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Vivere (Ikiru) - Akira Kurosawa, 1952
Takashi Shimura, Yunosuke Ito, Yoshie Minami, Miki Odagiri
Secondo molti Ikiru è il capolavoro di Akira Kurosawa. Indiscutibilmente è anche e soprattutto il capolavoro di Takashi Shimura, protagonista, co-protagonista o caratterista in tutte le opere del maestro.
Nato col nome di Koji Shimura da famiglia samurai legata al clan dei Tosa, disse di lui lo stesso Kurosawa: "era un leader anche se non sembrava, e questa era la sua forza". A suo agio indifferentemente nei panni di un carismatico samurai o di un medico ubriacone, di un saggio consigliere o dell'abate di un monastero, Takashi Shimura ha percorso assieme ad Akira Kurosawa una traiettoria che va dagli anni 40 agli 80: nato nel 1905, scomparve nel 1982 poco dopo la sua ultima apparizione in Kagemusha.
A cavallo degli anni quaranta e cinquanta le sue interpretazioni più memorabili, tra le quali Ikiru rimane indimenticabile. Meticoloso ed attento ad ogni particolare, Shimura era reduce da una appendicite che gli aveva dato un aspetto emaciato, che Kurosawa volle mantenere, e somatizzò talmente il suo personaggio da terminare le riprese con un'ulcera allo stomaco. Studiò attentamente la postura assunta nel tempo dai malati terminali di cancro intestinale, e ne riproduce nel film anche il caratteristico tono di voce in falsetto: era solito dire che la voce è uno dei componenti più importanti nella costruzione di un personaggio, e per ogni circostanza adottava un tono diverso. Segnaliamo che nella versione italiana Shimura è doppiato, e benissimo, da Mimmo Palmara, in un certo senso un samurai anche lui: raggiunse la notorietà nel periodo dei film "peplum", che narravano le avventure di eroi mitologici come Ercole o di pura fantasia come Maciste, interpretando nerboruti antagonisti, poi intraprese una brillante carriera di doppiatore.
Kurosawa spesso nei suoi film d'epoca mostra come il samurai sia pronto a morire in ogni momento, vivendo ogni attimo come se potesse essere l'ultimo della sua vita. In questo che è il più osannato ma forse tra i meno visti dei suoi film di ambientazione moderna mostra invece come l'uomo contemporaneo sia impreparato non solo a morire, ma anche a vivere. Solo un immenso Takashi Shimura, con una recitazione sommessa quanto forte - non per niente era anche lui un samurai - poteva permettere al Maestro di portare credibilmente sullo schermo la sua storia.
Tornando alla vicenda, abbiamo già detto che Kanji Watanabe, il protagonista di Ikiru (Vivere) è destinato a morire in breve tempo, divorato da un tumore.
Non togliamo nulla agli spettatori anticipando questa notizia, lo sapranno comunque fin dalla scena di apertura, che mostra la radiografia del suo stomaco mentre una voce fuori campo commenta che gli rimangono solamente pochi mesi.
Ma, proprio alle soglie della morte, Watanabe è costretto a chiedersi quale sia il senso della vita, e a rendersi conto che fino a quel momento non ha veramente vissuto. La sua decisione sarà di vivere: vivere finalmente, anche se fosse solo per un attimo.
Akira Kurosawa, nel presentare il progetto allo sceneggiatore Shinobu Hashimoto gli mostrò un foglio di carta con questa sola scritta: "Una storia su un uomo che ha solo 75 giorni ancora da vivere". Kurosawa aveva all'epoca 42 anni.
Watanabe è stato per anni un anonimo funzionario di un anonimo ufficio pubblico, ove la parola d'ordine è di scaricare metodicamente ogni incombenza sulle spalle di un altro ufficio, dichiarandosi incompetenti a trattare ogni materia.
Eppure nonostante tutto le pratiche si sono accumulate e continuano ad arrivarne: gli impiegati lavorano minacciati dal crollo delle montagne di scartoffie accumulate per ogni dove.
Pur in tanto anonimato, Watanabe un qualche piccolo segno di distinzione è riuscito ad ottenerlo: vedovo da molto tempo e dedito solo al figlio ed al lavoro, da oltre 30 anni non ha mai avuto un solo giorno di assenza. Rimane turbato a sentire la storiella che una giovane impiegata ha appena ritagliato da un giornale, trovandola molto divertente: un integerrimo impiegato non si assenta mai dall'ufficio, e i colleghi chiedono come mai. La risposta è "Perché nessuno si accorga che si può fare a meno di me".