Randori
Il momento dell'esame
Indice articoli
Riapriamo, per l'ennesima volta, un vecchio tema di discorsi e polemiche: gli esami. Anzi: l'ESAME. Con tutte le maiuscole del caso. La mente va a frugare in tanti ricordi passati, la lingua comincia a prudere. All'improvviso prude anche la penna. La tastiera... Si sa, a certe impellenti necessità fisiologiche nessuno si può sottrarre: mi sta di nuovo scappando un articolo...
Negli anni 80 il Consiglio dell'Aikikai d'Italia era riunito in uno splendido giardino sulle colline di Fiesole. Motivi del contendere erano la creazione e regolamentazione di un Corpo Insegnanti Italiano, l'istituzione di appositi corsi per istruttori, eventualmente corredati di esami e diplomi. Il tutto doveva poi essere inserito nel Regolamento Didattico.
In un momento in cui la discussione sembrava perdersi in mille rivoli e non si veniva a capo di nulla qualcuno (il sottoscritto) chiese proprio al Direttore Didattico: "Ma in Giappone, maestro, come vi regolate?".
Il maestro Hiroshi Tada, fino allora un pò appartato dalla discussione, così senza pensarci troppo sopra, buttò lì: "Veramente in Giappone non ci si cura molto di esami, gradi e diplomi: se il maestro è bravo la gente viene, altrimenti...". Commentò il tutto con una risata divertita, poi cambiò espressione: ebbe l'aria di scusarsi timidamente per la stravaganza di cui davano prova i giapponesi.
Questo lungo preambolo per dire: se all'origine ed alle fonti della nostra arte esami e diplomi non hanno molta importanza perché ai nostri tempi si avverte invece la necessità di esami impegnativi che non solo richiedono di sudare sul tatami per ore ed ore per il superamento della prova vera e propria ma anche e soprattutto di mantenere un impegno serio e costante nel corso degli anni?
E col rischio di ritornare a casa, nonostante tutto, marchiati dalle stimmate del fallimento.
Me lo sono chiesto spesso anch'io, ed essendo stato in passato un "addetto ai lavori", ho avuto forse qualche occasione più di altri per ipotizzare delle risposte.
Che vengo ora a proporre, non come verbo divino (non ho ancora fatto l'esame!) ma come materia di discussione.
L'aikido si è molto trasformato nel tempo, è in realtà in continuo divenire, e chi pratica da diversi anni lo ha già sicuramente potuto apprezzare di persona. Ancor più del trascorrere del tempo, lo hanno però probabilmente cambiato proprio i praticanti.
Non essendo più l'aikido da alcuni decenni un'arte marziale per pochi intimi, per una élite, ma indirizzata a tutti, in tutto il mondo, e praticata da centinaia di migliaia di persone, le tecniche si sono trasformate, evolute. Ma si è trasformata ed evoluta anche e soprattutto la mentalità con cui si pratica l'aikido.
L'esame è ora, molto più di prima, un insostituibile punto di riferimento per l'allievo: attraverso il programma di esame ha modo di conoscere le tappe cui deve passare volta per volta e i tempi previsti di apprendimento.
Presentandosi all'esame ha modo di controllare se sta procedendo correttamente sulla via o se deve ritornare sui propri passi, o più semplicemente fare qualche adattamento, prima di potere andare avanti.
L'esaminatore che priva l'allievo di questa verifica e lo promuove per un malinteso senso di magnanimità anche in presenza di lacune, insufficienze o ritardi, lo sta in realtà privando in un necessario punto d'orientamento.
Quanto appena detto è ancora più vero per allievi che non siano a stretto contatto con la sorgente dell'aikido, per motivi di lontananza e/o per motivi culturali. E tutti noi occidentali rientriamo in questa seconda categoria per quanto la distanza tra i due diversi mondi dell'occidente e dell'oriente si sia notevolmente attenuata. Era naturalmente meno necessario in ambiente ristretti che consentivano frequenti contatti se non addirittura comunanza di vita tra maestro ed allievo. Siamo quindi noi ad avere bisogno degli esami, ed in pratica anche quando li temiamo e li malediciamo siamo noi a richiederli o addirittura a pretenderli.
