Origines
L'architettura giapponese - P. 3
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Come schema generale una costruzione è tradizionalmente considerata formata da tre parti: il pavimento, il volume abitato e la copertura.
Il primo è connesso alla terra attraverso la struttura delle fondazioni, e la simboleggia chiaramente; il secondo rappresenta il piano concreto della manifestazione, il mondo dell'uomo e di tutti gli esseri viventi. La terza è il cielo. Il foro sul soffitto pone in comunicazione con le divinità supere. Il fumo che sale rappresenta le offerte, cosicché ogni pasto diventa un rito e un sacrificio, mentre la pioggia che scende è la grazia e la benevolenza divina che viene a consolare e a portare doni celesti. Il palo che unisce cielo e terra, indica, fra l'altro, le possibilità di ascesa o di perdita riservate all'uomo, la sua libertà, la sua via.
Del tutto opposta, la concezione costruttiva del popolo Yayoi che succedette agli Jomon: sono capanne su palafitte, localizzate in pianura e in località adatte ad attività agricole (fig. 2).
Senza escludere le motivazioni di carattere storico, quali necessità di difesa o isolamento da terreni umidi, l'uso di staccare la casa da terra mediante pali può indicare un desiderio di miglioramento spirituale e di avvicinamento ad una sfera più pura. Varcata la soglia della preistoria, eccoci a considerare rapidamente i vari periodi in cui può suddividersi la storia dell'architettura giapponese.
Periodo Joko o Yamato (circa 550-644). Fin dall'inizio il Giappone era governato da potenti famiglie che risiedevano in distretti ben definiti e che, almeno teoricamente, riconoscevano l'autorità dell'Imperatore. Passerà però molto tempo prima che il Paese raggiunga una coscienza unitaria e un organico assetto politico.
L'architettura di questo periodo ci presenta modellini di case ha-niwa in argilla che, al primitivo nucleo rettangolare, aggiungono appendici sui lati (forse magazzini); il segno che ci fa riconoscere le case nobili dalle altre è costituito da cilindri lignei incrociantisi sul tetto, detti katsuogi. Col tempo questi elementi, in origine funzionali (erano i terminali dei pali posti a sostegno della trave di colmo, che si incrociavano al di sopra di questa), divennero decorativi e furono riservati alle dimore imperiali e ai templi shinto, dei quali divennero gli emblemi riconosciuti. (fig. 3a)
Le sepolture imperiali dell'epoca erano, al confronto delle abitazioni, di gran lunga più imponenti: per tutte ci valga da esempio quella dell'imperatore Nintoku (circa 550), lunga quasi 500 metri, con tre fossati intorno e, al centro, un tumulo alto più di 30 metri. Ricco di sculture, vegetazione, opere in muratura, questo manufatto rivela la grande importanza attribuita alla funzione imperiale e al suo significato trascendente ed occulto, più che alla persona fisica del monarca (fig. 3 b). Con l'avvento del buddhismo questa usanza decadde.
Nel periodo yamato si sviluppa l'uso del ferro e del cavallo; il che fa pensare che questa civiltà sia portata da genti arrivate dall'Asia centrale, insediatesi nell'arcipelago dopo aver combattuto e vinto i popoli che l'abitavano al loro arrivo (per esempio gli Ainu), cacciandoli a nord o mescolandosi ad essi. Uno dei fattori più importanti che determinò fin dalle origini il modo di vivere dei Giapponesi, compreso il loro modo di far dell'arte, fu il rapporto cosciente e amoroso con la natura. Dalla preferenza per i materiali naturali alla scelta accurata dei luoghi e dei rapporti estetici fra il naturale e l'artificiale, tutto ci dice di un contatto fidente, rispettoso, devoto.
Già lo shintoismo (= la via degli dèi), questa religione falsamente accusata, spesso, di panteismo, come già molte altre religioni orientali, aveva manifestato la preferenza per quei luoghi che, per il senso di misterioso e di primordiale che da essi emanava, erano ritenuti sacri, abitati cioè dagli dèi.
In questi luoghi terribili il rapporto fra uomo e divinità trovò forma concreta nel santuario (p. es. Ise, fig. 4), architettura pura come un cristallo, destinata ad essere demolita e rifatta nelle stesse forme ogni vent'anni, forse a dimostrare che nulla di materiale può essere considerato eterno, eterna essendo solo la Verità immobile da cui tutte le cose derivano senza mai poterla riprodurre nella sua totalità.
Questo senso ciclico, poi, del morire e del rinascere, non dovrebbe esser nuovo per noi Occidentali, eredi di dottrine altrettanto antiche quanto concordanti, dal culto di Osiride a quello di Zagreus, dai cicli ctonici e agrari a quello del Cristo immolato e risorto.
Originariamente il culto shinto era praticato all'aperto, dove la comunione con la natura è immediata e la presenza del sacro più sensibile; successivamente si recinse il luogo con filari vegetali o lo si delimitò con corde stese fra quattro pali.
L'accesso a quest'area era riservato agli iniziati, come poi sarà per quello al tempio. Entrare equivaleva a lasciare un luogo profano, dominato dal disordine, per immergersi in una dimensione qualificata, spirituale, che solo i puri potevano conoscere senza subirne contraccolpi negativi. Le forze infere non potevano valicare il sacro confine entro il quale tutto era in armonia col resto del creato.
Durante il periodo Asuka (552-646) i vari staterelli alleati che costituivano, con la più potente casa imperiale, una specie di agglomerato politico, si unirono per dar volto ad un Giappone centralizzato. Le abitazioni, anche quelle della nobiltà di rango più alto, sono ancora relativamente piccole e vengono frequentemente demolite e rifatte.
La vita è ancora austera, spartana. I templi buddhisti, al contrario, sotto la spinta delle dottrine continentali, acquistano imponenza e prestigio; lo stile è quello cinese e coreano.