Ricorrono nel 2023 100 anni dalla prima opera di Kenji Mizoguchi, uno dei più importanti maestri del cinema giapponese. Eppure quando accade di nominarlo ben poche persone, se non accanite cinefile, mostrano di conoscerlo: Vale la pena di accennare non ai perché, non li conosciamo, ma ai crudi fatti. Poco o nulla si sa dell'opera di esordio, Ai ni yomigaeru hi (L'amore riconquistato) e della sua prima produzione. Iniziò veramente la sua ascesa negli anni 40, e ne abbiamo già recensito I 47 ronin (1941), Miyamoto Musashi (1944), La spada Bijomaru (1945), Le donne di Utamaro (1946). Facile vedere come fosse un autore prolifico, al momento della sua prematura morte per leucemia nel 1956, a 58 anni, aveva diretto oltre 100 opere.
La produzione di Mizoguchi, come del resto in genere quella di tutto il cinema giapponese, era rimasta sconosciuta in occidente fino agli anni 50. Nel 1951 infatti irrompe - non è possibile utilizzare altre parole - al Festival di Venezia Rashomon, di Akira Kurosawa, vincendo il Leone d'oro e il Premio della critica.
L'enorme interesse suscitato fece sì che si pensasse bene di estendere gli inviti negli anni successivi ad altri registi giapponesi. Mizoguchi vinse per tre anni consecutivi il Leone d'argento, partecipando nel 1952 con Vita di Haru donna galante, nel 1953 con I racconti della luna pallida d'agosto, nel 1954 con L'intendente Sansho.
Qui occorre spendere qualche parola in più. Il livello delle partecipazioni fu in quell'anno elevatissimo, e la partecipazione italiana controversa in quanto ci furono animate dispute tra i sostenitori di due grandi registi italiani, Federico Fellini e Luchino Visconti.
Il Leone d'oro venne assegnato a Giulietta e Romeo di Renato Castellani, opera che ottenne un buon successo di pubblico ma che la critica giudicò manieristica e priva di slancio, introdotta a forza nel programma del Festival per impedire che il premio più ambito venisse attribuito a Visconti, la cui opera sarebbe stata lesiva del Risorgimento italiano.
Il Leone d'argento venne invece assegnato ex aequo - e si disse e scrisse per dare un contentino a tutti - a ben quattro opere: Senso di Luchino Visconti, La strada di Federico Fellini, Fronte del porto di Elia Kazan e appunto L'intendente Sansho di Kenji Mizoguchi. Al di là di ogni giudizio personale occorre riconoscere che se l'opera di Castellani non ha lasciato ricordi imperituri, le altre sono considerate tuttora se non capolavori assoluti importanti opere di grandi artisti.
Lo stesso anno Mizoguchi diresse un'altra delle sue opere maggiori, Gli amanti crocefissi, poco dopo come sappiamo la scomparsa. Scompare purtroppo anche dalla visione del pubblico. Venezia gli dedica nel 1980 una importante rassegna, poi praticamente nulla più: il maestro viene praticamente dimenticato. Ma è ora ormai di passare alla recensione nella speranza - flebile - che possa essere un modesto contributo a una sua "riscoperta".
Il titolo dell'opera richiama non i personaggi positivi ma il deus ex machina in negativo. Narra le vicissitudini di Zushiō e della sorella Anju che rapiti da banditi mentre erano ancora bambini e separati dalla madre vengono venduti come schiavi al crudele intendente Sansho. Zushiō riuscirà infine a fuggire e a denunciare alle autorità le malversazioni e i crimini di Sansho, venendone ricompensato con l'assegnazione del feudo. Tuttavia dopo aver liberato ogni schiavo e abolita la schiavitù rinuncerà, abbandonando il potere per andare alla ricerca della madre.
Mizoguchi fa qui ampio uso delle tecniche innovative che hanno fatto scuola dopo di lui. Primo fra tutti l'uso intensivo di lunghi piani sequenza, ossia in cui la cinepresa non cambia il suo punto di osservazione, ripreso da molti registi di indiscussa fama.
Ma anche di grande accuratezza della scenografia e di ricorso sempre felice ad ambienti naturali.