Questo soprattutto perché la mentalità media occidentale è statica, ha bisogno di un salto culturale per apprezzare la filosofia dinamica dell'aikido e delle discipline orientali in genere. Sarà meglio spiegarsi con un esempio: quasi tutti gli allievi che si presentano per l'iscrizione ad un corso di aikido chiedono quanto tempo ci vuole per diventare "cintura nera", scambiando per un obiettivo lontano, se non addirittura per quello finale, quello che è solo un passo preliminare: shodan, "grado iniziale", è infatti la dicitura che riportano i diplomi dello Zaidan Hojin Aikikai.
Spesso non basta spiegare che la tempistica in aikido non ha molta importanza perché l'arte non si può comprare", qualunque sia la mercede; che si concretizzi in denaro, in allenamento, in esami, non abbiamo a che fare con un bene durevole da poter fare nostro per sempre. L'aikido è piuttosto una sorta di "albero" ma non basta seminarlo: va nutrito e curato quotidianamente, solo così ci fornirà in cambio un alimento - non solamente materiale - che ci accompagnerà per tutta la vita. Di conseguenza il raggiungimento di un grado è un utile punto di riferimento, ma non cambia nulla nella vita e nella pratica dell'aikido.
Difficilmente tuttavia si convincerà con questi argomenti chi si presenta per la prima volta sul tatami. L'uomo medio occidentale pensa alla cintura nera, ma anche al sesto kyu, obiettivo immediato, o a qualsiasi altro pezzo di carta, come alla prova di possesso di un qualche cosa: il possesso di un diploma attesta la condizione dell'individuo, e la garantisce a vita.
Non che manchino in occidente le persone che hanno individuato il problema e lo hanno denunciato, ma queste denunce sembrano sempre riguardare qualcun altro, e raramente si accetta l'idea di essere toccati in prima persona dalla questione. Già molti anni fa il grande attore comico Ettore Petrolini ironizzava su questa mentalità, nel suo famosissimo Nerone:
L'imperatore Nerone (entrato sulla scena in bicicletta, come ogni imperatore che si rispetti) prometteva alla folla vociante di ricostruire Roma, dopo l'incendio che l'aveva totalmente sconvolta, "Più grande e più superba che pria", buscandosi sonore approvazioni e rispondendo con un "Grazie!". Contentissimo replicava, ma ogni volta un clacqueur malaccorto gridava a squarciagola "Bravo!" prima che lui potesse terminare la frase. Dopo una serie di frenetici tentativi sempre sconfitti dall'improvvido ed intempestivo clacqueur, questa era la morale che ne traeva Petrolini-Nerone: "Er popolo, quando s'abitua che sei bravo, pure se nun fai gnente sei sempre bravo!".
Per una piena comprensione sia della singola battuta che di tutta la pièce, si consideri che eravamo nel pieno del ventennio fascista, e Nerone esibiva un mascellone ed un repertorio di atteggiamenti di chiaro stampo mussoliniano e per giunta, a fugare ogni dubbio sui suoi bersagli, un bel paio di baffetti.
Dobbiamo però avvertire che la fin troppo facile identificazione dell'obiettivo della satira petroliniana è in realtà fuorviante: la metafora di Petrolini puntava su Mussolini, è ovvio, ma in realtà additava come responsabili della situazione tutti noi che ci affidiamo per frettolosi giudizi a segni esteriori non significativi.
Che siano divise da operetta, discorsi roboanti del dittatore di turno, o pezzi di carta chiamati diplomi.
La conseguenza che ci riguarda più da vicino di questa diffusa mentalità, è che chi viene respinto ad un esame troppo spesso respinge anche il messaggio, o lo fraintende; o non pensa nemmeno lontanamente che possa essere stato indirizzato a lui se non per errore. Non ammette di aver ricevuto delle utili indicazioni sulla strada da percorrere, crede invece che gli sia stato sottratto il godimento di un qualche bene (immaginario ed inesistente) da lungo tempo atteso e pagato in anticipo attraverso lo studio costante e diligente, o almeno presunto tale.
