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Tada Hiroshi sensei: dal 1964 diffonde l'aikido in Italia

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Il maestro Hiroshi Tada è  uno degli ultimi esponenti, probabilmente il più autorevole, della generazione di discepoli del maestro Ueshiba Morihei che ha iniziato la pratica nel dopoguerra come uchideshi (allievo interno) presso l'Hombu Dojo di Tokyo. Ha seguito gli insegnamenti del fondatore nel decennio successivo e in seguito è stato inviato all'estero per diffondervi la pratica dell'aikido.

E' nato a Tokyo il 14 dicembre 1929 da una famiglia appartenente alla classe dei samurai che dal 1245 risiedeva a Izuhara, ora facente parte della città di Tsushima nella omonima isola, situata a sud del Giappone nel mare interno di fronte alla Corea. Tsunetaro Tada era giudice e presidente di tribunale e suo figlio Minoru Tada, padre del maestro, svolgeva l’attività di amministratore. La madre, Chizu Arai, era figlia di Kentaro Arai, Vice-Presidente del Suumitsuin (il Consiglio Privato dell’Imperatore).

Già nell'infanzia Tada sensei prese contatto con le arti marziali tradizionali praticando con il padre lo stile di tiro con l’arco Heki ryu Chikurin ha Bampa, branca (ha) dello Heki ryu  risalente al  XV secolo. Questa scuola venne invece fondata nel XVII secolo dal monaco buddista Chikurinbu Josei e tramandata per generazioni nella sua famiglia; il maestro ha praticato in seguito kendō durante le scuole superiori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il 4 marzo 1950, all’inizio della sua carriera universitaria, su presentazione del maestro di kendō Ichiro Yano, entra a far parte del Ueshiba Dōjō (attuale Hombu Dōjō) e inizia a praticare l’aikidō sotto la guida del fondatore, il Grande maestro (ō sensei) Morihei Ueshiba; viene ammesso anche allo Shotokan, studiandovi karate sotto la guida di Jichin Funakoshi sensei, ma interromperà alcuni anni dopo la pratica del karate per dedicarsi esclusivamente all’aikidō.

Nello stesso periodo inizia nel Toitsu Tetsuigakkai (poi divenuto Tenpukai) sotto la guida del maestro Tenpu Nakamura lo studio delle pratiche miranti ad unificare ed armonizzare la mente ed il corpo; si dedica anche a pratiche spirituali, presso il Dōjō Ichikukai; il nome del dōjō, dedicato alla memoria del maestro Yamaoka Tesshu (1833-1886) e fondato dai seguaci del suo allievo Tetsuju Ogura riprendeva la data della scomparsa del maestro, deceduto il 19 luglio (ichiku in giapponese significa diciannove).

Queste esperienze incideranno profondamente sul suo sistema didattico. L’anno seguente si misura per la prima volta, per tre settimane presso il tempio zen Hojuji, con la pratica del danjiki (digiuno ) che ripeterà ancora nel corso della sua vita.

Terminati gli studi universitari, ottenendo nel 1952 la laurea in giurisprudenza all’Università di Waseda in Tokyo, decide di dedicarsi esclusivamente all’aikidō e alla ricerca storica nel campo delle arti marziali. Viene ben presto nominato istruttore dell’Hombu Dōjō, del Ministero della Difesa, e di alcuni importanti club universitari di aikidō.

 

 

 

 

 

Il 26 ottobre 1964 arriva in Italia per diffondervi l’aikidō e inizia l’attività di insegnante presso il dōjō dei Monopoli di Stato in Roma ma si dedica anche ad una intensa attività didattica e promozionale in diversi paesi europei; è chiamato inoltre dal Ministero degli Interni a tenere corsi presso la Scuola di Pubblica Sicurezza di Nettuno.

Nell’agosto del 1968 tiene il primo raduno internazionale di aikidō al Lido di Venezia cui faranno seguito ininterrottamente con cadenza annuale raduni estivi di grande richiamo per i praticanti europei, anche per la capacità di aggregazione del maestro che chiama a partecipare come insegnanti personaggi del calibro di Tamura Nobuyoshi, Asai Katsuaki, Chiba Katsuo, Kitaura Yasunari ed altri ancora.

Nel 1969 viene nominato 8° dan dal  maestro Ueshiba Morihei, che scomparirà poco dopo seguito a breve distanza dal  maestro Tenpu.

Nel 1970 fonda l’Accademia Nazionale Italiana di Aikidō - Aikikai d’Italia, poi divenuta Associazione di Cultura Tradizionale Giapponese, e continua senza sosta l’attività didattica con raduni e lezioni in varie città italiane; il 15 novembre dello stesso anno, nel Dōjō Centrale di Roma da lui fondato e diretto, si celebra il suo matrimonio con Kumi Yamakawa, valente violinista laureatasi presso la Tokyo Geijutsu Daigaku.

Nel 1971 la famiglia Tada viene allietata dalla nascita del figlio Takemaru, che diventerà poi dottore presso la facoltà di Scienze Matematiche dell’Università di Waseda. Da allora il maestroTada risiede a Tokyo, anche se i suoi impegni con l’aikidō lo portano ogni anno, in Italia e in Europa. Nel 1976 in seguito all’incontro con il Reverendo Shoken Murao responsabile del Tempio Zen Gessoji di Tokyo fonda il Gessoji Dōjō di aikidō all’interno del tempio, mentre continua l’insegnamento presso l’Hombu Dōjō e presso il dōjō del suo quartiere natale, il Jiyugaoka.

