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2020: Una occasione perduta. Ma forse semplicemente rinviata.
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Sumo, lo sport Sacro del Giappone
Museo delle Civiltà di Roma
Dal 4 marzo al 1. aprile 2020
Si tende oggigiorno a considerare automaticamente sport ogni attività competitiva tra esseri umani, specialmente quando seguita da spettatori paganti. Ma la storia del sumo è molto diversa: risalente secondo le leggende a circa 2000 anni fa, fu codificato nell'VIII secolo a uso della corte imperiale, e ne derivò il sumai, lotta rituale praticata a porte chiuse dalla nobiltà.
Importante: a seguito della emergenza coronavirus il Museo delle Civiltà ha pochi giorni dopo l'inaugurazione di questa mostra chiuso i battenti, per riaprire poi di nuovo richiudere diverse volte nel corso del tempo Di conseguenza beb pochi hanno potuto visitare la mostra di cui parla questo articolo. Rimangono però valide le considerazioni che leggerete più avanti, che possono apparire non positive ma hanno lo scopo di contribuire al miglioramento della importante offerta culturale del Museo delle Civiltà.
Passarono quasi altri 1000 anni prima che se ne sviluppasse una forma "popolare" destinata a finanziare la costruzione di templi facendo pagare gli spettatori, per la prima volta ammessi senza riserve. Da questa forma, il kanjin zumō, deriva il sumo moderno.
Ma con caratteristiche ancora appartenenti al sumai, come la danza dell'arco e la presenza accanto al campione yokozuna di uno scudiero (tachi mochi) che ne porta la spada, che non sancisce la sovrapposizione col semplice samurai (come riportato in una didascalia) ma con la nobiltà.
Allusioni che riferiscono comunque non al sacro, presente ovunque nella tradizione giapponese ma come sottofondo e non come causa movente, ma alla tradizione guerriera.
Nozioni che i curatori della mostra in parte citano nelle didascalie che la accompagnano, ma che forse apprese di seconda mano appaiono non tanto fraintese quanto non afferrate nei loro significati più interessanti, non approfondite e di conseguenza non trasmesse al pubblico. Per questo parliamo di occasione perduta, essendo la funzione delle istituzioni culturali di fare da tramite e interprete verso la società del patrimonio culturale di cui sono custodi; quando questo non riesce il patrimonio non è pienamente fruibile. Ma una dose di colpa non molto inferiore va attribuita secondo lo scrivente anche alle figure portanti del mondo marziale, che non hanno sufficientemente collaborato con le istituzioni culturali, accettando di essere collocate nel mondo dello sport, che non è certamente un ghetto ma altrettanto certamente non è la collocazione più adeguata.
Va detto che la l'annuncio della mostra sul sito museale dichiara che ci si è avvalsi dei suggerimenti in corso d'opera del noto esperto Francesco de Feo che collabora con il museo in diverse specializzazioni tra cui l'oplologia, ma quel “in corso d'opera” ammette esplicitamente una imperfetta impostazione dell'evento. Non sembra poi che questi suggerimenti siano stati perfettamente assimilati, mancando con ogni evidenza non pochi punti focali che costituiscono altrettanti leitmotif degli insegnamenti di de Feo.
Tornando a noi, ripetiamo innanzitutto che non sembra appropriata la scelta di applicare l'etichetta di sport, termine e filosofia nati nel mondo anglosassone del 1800 ad opera dell'educatore Thomas Arnold, a fenomeni culturali risalenti a epoche precedenti e che hanno caratteristiche diverse.
Per quanto abbiano elementi in comune con la concezione moderna che convenzionalmente definiamo come sport appartengono come detto a un altro mondo.
Che anche le istituzioni ufficiali e i custodi dei beni culturali classiifichino le discipline marziali tra gli sport non è incoraggiante, è anzi preoccupante, allarmante.
Nemmeno la sacralità sembra potersi attribuire direttamente al sumo, come pure esplicitato nella presentazione della mostra.
Appunto per citare de Feo si poteva sottolineare che “nelle tradizioni giapponesi tutto rimanda alle origini mitologiche del Dai Nippon, dei kami del Kiku e dei Sakura”.
