuri) che danno all'oggetto un tocco di originalità e facilitano durante la pratica le operazioni di disarmo. Il lignum vitae per l'alto contenuto di tannino tende ad assumere una colorazione verde a contatto con l'aria, processo solo rallentato dal trattamento con olio di oliva. Nel corso degli anni tenderà però a riprendere il colore dorato dell'esemplare appena terminato.
A proposito delle sostanze contenute dei legni, debbo prevenire che alcune di esse sono tossiche. Una scheggia di palissandro che penetri nella pelle si infetta nel giro di poche ore eppure è un materiale gradevolissimo e durante la lavorazione sprigiona un piacevole odore di tabacco. Il tasso è notoriamente velenoso, ed il maggiociondolo può essere addirittura mortale. Caveat emptor.
Specialmente quando si scelgono questi legni rari e pregiati pretendere di esserne ripagati proporzionalmente alla spesa ed al lavoro è irrealistico, ma è comprensibile tentare almeno il recupero delle spese vive.
Personalmente ho deciso di riservare totalmente i proventi della produzione alla raccolta di fondi a beneficio del maestro Hosokawa. Sono disponibili nel corso di alcuni seminari di aikido organizzati dal maestro Domenico Zucco, ma chi fosse interessato può comunque contattarmi via Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..