Nel gennaio 1994 gli è stato conferito il Budō Korosho (riconoscimento al merito per le attività svolte nel campo delle arti marziali) ed ha ricevuto dal secondo Doshu Kisshomaru Ueshiba la nomina a 9° dan.

Il 3 agosto 1996 si è spenta la signora Kumi Yamakawa in Tada. Famosa violinista e raffinata poetessa, la signora Tada ha seguito con grande dedizione la crescita di innumerevoli giovani musicisti e praticanti di aikidō, da lei tanto amati. Reagendo alla grave perdita, il  maestro Tada enunciò il desiderio di concentrare le proprie energie nello sviluppo e nella diffusione della pratica dell’Aikidō sia in Giappone che in Europa.

Attualmente il M° Hiroshi Tada è 9° Dan di Aikidō, è Direttore Didattico dell’Associazione di Cultura Tradizionale Giapponese - Aikikai d’Italia, membro del Consiglio Superiore della Federazione Internazionale di Aikidō.

E' insegnante presso l’Hombu Dōjō dell’Aikikai del Giappone e istruttore responsabile dei Club di Aikidō presso l’Università di Waseda, l’Università di Tokyo (Kiren Kai) e di altri dōjō affiliati all’Aikidō Tada Juku. Continua l’insegnamento presso i dōjō Gessoji e Jiyugaoka.

 

 


 

Nota

La parte che segue attinge ad articoli ed interviste rilasciati dal maestro stesso nel corso degli anni, tradotti da Daniela Marasco quando erano in giapponese. E' stata riadattata per necessità editoriali, e in caso di difformità dalle intenzioni deglli autori vogliate attribuirne esclusivamente a noi la responsabilità. La maggior parte degli originali è disponibile on line sul sito dell'Aikikai d'Italia, nella sezione riservata alla rivista Aikido.

 

La prima volta che il maestro sentì parlare di Ueshiba Morihei sensei fu quando aveva circa 7-8 anni.  Una sera, mentre si cenava, il padre gli raccontò ciò che aveva sentito da un suo vecchio amico, il signor Yano Ichiro (ex Presidente della società di assicurazioni Dai-ichi Seilmei). II signor Yano possedeva un elevato grado dan di kendō ed era stato Presidente della Federazione Nazionale Giapponese dei Club Aziendali di Kendō. Aveva affermato: “Il maestro di aikijutsu, Ueshiba, è il più grande esperto di budō attuale. “Come budōka non teme paragoni con nessuno", ed aveva poi illustrato i particolari della lezione del maestro Ueshiba alla quale aveva partecipato.

 

Da lungo tempo nella famiglia Tada si tramandava lo stile di tiro con l’arco chiamato Heki ryu Chikurin ha Banpa. Il padre aveva appreso quest’arte dal bisnonno sin da bambino ed aveva continuato in seguito ad allenarsi costantemente; per questo motivo si trovava spesso a discutere di arti marziali con il signor Yano ed aveva iniziato a nutrire un grosso interesse nei confronti dell’aikijutsu. Già allora pur essendo solo un bambino il maestro Tada pensò che gli sarebbe piaciuto incontrare una persona così importante e diventare suo allievo, ma purtroppo non riuscì a realizzare questo desiderio, a causa di un’infausta serie di eventi quali la chiamata alle armi del padre, lo scoppio della guerra e la scomparsa della madre.

Nel 1950, nonostante fossero ormai trascorsi cinque anni dalla fine del conflitto, per tutta Tokyo si potevano scorgere ancora ovunque i segni della guerra nei resti degli incendi causati dalle bombe. In quel periodo, così come accadde alla maggior parte dei giapponesi che furono travolti dagli avvenimenti dell’epoca, il maestro Tada avvertiva costantemente uno strano senso di fugacità, una sorta di coraggio nella disperazione per cui nulla poteva più sorprenderlo, ma, allo stesso tempo, sentiva la necessità di un qualche sostegno psicologico. Per superare tale sensazione di incertezza si dedicò allora con tutto se stesso agli allenamenti quotidiani di karate. Fu così che, ricordando ciò che aveva sentito in passato dal padre circa il maestro Ueshiba e l’aiki, decise di raccogliere informazioni più dettagliate a riguardo.

Un giorno, dopo l’allenamento di karate, il maestro Ueshiba e l’aiki divennero inaspettatamente argomento di discussione; venne così a sapere che, secondo informazioni fornite al capitano del club di karate dell’Università di Waseda, il signor Takeda, da un suo conoscente, il Ueshiba Dōjō si trovava a Wakamatsu cho (Ushigome), nelle vicinanze della Waseda.

Animato da un inconscio senso di ammirazione nei confronti del maestro Ueshiba Morihei, considerato il massimo esperto del tempo, si recò, carico di entusiasmo, a visitare il Ueshiba Dōjō. Era il 4 marzo del 1950. Superato il portale di pietra di casa Ueshiba, miracolosamente scampata ai danni della guerra, sulla sinistra si poteva vedere il dōjō e di fronte lo spazioso ingresso della casa, dalle porte scorrevoli in vetro e legno.

