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Akira Kurosawa: 1962 - Sanjuro - C'è di più?

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Sembrerebbe di avere detto praticamente tutto quello che c'era di dire su questa opera "leggera" del maestro.

Pochi cambiamenti formali apportati al canovaccio di un film già riuscito, per ripeterne stancamente gli stilemi e riscuotere moneta sonante al botteghino? Il tutto senza alcun messaggio da trasmettere?

Non sembra. Corre molta acqua tra il primo ed il secondo Sanjuro: molto più tempo in apparenza di quanto afferma lui stesso, quando dichiara pensoso alla nobildonna da lui salvata che si sta ormai avvicinando ai 40.

Le esitazioni ed i ripensamenti di Sanjuro II hanno una motivazione molto più profonda di quella che si riceverebbe prestando attenzione solamente alle rare ma violentissime scene di combattimento.

In realtà, mentre Sanjuro I non esitava ad estrarre la spada alla minima occasione, il nuovo Sanjuro esita. Ma non per scelta tattica o strategica: non ama uccidere.

 

 

 

Ed il suo nemico non solo si annida nel cuore delle istituzioni - non è più quindi la delinquenza dichiarata e palese che deve combattere - ma  anche dentro di lui.

Il suo rapporto di attrazione e repulsione verso Hanbei Muroto è motivato dalla sensazione soggettiva di trovarsi di fronte ad un essere umano molto simile a lui, eppure schierato sul campo opposto.

Sanjuro combatte anche contro se stesso.

Occorre dire che questa impostazione della vicenda non sarebbe stata realizzabile se Kurosawa non avesse  potuto disporre di due magnifici interpreti all'altezza di tanto impegno.

Si è detto molto di Toshiro Mifune, della sua inimitabile capacità di condensare in pochi istanti, magari in una sola espressione del viso, messaggi inequivocabili che altri attori avrebbero a stento trasmesso confusamente, pur occupando metri e metri di pellicola. Per la prima volta, ed è un vero peccato che sia rimasta l'ultima, Mifune trova in Nakadai un antagonista alla sua altezza.

Non è un caso che Nakadai sia rimasto così profondamente impressionato dal rapporto tra i due protagonisti.

E' nella scena finale che Kurosawa mette in bocca a Sanjuro la famosa definizione di Muroto che Nakadai ha voluto ricordarci: una spada nuda, priva del fodero.

Ma è esattamente la stessa definizione di Sanjuro che aveva dato la dama al loro primo incontro, quando l'aveva cruentemente  liberata da un rapimento.

Una spada micidiale, priva del fodero perché sempre pronta ad agire. Mentre le lame di valore debbono essere protette, ed estratte solo quando necessario.

 

 

 

 

Al termine di un lungo percorso Sanjuro dovrà convenirne, arrivando anche  alla drammatica conclusione di aver dovuto vincere ed uccidere, assieme a Muroto, anche se stesso.

Nella inquadratura finale Sanjuro si allontana di nuovo dai luoghi che lo hanno visto in azione, scrollando come sempre le spalle, emulando il gesto di un cane randagio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa volta Kurosawa ha raffigurato probabilmente se medesimo nei panni di Sanjuro, mentre in altre opere ci aveva proposto personaggi molto distanti dal suo essere.

Con questo film sconvolge le pigre abitudini di noi spettatori e irride le sciocche presunzioni dei produttori interessati solo all'incasso.

Ha fatto nonostante tutto esattamente il film che ha voluto, lasciando però credere a tutti di avere ceduto alla moda del momento per creare un prodotto di facile consumo.

Rendiamogli omaggio.

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