Nella pratica dell'aikido l'esame deve essere invece un appuntamento che si prende col giusto anticipo, siano mesi od anni, in modo da potersi preparare al meglio. Che serve a verificare se si è ben lavorato e se si sta camminando sulla strada giusta; che non è la prova di avere ottenuto o meno alcun riconoscimento materiale. L'esame potrebbe essere paragonato al terrazzino di sosta durante una arrampicata in montagna: è la fine di un tratto ed allo stesso tempo l'inizio del tratto successivo. Chi molla la presa, chi allenta la tensione una volta superato l'esame, cade. E quanto più era salito in alto, tanto più rovinosa sarà la caduta.
Man mano che si sale ovviamente l'esame diventa anche più duro, non perché‚ qualcuno voglia renderlo tale, ma perché la via, qualunque sia la via che abbiamo scelto, se è bella ed affascinante sarà anche, dovrà essere, impegnativa.
Questo contrasta con le aspettative di molti, che avrebbero pensato al contrario di avere un cammino più facile man mano che procedono nella conoscenza. E' vero in parte. Ma la maggiore consapevolezza, la maggiore serenità mentale, debbono essere il viatico per la conquista di obiettivi ancora più impegnativi, non l'alibi verso il disimpegno.
Cercando di fare un discorso spassionato e costruttivo si finisce per dare talvolta l'impressione di essere scarsamente interessati agli aspetti umani del problema, in questo caso al dramma di chi si è preparato con coscienza o pensa di averlo fatto, e si vede invece costretto a ritornare sui suoi passi quando pensava di avere davanti la meta.
E' per questo che sarà bene fare alcuni esempi concreti, soprattutto quelli riguardanti il sottoscritto non essendo buona cosa, in una materia tanto delicata, menzionare quanto accaduto ad altre persone.
Personalmente avevo deciso all'inizio della mia vicenda aikidoistica di non fare mai esami. Mi dava fastidio l'idea di essere costretto ad affrontarne anche in una delle poche attività che mi davano un autentico piacere che non aveva necessità di conferme.
Ma un bel giorno il maestro Hosokawa, alle prese con problemi di affollamento del tatami, annunciò che avrebbe diviso il corso in due, riservando le tecniche avanzate a chi avesse superato un esame. A fine lezione mi precipitai da lui e gli chiesi se era il caso di fare l'esame.
Dovendo sintetizzare il lungo giro di parole con cui mi rispose, direi: "E a me cosa me ne può importare?". Ancora una volta: l'esame serve al praticante e solo a lui, come punto di verifica. Può rinunciarvi, beninteso, ma il momento della verifica arriverà comunque.
Devo dire che se io ho avuto qualche resistenza iniziale all'idea di mettermi sotto esame, altre persone si sono trovate di fronte ad un autentico blocco mentale, rinunciando ad ogni tentativo, talvolta anche per decine di anni.
La soluzione adottata per queste persone dal maestro Hosokawa è stata diametralmente opposta a quella che mi riguardò direttamente nel lontanissimo 1976: interveniva piuttosto che lasciare al praticante ogni responsabilità, comunicandogli a bruciapelo, senza possibilità di discussione, la necessità di sostenere immediatamente un esame.
Debbo aggiungere, per dissipare ogni sospetto, che non si è mai trattato di esami pro forma: erano esami seri ed impegnativi, che richiedevano ai prescelti di tirare fuori tutto quanto avevano, se non qualcosa di più. Eppure non ho memoria di esami di questo genere che abbiano avuto esito negativo, e sono immancabilmente serviti ad affrancare il praticante dal suo blocco psicologico. Da quel momento, gli esami hanno cessato di essere un problema, rimanendo un momento impegnativo ma atteso comunque con serenità.
Ho subito una solenne bocciatura dal maestro Fujimoto. Al termine dell'esame, che mi sembrava di aver fatto dignitosamente, venni anche complimentato da diversi yudansha, ma quando apparve il cartello con i nomi dei candidati promossi, ove non appariva il mio, divenni furioso. Ci volle molto prima che mi rendessi conto che in quel periodo ero presuntuoso e convinto di essere in qualche modo "arrivato" e che questo aspetto della mia personalità, che non sarebbe sfuggito a nessuno, tanto meno poteva sfuggire ad un esaminatore attento come Fujimoto sensei.