Il dōjō era deserto, e quando entrò nell’ingresso della casa per chiedere informazioni fu accolto da una giovane donna, la signora Sakuko, moglie del secondo Doshu, Ueshiba Kisshomaru.

Dopo averle chiesto il permesso di iscriversi al Dōjō, le fece parecchie domande e anche se non ricorda con esattezza i particolari tuttavia ricorda chiaramente, ancora oggi, le sua risposte alle ingenue domande: “Quando vedrà mio suocero capirà che cos’è l’aiki". Gli  spiegò inoltre che il maestro al momento era in viaggio ma che sarebbe tornato a Tokyo dopo due o tre giorni. E facendogli strada nel dōjō aggiunse: “Fra un po’ inizierà l’allenamento...”.

 

 

 

 

 

Il dōjō era della grandezza di 60 tatami (circa 100 mq) e la zona dove si tenevano gli allenamenti era costituita da circa 40 tatami della Ryūkyū, lesi in più posti; nella restante parte del dōjō c’era un pavimento in legno scuro lucido.

Il soffitto era formato da grosse travi di legno incrociate e, lateralmente alla porta attraverso cui si accedeva al dōjō da casa Ueshiba, c’era una zona sollevata dal pavimento e rientrante nel muro (lo shinden dove di solito sedevano gli ospiti di riguardo per assistere agli allenamenti), la cui parete centrale era ricoperta da una riproduzione di grandi dimensioni della testa di un drago.

A destra di questa zona, sulle apposite mensole, erano allineati dei bokken insieme a dei e a dei mokuju (fucili di legno). Sulla parte superiore della parete erano appese delle tavolette di legno con i nomi degli allievi e al centro della parete che si trovava entrando sulla sinistra, c’era un grande orologio sovrastante un altro ingresso attraverso cui gli allievi erano soliti accedere al dōjō.

Dopo qualche minuto entrarono un ragazzo piuttosto alto e robusto che indossava un keikogi blu da kendō e l’hakama e un signore di una certa età con la cintura nera, che iniziarono ad allenarsi. Il ragazzo, 5° dan di kendō, era il signor Kikuchi Tokio (che si trasferì poi a Kamaishi), l’altra persona era il signor Kikuchi Ban che si era iscritto al dōjō il giorno prima.

Vedendoli praticare katatedori tenkan no kokyu il maestro Tada pensò che si trattava di qualcosa di completamente differente rispetto alle altre arti marziali che conosceva. A questo punto realizzò che, oltre al fatto di utilizzare dei movimenti estremamente razionali per assimilare la forza dell’attaccante nel flusso della propria energia, l’idea di base era quella di attuare delle rotazioni con il corpo così da diventare un tutt’uno con l’attaccante. Ritornò poi a Tōkyo dopo circa quattro giorni.

A quel tempo gli allenamenti erano impartiti quotidianamente dal secondo Doshu, Ueshiba Kisshomaru, la mattina e la sera, dalla 6,30 in poi, per la durata di un’ora. Gli allievi erano ancora poco numerosi ma tutti si impegnavano con grande zelo nella pratica, allenandosi costantemente nei limiti di tempo concesso. Quella mattina il maestro Tada si allenò fin oltre le 10. Terminato l’allenamento, quando raggiunse la strada principale di Nukebenten, avvistò due persone, una vestita in kimono e l’altra con la divisa da studente, che probabilmente erano appena scese dal tram da poco ripartito. II signor Kikuchi Tokio gli disse: ‘‘Ō Sensei è tornato, vieni Tada!’’ e iniziò a correre incontro alle due persone.

Dopo aver salutato il maestro Ueshiba, lo presentò: ‘‘Maestro, questo è il signor Tada, si è appena iscritto al dōjō’’. Quando sollevò lo sguardo dopo aver completato il saluto, notò che il maestro Ueshiba lo stava fissando intensamente. Levandosi il cappello gli disse: ‘‘Mi chiamo Ueshiba” e, con suo grande stupore, si inchinò cortesemente verso di lui che non era che un semplice studente in divisa. Trovandosi in quel momento finalmente di fronte al maestro Ueshiba, di cui già da tempo conosceva la grande fama dai racconti che aveva sentito in passato, venne preso da un incontrollabile emozione: fu come se innanzi ai suoi occhi si fossero venuti a concretizzare improvvisamente tutti i desideri e le speranze che per lungo tempo aveva nutrito nel profondo del cuore.

II maestro Ueshiba arrivava più o meno all’altezza delle sue spalle. Aveva un viso dai lineamenti marcati, con gli zigomi e il naso pronunciati. I grandi occhi dallo sguardo limpido erano di un colore leggermente al di fuori dalla norma. La lunga barba bianca, che gli ricopriva il mento, gli arrivava fino all’altezza del petto. Accompagnarono il maestro e il signor Kamizono, della Facoltà di Scienze della Waseda, che era con lui, fino all’incrocio con la strada che portava al dōjō e lì li salutarono.

La mattina seguente, l’allenamento del maestro Morihei Ueshiba iniziò con una devota preghiera alle divinità. Nessuno fra gli allievi del maestro potrà mai cancellare il ricordo del suono della sua voce che risuonava per tutto il dōjō quando recitava le rituali preghiere shintō. Osservando la figura del maestro in quei momenti si poteva constatare in pratica che quelle sue qualità considerate “soprannaturali" non erano che il frutto delle sue pratiche devote verso le divinità. Ripiegandosi il lungo orlo delle maniche del keikogi, il maestro si diresse verso il centro del tatami e fece un rapido cenno con la mano ad uno degli allievi seduti in fila, che, come attratto da una calamita, si alzò e si fece avanti.