Precisato che si tratta dei fiori del crisantemo (potere imperiale) e del ciliegio (forza guerriera), anche altri elementi che caratterizzano il sumo hanno come visto connotati umani, per quanto alti. Non divini.
Ma andiamo avanti nella visita.
La mostra per quanto non occupi grane spazio propone materiale interessante, foto e stampe d'epoca giacenti nei depositi del Museo Pigorini, da alcuni anni divenuto il fulcro del Museo delle Civiltà. Dovremo tuttavia sottolineare più quanto assente che quanto presente, più quanto non afferrato che quanto correttamente interpretato e trasmesso al pubblico, ma è nostro dovere.
La prima delle 6 vetrine in cui si articola la mostra espone una katana: ebbene, non è la spada attinente al mondo del sumo e il lettore comprenderà che questo travisamento non potrebbe passare sotto silenzio. In realtà è una handachi, e l'accostamento sarebbe quindi maggiormente plausibile; però viene presentata come katana.
Era uso che i daimyo (grande nome, feudatari di alto lignaggio) fossero costantemente seguiti da uno scudiero che recava la loro tachi. Non una katana che è una spada simile ma più recente e di uso quotidiano.
Foto della seconda metà dell'800 raffiguranti dei sumotori. Le descrizioni a penna sulle foto, in italiano, fanno pensare che l'autore possa essere Felice Beato.
Dobbiamo in ogni caso far notare che si tratta palesemente di ricostruzioni artificiali in studio, come diffuso costume dell'epoca, talvolta con gli stessi modelli impersonanti di volta in volta diversi personaggi..
Non una scelta voluta.
Era causata dalla l'impossibilità di scattare foto istantanee sul campo data la scarsissima reattività delle gelatine e albumine utilizzate all'epoca come materiale sensibile.
La tachi usata nelle cerimonie di apertura dei tornei di sumo, ripetendo questa antica usanza, è impugnata dallo scudiero con l'interposizione di un panno sul fodero,
Quale significato ha questo panno?
Di rispetto: quello dovuto all'emblema dell'autorità imperiale rappresentata dal feudatario; ma anche verso l'oggetto, in quanto protegge la preziosa lacca (urushi) del fodero dal sudore delle mani. Nessun oggetto di riguardo deve essere maneggiato in modo inappropriato.
Il sacro è immanente nella cultura giapponese. Ma va intravisto dove c'è. E accompagna l'uomo, non necessariamente lo guida.
La didascalia informa trattarsi di dipinto su seta raffigurante tre sumotori. Ma sarebbe stato opportuno precisare il rango del lottatore, reso evidente dalla presenza degli attendenti (e il tachi-mochi effettivamente impugna una andachi). Indossa il grembiule e il cordone riservati allo yokozuna e sta eseguendo la danza propiziatoria dohyō-iri, presumibilmente nello stile hunryû.
Si parla proprio di questo cerimoniale in altra didascalia: ma manca completamente il collegamento tra l'informazione e il reperto.
Altro esempio di presentazione al pubblico non ottimale.
La didascalia relativa a questa stampa riporta testualmente:
Utagawa Kunisada – Lottatori di sumo sul ring – Epoca Edo (1615 – 1869).
Purtroppo non possiamo accettarla.
Artista dell'epoca Edo certamente, come Raffaello lo è del Rinascimento.
Ma quando è attivo nell'arco di questi 253 anni?
E quale Kunisada? Kunisada I (1786-1865) o Kunisada II (1823-1880), attivo principalmente dopo l'epoca Edo?.
Altrove è specificato trattarsi di Kunisada II, ma se questa stampa è posteriore alla morte di Kunisada I siamo già nell'epoca in cui il suo successore designato si firmava invece Toyokuni III, e siamo oltretutto già fuori dell'epoca Edo. Ma si rimane nel dubbio, la stampa è chiaramente un particolare ritagliato da un trittico, mancante dei timbri.
Esaminando a confronto un''altra stampa di Kunisada II, integra, possiamo ragionevolmente supporre che sia lui.