Il mio livello tecnico era più che adeguato per l'appuntamento previsto, ma il mio atteggiamento mentale non era a livello sufficiente. Entrai naturalmente in crisi, rifiutando per lungo tempo l'idea che l'esame fosse fallito a causa mia e non per cause esterne.
Il maestro Hosokawa giustamente pretese che il mio esame di shodan fosse sostenuto davanti a Fujimoto sensei. Era il giorno 6 del mese di aprile, nell'anno 1980, sul tatami del Dojo Centrale, ed avemmo il grande piacere di vederlo sorridere durante la prova: era soddisfatto di quanto vedeva. Solo ora mi rendo conto che sono passati esattamente trenta anni, da quel momento di tanti anni fa a quello in cui rivedo queste note (2 aprile 2010). La foto del maestro lo mostra vigile come allora, ma è recente: risale allo scorso mese di febbraio.
All'esame di nidan, sento di aver mancato l'appuntamento e ancora adesso, a distanza di diversi decenni, avverto un forte senso di colpa. Ero perfettamente cosciente dell'impegno che mi attendeva, ho avuto tutto il tempo per prepararmi, ero assolutamente convinto di essermi preparato a dovere. A questo punto quasi tutti si saranno preparati a leggere la cronistoria di un disastro annunciato. Invece l'esame l'ho superato.
Non è andata però come volevo, come pensavo, come mi aspettavo: mi sentii in debito per lungo tempo. Penso di avere lavorato abbastanza per riparare negli anni seguenti, ma come ho detto considero macchiato il mio curriculum non tanto quel giorno che ebbi una sonora quanto salutare bocciatura dal maestro Fujimoto quanto quel giorno invece che il maestro Hosokawa mi ammonì con un "cartellino giallo" pur promuovendomi. Per la cronaca - molti saranno curiosi di conoscere quali metodi possono essere utilizzati per mettere in difficoltà una persona nonostante tutto non impreparata - ecco come andò: il maestro a sorpresa fece cominciare l'esame in suwariwaza, prolungando questa fase per diverse decine di minuti. In debito di ossigeno e di forze fisiche fin dai primissimi istanti, il resto dell'esame fu un'odissea durata diverse ore.
Preparandomi all'esame successivo mi ero ripromesso di riparare alla figuraccia precedente, e ritengo di esserci riuscito. Alla vigilia, dopo aver identificato gli altri candidati, si rinnovò nel corso del raduno il consueto rituale: le proposte di allenarsi assieme in quei giorni, le raccomandazioni a non essere troppo remissivi né troppo aggressivi, le prove scrupolose di tecniche assurde mai chieste ad un esame, le retoriche assicurazioni reciproche che dell'esame in fondo non ci importava nulla. Fu Marino Genovesi a sghignazzare per primo da sotto la barba dicendo "Oh bischeri, 'un diciamo grullerie! 'Un ci si tiene!...". E' vero: pretendere di non essere interessati a progredire sulla via è cosa priva di senso. Ci teniamo tutti. Dobbiamo tenerci.
Da quel momento fummo più sereni e tranquilli ed aspettammo con calma il nostro turno. Le solite 3 o quattro ore in seiza, poi sembrava toccasse a noi. Aspettate, ci sono prima i nidan, ci faceva notare Hosokawa sensei, e noi ancora in seiza. Ad ogni suo battito di ciglia ci rassettavamo e ci davamo l'aria di essere pronti. Lui ci guardava e sorrideva, facendo gesti che significavano "dopo, dopo". In pratica non facemmo un esame vero e proprio: a forza di "dopo, dopo" arrivò il pomeriggio, Hosokawa ci fece fare un accenno dii futaridori, una spruzzata di suburi con il bokken e si alzò soddisfatto ritirandosi dal tatami, contento per lo scherzo ben riuscito: eravamo sandan.