Non ebbe neanche il tempo di afferrargli con entrambe le mani il polso che subito venne lanciato in aria. II maestro continuò a proiettare in successione varie persone e ad un certo punto porse il braccio anche nella direzione del maestro Tada. Questi si fece avanti e, appena afferrato il polso, così come aveva visto fare agli altri, con tutta la forza che aveva, si ritrovò subito a rotolare sul tatami. Per tutto il tempo il maestro Ueshiba non disse una sola parola. Questo era il modo in cui iniziava sempre l’allenamento. Ciò che più colpì il maestro Tada nei primi tempi che frequentò il dōjō, era che gli allievi più anziani, nonostante il maestro Ueshiba rimanesse sempre silenzioso, capissero sempre quale, fra le numerose tecniche esistenti, avesse intenzione di dimostrare di volta in volta. Col passare del tempo, tuttavia, comprese che chi non era in grado di capire il tipo di tecnica che il maestro si apprestava a dimostrare, non veniva accettato come allievo. L’allenamento di ō sensei creava un’atmosfera di tipo molto particolare: era come se l’intero dōjō iniziasse a respirare in sintonia con il suo respiro.

La prima volta che il maestro Tada frequentò una sua lezione pensò: “II Maestro Ueshiba è un insegnante veramente avanzato”. Secondo le voci che circolavano allora fra i suoi colleghi della Waseda, il maestro Ueshiba veniva considerato come un esperto di arti marziali che utilizzava delle tecniche estremamente efficaci di koryu-jujitsu, arti marziale del passato completamente differenti da quelle del tempo, e possedeva allo stesso tempo delle “misteriose” capacità. Era, dicevano, come se un illustre personaggio della storia giapponese fosse ritornato a vivere nella nostra epoca.

Tuttavia, quando il maestro Tada incontrò personalmente il maestro Ueshiba, avvertì al contrario che si trattava di una persona molto più razionale di tutti gli altri esperti di budō e sportivi che avesse conosciuto fino ad allora, e, sotto alcuni punti di vista, estremamente moderna. Fu molto affascinato dalla complessità e dalla forza emanate dal ritmo stabile dei movimenti del maestro, ma ciò che lo sorprese più di ogni altra cosa fu che, proprio attraverso tali movimenti, capaci di sconfiggere in un solo istante un avversario se usati realmente a tale scopo, si venisse a creare un’atmosfera particolarmente calorosa che veniva a coinvolgere psicologicamente tutte le persone presenti nel dōjō.

Fu sulla base di questa sua personale esperienza che arrivò alla seguente conclusione: se tutti gli uomini si sforzassero di progredire sempre di più, un giorno forse sarà possibile avvicinarsi al modello di un cosi grande maestro. Da allora sono trascorsi molti anni, l’aikidō si è diffuso in tutto il mondo e diventa di anno in anno sempre più popolare. Grazie alle sue esperienze di insegnamento in Europa Tada sensei, guardando al Giappone dall’esterno, ha avuto la possibilità di comprendere ancora più a fondo gli insegnamenti del maestro Ueshiba Morihei, che ha indicato a tutti la via dell’aikidō, espressione pratica della cultura tradizionale giapponese.

Egli è convinto che l’aikidō sia uno strumento prezioso in quanto, diversamente dalle altre arti marziali competitive attualmente esistenti, consiste in una pratica scientifica che combina inscindibilmente le pratiche ascetiche del kishintai - sistema di armonizzazione di spirito, mente e corpo facente parte della filosofia orientale -  alle tecniche di difesa proprie delle arti marziali. Sarà proprio grazie a tali caratteristiche che l’aikidō si verrà a diffondere sempre di più nel XXI secolo, dando così il proprio contributo agli studi sul genere umano. Il maestro Tada si augura che in futuro si continui a praticare l’aikidō con sempre maggiore impegno, tenendo costantemente presenti tali finalità.


Nel 1942 il maestro Tada si trovava a Shinkyo (al giorno d’oggi Chang Chun, in Manciuria), dove, anche se per poco, perse la famosa dimostrazione del maestro Ueshiba alla dimostrazione di arti marziali per il decimo anniversario dell’università Kenkoku. Il cugino, che era di un anno più grande di lui, gli disse che fu una dimostrazione fantasti­ca. A quanto pare i vari avversari potet­tero a stento difendersi dal maestro con le cadute. Essi non furono sol­tanto proiettati via, fu come se fossero stati storditi da una scarica ad alta tensione.

 

Il maestro Tada iniziò a studiare aikidō nel marzo del 1950. Studiava all'epoca anche karate ma iniziò ben presto a dedicarsi sempre più all’aikidō e in breve gli divenne impossibile praticare ambedue le arti. Ciò non dipese dal giudicare un’arte migliore dell’altra, ma dalla gran­de ammirazione per il maestro Ueshiba di cui aveva appreso già da ragazzo, anche grazie al padre.

Quando si iscrisse dunque al dōjō del maestro Ueshiba, aveva 20 anni ed il maestro ne aveva 67, una differen­za di 47 anni, tutta­via lo proiettava con tale facilità, indi­pendentemente dalla forza dell'attacco, che non sembrava esserci alcu­na differenza di età. Ma  in seguito, riguardando indietro a questi fatti, tutto gli sembrava perfettamente comprensibile.