Però, non per infierire, ma perché è necessario dire anche questo.
La Edo jidai inizia il 24 marzo del 1603, data in cui Tokugawa Ieyasu diviene shogun e fissa la sua capitale in Edo.
Non nel 1615, come riportano tutte le didascalie.
Altri errori secondari dei pannelli illustrativi vengono indicati passim nelle immagini, qui limitiamoci a segnalare che ipponzeoi non indica le tecniche di proiezione (nagete) ma è semplicemente la prima delle tecniche di proiezione. E a far presente che questi refusi indicano la mancanza della necessaria consulenza tecnica.
Ma non è qui il caso di sottolineare pedissequamente quanto altro mancante in questa mostra, che pure permette di accedere a prezioso materiale d'epoca raramente esposto dal Museo delle Civiltà e tenta di aprire ulteriori porte di accesso verso il patrimonio di culture affascinanti quanto apparentemente distanti.
Alcuni punti di dissenso rispetto a questo allestimento, più filosofici che materiali vanno però evidenziati. Sicuramente meno tangibili, probabilmente più importanti. Manca qualsiasi riferimento alle ragioni per le quali il sumo è importante nella società giapponese e le modalità attraverso le quali si esprime questa pervadenza.
Alcuni esempi: non viene in alcun modo menzionata la organizzazione tradizionale dei tornei di sumo: i campioni dell'Est si confrontano con i campioni dell'Ovest. Una allusione al mitico scontro tra gli dei primigeni Takemikazuchi e Takeminakata.
Ma anche (la tradizione giapponese sovente allude, ma non esplicita) una aperta allusione, una sublimazione, dei cruenti scontri delle due armate che si sono a lungo contese il dominio del Giappone nell'epoca definita appunto Sengoku jidai (epoca dei regni combattenti).
I tornei principali si tenevano nelle quattro stagioni.
Come nella Roma imperiale le quattro fazioni (Prasina in alto a sinistra, poi Russata, Veneta e Albata in senso orario) rappresentavano secondo Tertulliano primavera, estate, autunno e inverno.
E' solamente dal 1958 che sono divenuti sei.
C'è certamente un richiamo alla sacralità in questi accostamenti, comuni a varie civiltà tradizionali, ma è una sacralità collegata alla natura, al vivere quotidiano, e che rinuncia ad approfondimenti sul mistero dell'immanenza, accettandolo senza riserve.
Come si esprimono oggi nella società giapponese attenzione e rispetto verso il sumo?
La stazione della metro di Tokyo accanto al Kokugikan, il palazzo ove si tengono i confronti di sumo, è interamente dedicata al sumo: sono esposti ritratti dei grandi campioni, e le impronte delle loro mani ne ricoprono le pareti.
Come venivano espressi e diffusi in passato questi segni di ammirazione?
Attraverso le stampe ukiyo-e, ossia quelle esposte alla mostra. Un importante corrente artistica nata sul finire del XVIII secolo grazie al sumo, di cui abbiamo memoria e testimonianza grazie al sumo.
Le impronte delle mani dei campioni decorano (assieme alle loro immagini) interi corridoi della stazione. Ma, come in passato, le impronte vengono diffuse anche attraverso stampe e soprattutto impresse su oggetti di uso quotidiano come ventagli o piatti
Al giorno d'oggi due ali di folla reverente attendono i sumotori alla uscita dai loro allenamenti quotidiani al Kokugikan.
(Aki honbasho, Tokyo, settembre 2019).
Da sottolineare che era il giorno in cui i danni di un violento tifone notturno avevano praticamente bloccato ogni mezzo di trasporto per gran parte della giornata,
Eppure gli ammiratori avevano ugualmente affrontato il lungo e faticoso viaggio nella immensa metropoli paralizzata.
I maestosi giganti attraversano impassibili la folla, che si tiene tuttavia a rispettosa distanza,.
Alcuni di loro si dirigono poi proprio alla stazione della metro e attendono tranquillamente sul binario il loro treno, avvolti nei loro yukata ma con l'immancabile smartphone in mano.