In qualche modo, nei giorni precedenti ma più probabilmente negli anni precedenti, avevamo mandato dei segnali facilmente decifrabili dal maestro: eravamo pronti per la prossima tappa. Ed essendo importante farci comprendere il momento e le circostanze in cui questa maturazione era divenuta reale, il maestro decise in pratica di ridurre ai minimi termini l'esame, per renderne evidente la non eccessiva importanza ai fini del percorso sulla via.
E' bene a questo punto proporre un paragone tra i sistemi dei due maestri. Hosokawa sensei non ha mai lavorato sulla gratificazione del praticante: ha sempre identificato con chirurgica precisione i suoi punti deboli e lavorato su quelli, obbligandolo - ma forse dovrei dire spronandolo - a porvi rimedio se non addirittura convertirli in punti di forza. Preferisce non lasciare punti di riferimento precisi, in quanto richiede al praticante adattabilità ad ogni circostanza, e richiede che l'esaminando renda palese a tutti, e soprattutto a sé stesso, i suoi limiti. Per questo i suoi esami sono spesso così impegnativi. E per questo tanti ambiscono sostenerli con lui.
Il maestro Fujimoto è - a mio parere - molto più elastico, in un certo senso tollerante, nei confronti delle scelte dei candidati. Lo dico perfettamente cosciente di andare controcorrente con questa mia opinione. Accetta infatti che questi si scelgano da soli un modello di riferimento, e si limita a verificare nel corso dell'esame la conformità e la congruenza con il modello ideale. Non pretende, non ha mai preteso, che il modello di riferimento sia il suo. Pretende però giustamente che innanzitutto la scelta del modello ideale sia meditata, ed in secondo luogo che sia effettiva, coerente, e non adattata a non meglio definibili gusti o inclinazioni personali. Ed anche ai suoi esami - severissimi, si dice - c'è la fila.
Come si vede due metri di giudizio assemblati con materiali e con criteri differenti. Non ci si sorprenda però che diano risultati assolutamente sovrapponibili quando sono chiamati a dare il responso: i centimetri che misura "quel" metro, sono gli stessi che misura "quell'altro". Non mi dilungo sulle ragioni che mi fanno ritenere importante comprenderlo.
Come ho detto, il caso mi ha portato ad occuparmi professionalmente di esami ed esaminatori, e voglio fare partecipi i lettori di alcune delle mie esperienze, nella speranza che siano di qualche interesse generale.
Il maestro Hiroshi Tada al suo arrivo in Italia seguiva in materia di esami il metodo giapponese: tempi molto elastici, e generalmente brevi, tra un esame e l'altro, bocciature rare se non eccezionali. Ma si accorse presto che troppo spesso l'allievo promosso riduceva il suo impegno, quando non si metteva addirittura a vivere sugli allori, per quanto si trovasse ancora ai livelli iniziali: parliamo di quarti o terzi kyu. Di conseguenza divenne molto più esigente, e sono a conoscenza di diversi esempi di praticanti, divenuti poi validi insegnanti, che dovettero attendere anni prima di poter sostenere l'esame di 6. kyu; i maestri Hosokawa e Fujimoto ereditarono più tardi la tendenza al risparmio del maestro Tada, probabimente dietro precise istruzioni o raccomandazioni da parte sua.
Una simile rigidità in fatto di esami era del tutto estranea ai costumi giapponesi, e vennero cos¡ introdotti dei "correttivi" per mitigare almeno nella forma la severità dei giudizi: comparvero cos¡ i gradi "provvisori" o "prima parte" ed apparvero anche in Italia i gradi suisen (su raccomandazione) da sempre usati in Giappone per segnalare gli allievi migliori ed usati invece in Italia per dare una spinta agli allievi di tecnica non adamantina ma di buona volontà e sufficiente impegno o frenare quelli che avevano eccessiva tendenza a presentarsi all'esame allo scadere esatto del tempo minimo richiesto. Il grado suisen implica infatti un'attesa più lunga prima dell'esame successivo. Sui libretti di esame apparvero le sigle A, B e C a segnalare la riuscita più o meno buona dell'esame. Un grado di tipo B o C segnalava la necessità di una approfondita riflessione prima di sostenere l'esame successivo
Sul finire degli anni 70 furono nominati i primi esaminatori italiani, che all'inizio infierirono quanto e più dei giapponesi: preparai, sottoposi al visto della Direzione Didattica che me l'aveva richiesta ed infine inviai una circolare in cui si ricordava o si faceva presente che non erano previsti i gradi kyu D o E, che l'allievo perlomeno all'inizio andava incoraggiato sia pure con cautela, che un pochino di tolleranza non avrebbe guastato purché non andasse a discapito della obiettività, e via su questo tono.