All''epoca la maggior parte dei praticanti era anche membro del Tenpukai del maestro Tenpu Nakamura o del Nishikai del maestro Nishi Katsuzō. Solo  sei o sette persone frequentavano assiduamente il dōjō fra cui Keizo Yokoyama ed il suo fratello più giovane Yosaku, studenti all’università Hitotsubashi. Yosaku trascorse gli ultimi anni della guerra nell’Accademia Navale e si iscrisse all’università dopo la fine del conflitto.

Fu lui che introdusse il maestro Tada al Tenpukai e all’Ichikukai. Successivamente altre persona gli diedero insegnamenti sugli esercizi di digiuno. Tutte queste pra­tiche, insieme agli insegnamenti del maestro Morihei Ueshiba, divennero la base per il suo allenamento. Fu presentato al Tenpukai nel giugno 1950 e il maestro Tenpu Nakamura stava tenendo in quel periodo sessioni mensili di studio al Gekkoden del tempio Gokokuji.

Come l’Aikikai, il Tenpukai faceva poco per farsi conoscere: si veniva ammessi solo attraverso la presentazio­ne da parte di altri membri. Incontrato quindi il maestro Tenpu, dopo aver ascoltato quanto aveva da dire, entrò immediatamente a far parte della sua organizzazione.

I maestri Ueshiba e Tenpu si conoscevano già prima che il maestro Tada si iscrivesse al dōjō: sembra che fossero stati presentati dal padre di Tadashi Abe (N.d.R: Tadashi Abe, 1926-1984, insegnò aikido in Francia dal 1952 al 1959) che era sia membro del Tenpukai che allievo del maestro Ueshiba. All’inizio il Tenpukai era conosciuto come la Toitsu Tetsuigakkai (Società per lo studio dell’unificazione della medici­na e della filosofia), e centrava la sua attenzione sull’unificazione della mente e del corpo. Il maestro Tada prese parte a molti esperi­menti del maestro Tenpu, venendo a conoscenza di molte cose su di lui, e praticò nel Tempukai fino a quando non si trasferì in Italia (ottobre 1964). Durante gli anni trascorsi qui scomparvero il maestro Tenpu (dcembre 1968), il maestro Morihei Ueshiba (aprile 1969) e il nonno del maestro Tada, Tsunetaro: le tre figure di riferimento della sua vita.

Il maestro Tenpu, esperto di spada dello stile Zuihen ryū battojutsu aveva preso il suo nome, Tenpu appunto, dai caratteri cinesi ten e pu usati per scrivere il nome della forma di spada amatsukaze nella quale si distingueva particolarmen­te. Era un discendente del nobile Tachibana, il signore (damyo) di Yanagawa: le arti marziali erano tal­mente popolari in Yanagawa che questo feudo era stimato di livello paragonabile a quello di Saga - nel Kyūshū settentrionale - feudo quest’ultimo reso famoso dal libro intitolato Hagakure (testo classico della "via del guerriero" - bushidō -, dettato da Tsunemoto Yamamoto nel 1716). Il contenuto dei discorsi del maestro Tenpu era molto particolare, in quanto la maggior parte di ciò che diceva prendeva origine più dalla sua esperienza vissuta che da un qualsiasi processo intellettuale. Il metodo del maestro Ueshiba era simile, le idee generate solo a livello intellettuale non hanno il medesimo potere di atti­rare le persone.

L’Ichikukai Dōjō fu fondato nel 1922 dai membri del club “Tokyo Canottaggio”di cui faceva parte Ogura Tetsuju, uno degli ultimi uchi-deshi (allievi interni) del famoso maestro di spada e di calligrafia Tesshu Yamaoka. Durante il periodo Taishō (1912-1926) gli studenti ed i seguaci di Ogura, insieme ai membri dell’asso­ciazione di  canottaggio dell’Università Imperiale di Tokyo (oggi Università di Tokyo) fon­darono una società per la pratica del misogi ossia forme varie di austerità e puri­ficazione rituale. La dirigeva Masatatsu Inoue. All’inizio l’Ichikukai si riu­niva il 19 di ogni mese per commemora­re la morte di Tesshu Yamaoka avvenuta un 19 Luglio, data da cui l’Ichikukai aveva preso il nome in quanto ichiku in giapponese significa 19.

Quando il maestro Tada si aggregò, le riunioni erano tenute in un vecchio dōjō del periodo Taishō a Nogata-machi nel Nakano. Dal giovedì alla domenica ci si sedeva nella posizione della folgore (seiza) per circa dieci ore al giorno, cantando un versetto di un norito (preghiera shintō) e partecipando per quanto possibile con tutto l' essere. Era qualcosa di molto simile al canto di un mantra. Dopo esse­re passati attraverso questa iniziazione si diventava membro della società e solo allora si poteva prender parte agli incon­tri, che si tenevano una volta al mese di domenica. Ci si esercitava in una specie di salmodia, detta ichimanbarai, che consisteva nel suonare una campanella agitandone il manico diecimila volte. Il suono della campanella non diventava chiaro e netto fino a che il movimento della mano non fosse diven­tato automatico. A molti dei suoi miglio­ri studenti di aikidō il maestro Tada insegna tutt’oggi questa pratica.