In passato era necessario far conoscere i personaggi di questo mondo attraverso altri mezzi di trasmissione, nacque pertanto quella corrente ukiyo-e dedicata a rappresentazioni del sumo, così come era nata quella principale dedicata al fluttuante mondo del piacere e poi nacquero altre dedicate al teatro alla bellezza muliebre o al paesaggio.
Espressioni artistiche che è difficile immaginare al giorno d'oggi: la facile disponibilità del sumo su youtube uccide le possibilità di rappresentazioni artistiche.
Ma segnaliamo piuttosto che è assente nella mostra, ed è una ulteriore occasione perduta, ogni accenno alla trasfusione culturale di cui si sta facendo tramite il sumo, sempre più seguito anche nel mondo occidentale. Nei video tramessi a ciclo continuo tra le vetrine della mostra appaiono due personaggi su cui sarebbe stato opportuno spendere un approfondimento.
Uno è Hakuho, yokozuna: ossia campione assoluto, ma il termine designa anche altro nella cultura giapponese, a solo titolo di esempio il migliore esemplare di lama visibile durante una esposizione. Accanto a lui, ha vinto l'incontro precedente e quindi lo deve assistere nei preparativi rituali che precedono l'ingresso sul dohyō e porgergli da bere il chikara-mizu (acqua della forza), l'altro sumotori Tochinoshin, ex ozeki e attualmente maegashira a causa di infortuni.
Nessuno dei due è giapponese.Tochinoshin (Levan Gorgadze) è originario della Georgia, Hakuho (Davaajargal Mönkhbat) della Mongolia.
Entrambi sono divenuti cittadini giapponesi, parlano fluentemente la lingua, ne incarnano un importante patrimonio culturale. E non sono nemmeno i giganteschi gaijin (stranieri) privi di tecnica ma ricchi di peso e forza muscolare che avevano mietuto grandi successi materiali in passato ma non erano mai stati apprezzati dagli intenditori: il loro stile e le loro tecniche meritano attenzione e rispetto
Entrambi, e ancora altri sumotori stranieri, si sono perfettamente integrati in una cultura da cui erano distanti.
Per mezzo del sumo, attraverso il sumo. Il mancato risalto dato a questa funzione di trasmissione della cultura che sta dando e continuerà a dare il sumo, definito con eccessiva approssimazione uno sport sacro, va evidenziato.
E' palese che abbiamo già oltrepassato la portata dell'evento, ma non è male riflettere ulteriormente sulle modalità migliori per accostarsi alla cultura giapponese. Sarebbe stato interessante infine segnalare il disinvolto e pacifico connubio tra le usanze ataviche e il mondo moderno, tra quanto naturalmente sacro e quanto – e non sappiamo quanto naturalmente - profano.
La processione (kensho) di personaggi in abiti tradizionale che percorre il perimetro del dohyō, inalberando misteriosi cartelli, non è nientaltro che la presentazione degli sponsor dell'incontro e dei premi da loro promessi al vincitore; non necessariamente denaro, può essere anche la fornitura di fagioli di miso o di sake per un anno, ma il valore sarà sempre lo stesso, fissato in precedenza. Il direttore di gara porgerà ritualmente la busta con l'elenco dei premi, ponendola sul suo ventaglio (per rispetto...), al rikishi vittorioso.
Che la accetterà (vedi foto precedente) solo dopo aver richiamato con un gesto che ricorda singolarmente il nostro segno della croce i tre dei protettori della guerra.
Ma ora... Sdrammatizziamo.
Questa didascalia è (anzi, speriamo era) esposta al National Museum di Tokyo.
E' stata fatta notare dallo scrivente a un funzionario che dirigeva un workshop nella sala accanto: è sbiancato, e alcuni hanno ironicamente ipotizzato un brusco incremento notturno nelle statistiche dei seppuku (suicidi d'onore). Lasciamo al lettore il piacere di identificare l'errore.
Diciamo soltanto che nessuno ne è esente, vi cadono anche le istituzioni più prestigiose. Ma identificarlo e riconoscerlo non è un disonore: è il primo indispensabile passo verso le verità che si sta tentando di diffondere al mondo.