Poi lentamente le cose cambiarono, poiché non erano pochi i problemi cui andava incontro un esaminatore rigoroso: alcuni allievi ricusati all'esame abbandonavano i corsi, altri si trasformavano in contestatori accaniti dell'insegnante, qualcuno si presentava la settimana dopo da un esaminatore più tenero facendosi beffe del Catone che lo aveva bocciato, o si iscriveva direttamente presso un altro dojo ove la promozione fosse più facile e gli esami più frequenti. Era anche difficile riconciliare i responsabili di dojo con alcuni severi esaminatori che pensando di fare il loro dovere gli bocciavano magari un intero corso all'esame di fine anno.
In breve tempo gli esaminatori italiani divennero molto più "elastici" ma a questo punto succedeva inevitabilmente che gli allievi abituati alla promozione relativamente facile all'interno del loro dojo andassero inevitabilmente a scontrarsi con la dura realtà appena cominciavano a sostenere esami durante i raduni, davanti ad insegnanti sconosciuti e dovendo sostenere un esame impegnativo senza avere mai praticato in precedenza con i colleghi di sventura.
La pubblicazione del primo Regolamento Didattico, nel 1986, fu un tentativo di armonizzare e coordinare l'operato del corpo Insegnanti con gli Esaminatori e la Direzione Didattica. Da allora è passata molta acqua sotto i ponti, sono apparse nuove versioni del Regolamento Didattico, è cambiato anche il Programma di Esami. Lo scopo è sempre stato di assicurare una maggiore coordinazione tra i vari organi didattici dell'Aikikai d'Italia, i cui componenti erano nel frattempo grandemente cresciuti di numero ed avevano acquistato crescente professionalità. Non spetta a me dire se gli strumenti tecnici siano adeguati al compito. Certamente nemmeno i migliori strumenti possono essere adeguati ad alcuno scopo senza un consapevole impegno da parte di chi li ha nelle mani.
Quindi, riconosciuti senza false modestie gli enormi progressi compiuti da tutti- insegnanti, esaminatori ed allievi - rispetto a quei tempi che io ironicamente definii "eroici", rimane l'obbligo di mantenere alta la guardia. Mentalità, tra l'altro, che non dovrebbe essere estranea a chi studia un'arte marziale.
Vorrei chiudere con una breve rievocazione di cosa significasse l'esame - ogni esame - non solo negli anni ormai lontani in cui l'aikido muoveva i primi passi in Italia ma anche per molti degli anni seguenti.
Era una cerimonia.
Come tutte le cerimonie richiedeva il rispetto di una procedura, probabilmente difficile da comprendere per chi non condivideva il nostro cammino, ma che contribuiva ugualmente a far inquadrare - a tutti - quel momento magico, nella sua giusta prospettiva.
Anche se non siamo credenti, ognuno di noi si astiene dall'alzare la voce o dal tenere comportamenti considerati scorretti all'interno di una chiesa. L'atmosfera del luogo, genius loci lo definivano i latini, ed anche l'atmosfera creata dal ripetersi cerimoniale di un gesto - basti pensare al chanoyu - possono influenzare nel bene stato d'animo e comportamento dei partecipanti ad un momento cruciale ma anche permettere la trasformazione di un momento banale in un evento importante.
La "cerimonia" dell'esame che io imparai a conoscere ed apprezzare in quegli anni permetteva secondo me la corretta partecipazione all'l'evento.
L'esame era pubblico, chiunque poteva assistervi. Era però richiesta una partecipazione attiva. Era necessario assistervi dal tatami, se possibile in posizone formale di seiza, astenendosi dal commentare ed anche dal parlare, e senza possibilità di intervenire ad evento iniziato o di assentarsi prima della fine: al momento in cui l'esaminatore faceva il suo ingresso sul tatami le porte venivano chiuse: nessuno poteva più entrare od uscire.