Per quanto riguarda gli insegnamenti del maestro Ueshiba bisogna dire che inizialmente si adirava se gli studenti prova­vano ad allenarsi nel Dojō con la spada o il bastone, e proibiva loro di farlo, più tardi tuttavia cominciò ad insegnare queste tecniche. Come detto, da bambino il maestro Tada aveva fatto pratica del tiro con l’arco giapponese tradizionale , come era stato tra­mandato nella sua famiglia, ed era solito anche esercitarsi nell’arte nel kendō durante gli anni della scuola secondaria. Ma ciò accadeva durante la guerra, quindi non si tratta­va affatto di un’attività di tipo sportivo. Dopo aver iniziato gli allenamenti di aikidō iniziò ad esercitarsi a colpire con la spada un albero vicino casa. È sua opinione che l’allenamento personale rivesta grande importanza, indipendentemente dall’arte marziale che si pratica. Ognuno dovrebbe creare un suo proprio programma di allenamen­to, a cominciare dalla corsa.

Da quando aveva venti anni fino ai trenta passati era solito alzarsi ogni mattina alle cinque e mezza e correre per circa quindici chilo­metri. Una volta tornato a casa si allenava colpendo col bokken una fascina. In quel tempo le case di Jiyugaoka - il quartiere di Tokyo dove abitava - erano molto distanti l’una dall’altra cosicché poteva fare tutto il rumore che voleva. Si allenava col metodo del Jigen ryu, che aveva imparato a Iwama dal maestro Ueshiba. Si narra che nel passato i guer­rieri del feudo di Satsuma nel Kyushu colpissero diecimila volte al giorno una grande fascina di arbusti; ma il maestro Tada era in grado inizialmente di dare cinquecento colpi al mas­simo e dapprima le sue mani si intorpidi­vano, ma in breve fu capace di colpire un grande albero senza alcun problema.

N.D.R. Nella foto a fianco il maestro impugna infatti un bokken della scuola Jigen ryu, che ha utilizzato per molti anni. La foto è stata scattata nel 1978 nel cortile del Dojo Centrale. Sullo sfondo si vedono le mura di sostegno dell'acquedotto romano; di fronte al maestro, sulla destra, era sistemato su due cavalletti un tronco d'albero di circa 40 cm di diametro, utilizzato per il suburi. A volte durante i raduni gli yudansha dovevano alternarsi nel vibrare colpi sul tronco, con bokken di fortuna ricavati dai rami del grande platano che sorgeva davanti al dojo.

All’università Waseda e all’università Gokushuin gli studenti del maestro Tada si allenano in questo modo, poiché egli trova che sia uno dei migliori metodi di allenamento per l’aikidō. Naturalmente precisa che non è corretto usare una forza fisica eccessiva. Bisogna infatti tenere il bokken o più semplice­mente un bastone di legno verde con leggerezza e stringerlo con l’anulare ed il mignolo al momento dell’impatto. La velocità nel portare il colpo e l’abilità nello stringere correttamente le dita si svilup­pano in maniera naturale.

Questo modo di praticare con gentilezza è importante, in quanto con l'uso continuo della forza si può finire col proiettare o immo­bilizzare le articolazioni di chi attacca con troppa energia e questo può essere pericoloso. Purtroppo lo spazio limi­tato dei moderni luoghi di pratica non permette più questo tipo di allena­mento maera intenzione del mestro intende riorganizzare gradualmen­te le cose in modo da renderlo sempre più accessibi­le. Per lui quello appena descritto è uno dei modi fondamentali di portare i colpi; i movimenti dei piedi e delle mani e lo sviluppo del­l’energia vitale ki mediante la medita­zione col respiro kokyū-hō, sono elementi altrettanto importanti dell’alle­namento personale.

Egli inoltre sottolinea che bisogna osservare con molta attenzione il metodo personale di allena­mento del proprio maestro ed assimilarlo; altrimenti si possono trarre con­clusioni affrettate e sbagliate, rischiando di fare un allenamento senza alcun significato o addirittura errato. Ad ogni modo si deve sempre riesaminare quanto il maestro ha insegnato, nel ten­tativo di discernere quanto ne costitui­sce il fondamento; a questo punto lo si deve praticare ripetutamente finché non si è in grado di farlo bene. In tal modo si crea il proprio metodo personale di allena­mento. Chiunque voglia diventare un esperto di ciò che fa e farà - un’arte marziale, uno sport, una qualsiasi attività artistica o qualsivoglia altra cosa - si deve allenare ogni anno per almeno duemila ore, quando è tra i venti e i quaranta anni: ciò significa da cinque a sei ore al giorno.

È scontato che ognuno si comporterà in modo diver­so tuttavia, per tutti, la maggior parte di questo tempo dovrebbe essere speso per l’allena­mento personale. Dopo essersi allenati per proprio conto si può andare al dōjō per avere conferma, per mettere alla prova, per esaminare con attenzione tutto quanto si è acquisito. Usare un albero come proprio compagno di aikidō è un buon modo di far pratica con tutta l’energia possibile, perché si può colpire con molta più forza. Se invece il compagno è un essere umano non ci si può allenare con spen­sierata durezza. Il tempo è meglio speso se ci si applica a sviluppare linee di azione, cioè di attacco e di dife­sa corrette, precise, nette come lame di rasoio.

Il maestro Ueshiba parlò sempre con molto rispetto dei propri insegnanti, compresi il maestro Sokaku Takeda ed il reverendo Onisaburo Deguchi. Ciò che il maestro Tada ricorda con più lucidità delle sue chiacchierate, dopo la normale pratica quotidiana - infatti il maestro Ueshiba spesso tornava nel dōjō a parlare di argomenti vari - è che il daitō-ryū aveva svilup­pato un metodo di allenamento veramen­te eccellente. Il maestro Tada tiene comunque a sottolineare che mentre alcune volte capiva chiaramente ciò di cui parlava il maestro Ueshiba, altre volte era completamente disorientato, anche perché egli aggiungeva a quanto diceva: “Questo è il mio modo di parlare! Ma voglio che ciascuno di voi comprenda ciò che sto dicendo con le sue proprie paro­le, che lo esplori profondamente e che poi lo trasmetta con il linguaggio d’oggigiorno”.

 

Per il maestro Tada l’aikidō è un beneficio per l’umanità inte­ra; più di quanto ci si renda generalmen­te conto, anche se lo si osserva da un punto di vista particolare come può esse­re il suo, cioè quello di un esperto. Nel 1952, quando si laureò, tutti i suoi amici furono piuttosto sorpresi dalla sua decisione di specializzarsi in aikidō, probabilmente perché era trascorso trop­po poco tempo dalla fine della guerra quando le arti marziali erano state messe al bando. Per lui, tuttavia, l’aikidō del maestro Ueshiba incarnava l’essenza della cultu­ra giapponese e lo vedeva in prospettiva molto importante nel futuro del Giappone.

In realtà l’aikidō sembra aver tro­vato una sua solida base in Europa prima ancora che in Giappone. Ma quando tutto inizia come su un foglio bianco, in un contesto culturale completamente diffe­rente, come nel caso dell’Europa, l’alle­namento dell’aikidō è impossibile senza una chiara comprensione di ciò che è l’aikidō e quale sia il fine dell’alle­namento. Chi è privo di queste cono­scenze è paragonabile ad una persona che salti su un treno in corsa senza sape­re quale è la destinazione o almeno in che direzione procede. In altre parole, è importan­te avere ben chiara fin dall’inizio la “direzione” dell’allenamento dell’aikidō. Per quanto riguarda il meto­do di allenamento, non è realistico chiedere le stesse cose a chi vuole allenarsi parecchie ore ogni giorno e a chi non può impegnarsi a questi livelli. È sufficiente che ognuno si alleni in un modo che per lui abbia senso nel contesto del suo stile di vita.

Però coloro che vogliono diventare esperti o che vogliono esplorare vera­mente ed in profondità l’aikidō devono avere ben chiaro in mente dove stanno andando e come possono raggiungere la meta. Il maestro sottolinea che non può essere lui ad affermare se un meto­do è sbagliato o corretto.  La maggior parte degli esperti di un’ar­te marziale non si trova nella posizio­ne di poter criticare le tecniche altrui, giacché sono troppi i casi in cui qualcu­no che all’apparenza si presentava debole, al momento cruciale si rivela invece straordina­riamente forte.

In Italia il nome ufficiale dell’Aikikai d’Italia è Associazione di Cultura Tra­dizionale Giapponese, organizzazione riconosciuta su proposta del Ministero dei Beni Culturali. Come implica il nome stesso, la pratica dell’aikidō è dunque considerata una forma di cultura tradizionale. Ciò che vi si fa è perciò del tutto differente da qual­siasi genere di sport; per dirla in altro modo, la pratica dell’Aikidō è una forma di “meditazione in movimento'. Il maestro ritiene sia difficile per un giapponese che vive in Giappone comprendere questa situazione, ma in paesi come l’Italia, la Svizzera e la Germania, il termine kinorenma (coltivazione dell’energia vitale, del ki) è inteso con lo stesso significato che in lingua giappo­nese.

Naturalmente non tutti coloro che fre­quentano un dōjō hanno questo approccio mentale. Alcuni sono maggiormente interessati a diventare più forti in vista di eventuali scontri fisici, altri sono moti­vati dal desiderio di migliorare la loro salute fisica e mentale, altri ancora possono voler semplicemente dilettarsi con qualcosa che proviene da una cultu­ra differente. Tuttavia i giovani praticanti di aikidō che intendono diventare istruttori devono avere in mente fini chiari e coerenti per l’allenamento dell’aikidō, che comprendano anche quelli di cui si è parlato fino ad ora.


Le moderne arti marziali giapponesi costituiscono un caso da studiare attentamente. È vero che ad esse ci si riferisce spesso col termine budō, ma in realtà si tratta di attività inserite nel sistema pedagogi­co deciso in Giappone solo a partire dal periodo Meji; ed anche se si suppone che esse rappresentino lo spirito tradizionale del Giappone, vi sono molti casi in cui certi aspetti spirituali sono stati omessi. Durante la restaurazione Meji, che iniziò nel 1868, fiorì in Giappone una civiltà di stile occidentale; ma fu proprio nello stesso periodo che lo studio della cultura orientale divenne popolare in Europa e negli Stati Uniti, insieme all’uso del concetto di subcon­scio e all’attenzione alle realtà interiori della mente. Tutti questi aspetti culturali si svilupparono durante un lungo perio­do di tempo e, dopo l’ultima guerra mondiale, divennero ben noti sotto forma di medicina psichiatrica e di ricer­ca terapeutica.