Si iniziava dai gradi minori, nel frattempo gli altri candidati rimanevano in attesa immobili, in seiza; questo poteva significare, a livello secondo o terzo dan, rimanere in seiza anche un'intera mattinata.
Senza voler troppo recriminare, perché ritengo che un esaminando debba essere pronto a dare sé stesso in ogni circostanza, indifferente a quanto gli succede intorno, debbo dire che l'atmosfera dell'esame "moderno" mi sembra sottrarre troppo alla necessaria intensità del momento.
Conta veramente tanto questa famosa atmosfera? Non dovremmo, come già detto e ridetto, essere impermeabili alle circostanze esterne, quindi dare il meglio anche in quelle più avverse? Certamente. Ma probabilmente nelle circostanze migliori daremo ancora di più, il nostro meglio si collocherà ad un livello più elevato.
Mi aiuto con l'immancabile esempio, ma chiedendo aiuto ora ad una personalità non discutibile. Kisshomaru Ueshiba.
Prima della Seconda Guerra Mondiale, un famoso scienziato tedesco, che si occupava di ricerche militari, venne in Giappone. Quando ritornò in Germania, portò con sé alcune spade giapponesi e le affidò per delle analisi scientifiche ad un istituto specializzato in ricerca e sviluppo di acciai ad alta tecnologia. Questo scienziato era un ammiratore delle spade Giapponesi. Le teneva con il massimo riguardo e sapeva della loro superiorità al confronto di quelle Europee.
...
Lo scienziato era consapevole di tutte queste qualità, ma c'era una cosa da cui era infastidito: l'aria di misticismo di cui era avvolto il tradizionale metodo di forgiare la lama, al punto che il fabbro, vestito tutto di bianco per simboleggiare la purificazione, eseguisse il suo lavoro davanti ad un altare Shinto. Ciò gli sembrava molto primitivo, ed aveva anche una scarsa opinione del timore sacro col quale il Giapponese considera la spada.
Decise quindi di analizzare sia i materiali che la lavorazione a cui erano stati sottoposti. Con i risultati acquisiti dal laboratorio, pensava di poter ricostruire la spada usando le più recenti tecnologie disponibili a quel tempo.
...
Il risultato fu un completo fallimento. La raccolta dei dati scientifici non fu un problema, ovviamente, ma quando passò alla realizzazione pratica, il risultato fu un'ennesima spada comune.
...
Nelle lavorazioni tradizionali molto del risultato è dovuto ad una abilità istintiva, conosciuta come lavoro del kan, che può essere acquisita solo accumulando anni di esperienza. Perché questo kan istintivo dia frutto, occorre sperimentare una tensione creativa, che nasce dalla concentrazione della mente sull'esecuzione del lavoro. Ciò permette ad una forza superiore, kami in giapponese, di entrare nel processo.
(Lo spirito dell'aikido, Edizioni Mediterranee, p. 81).
Richiamandomi a quanto osservato nel corso degli esami tenuti durante il raduno estivo alla fine dell'Anno Accademico dell'Aikikai, che sono i più importanti in assoluto e dovrebbero essere quelli maggiormente impregnati della giusta atmosfera, debbo osservare che in realtà si tengono in un ambiente potenzialmente dispersivo e non adeguato.
Pochi esaminandi sparsi in gruppetti per l'enorme tatami. Chi entra, chi esce, chi legge il giornale stravaccato sulle gradinate, chi colloquia con l'immancabile telefono cellulare. Riesce difficile pensare ad un intervento del kami nel processo di quegli esami.
Mi è stato detto che il maestro Fujimoto ha tenuto ultimamente degli esami all'antica, quelli con la dura lex sed lex, quelli in cui tutti partecipano - con lo spirito almeno - salendo sul tatami e mantenendo la giusta tensione, al momento magico ed irripetibile dell'esame, in cui uomini e donne sono chiamati a confrontarsi con i loro limiti. Mi sembra un segnale molto bello.