Al contrario, il Giappone adottò una politica che può essere riassunta nella frase “all’esterno con l’Asia, all’interno con l’Europa”, una tendenza estremamente problematica che continua perfino al giorno d’oggi e forse spiega perché sorprendentemente ci siano così pochi giapponesi che comprendano l’essenza dell’aikidō. Ma all’estero in realtà si avverte anche che ci sono alcuni aspetti che solamente un giapponese potrebbe capire: non il metodo dell’allenamento in sé, ma piuttosto dettagli di natura più generale. Il modo giapponese di parlare per esem­pio, o il ritmo della vita giapponese, come le forme teatrali kabuki e nō, solamente una persona vissuta in Giappone li può comprendere . Allo stesso modo è presumibile che l’allenamento di aikidō in Europa evolva in forme appropria­te per l’Europa poiché il linguaggio ma anche il modo di stare in piedi o camminare sono differenti.

 

Per quanto concerne la cura del corpo, il maestro ai tempi dell’università seguiva una dieta strettamente vegetariana ed esercitava il digiuno ed altre austere prati­che. Col tempo questo è diventato più difficile e si concentra su una dieta costituita da pane integrale, tagliatelle di grano saraceno e verdure mescolate con alghe o con pesce, o con piccoli pesci interi e frut­ti di mare. Non beve alcolici se non in occasioni speciali, come nelle commemorazioni o quando si riuniscono gli studenti, e non fuma.

Il fumo è controproducente per il kokyu-hō (meditazione col respiro) e ostacola il controllo degli aspetti più sottili dei cinque sensi portando alla incapacità di avvertire le differenze più fini. Se non si è in grado di avvertire queste differenze si è pure incapaci di percepire gli aspetti più sottili della vita quotidiana. Se si pensa al colore rosso ad esempio, allora il corpo eseguirà un movimento “rosso”. La mente ha questa grande influenza sul corpo, gli aspetti maggiormente sottili, però, pos­sono essere percepiti solo dopo un esame attento. Tutto ciò è difficile da comprendere nella normale routine di tutti i giorni, ma diventa più chiaro nei momenti in cui i sensi sono estremamente pronti ed acuti, come ad esempio subito dopo un digiu­no di tre settimane.

Riguardo all'alcol, berne quotidianamente rende particolarmente difficile raggiungere una vera lucidità mentale, anche con i più grandi sforzi di attenzione. Ci sono anche molti modi di mangiare. Si può dire che si assorbe l’energia vita­le (ki) dell’universo attraverso il cibo, pertanto si dovrebbe riflettere seriamente sul fatto che l'ingestione di cibo e liquidi riveste la medesima importan­za del respirare immersi nell’energia vitale dell’universo. L'essenziale è assumere i cibi con lo stesso “raccolto senti­re” del maestro Ueshiba, che univa le due mani assieme in segno di ringraziamento prima e dopo i pasti.

Fino al periodo Meji (1868-1912), il popolo giappone­se padroneggiava la meditazione col respiro e sviluppava la propria energia vitale mediante una disciplina iniziata in giovane età anzi fin dal momento stesso della nascita. Da questo punto di vista, l'educazione dei bambini e la natura della vita familiare, il popolo giapponese è oggigiorno del tutto differente da quello di allora. La stessa evoluzione si riscontra in Europa, dove i bambini un tempo venivano por­tati in chiesa sebbene non comprendessero ancora nulla delle cerimonie reli­giose: l’educazione iniziava anche là in giovane età.

Tali esperienze formano probabilmente il nucleo reale di una per­sona. Nel Giappone anteguerra, la lealtà ed il patriottismo che origina­vano dal bushidō - la via del guerriero - erano gli equivalenti in un certo senso dell’educazione religiosa europea. Tutto ciò è sparito e sfortunatamente non è subentrato nulla a rimpiazzarlo. Ma il maestro crede che l’aikidō sia forte abbastanza da poter assumere un ruolo importante nell'educazione degli esseri umani.

 

 


 

Per quanto concerne l’allenamento pratico bisogna considerare innanzitutto che il corpo è un oggetto fisico, quindi il modo in cui si muove deve essere razionale e scientifico. Tuttavia le arti marziali (budō) richiedono allenamenti focalizzati non solo sul modo di stare seduti e in piedi ma anche su come influenzare mentalmente il corpo ed essere massimamente vigili. Un particolare accento va posto su come muovere il corpo, o come acquistare velocemente la necessaria stabilità per eseguire bene le tecniche. Certamente ci sono principi che governano tutte queste attività, e che deb­bono essere compresi completamente e messi in pratica durante l’allenamento. Con il termine scientifico si vuole dun­que intendere che si segue un insieme di principi scientifici e li si applica.

Il ruolo dell’insegnante è di tra­smettere questi principi allo studente, ma è difficile farlo mediante spiegazioni logiche; è meglio impararlo gradualmente attraverso il proprio corpo, anche senza prenderne chiara coscienza. È per questo che il maestro Ueshiba non spiegò mai le sue tecniche: le spiegazioni a parole si fer­mano alle orecchie. Infatti, la semplice esecuzione della tecnica al meglio possi­bile è il modo più veloce per migliorare. Non è bene pensare che non si sia in grado di fare qualcosa se non se ne è già fatta esperienza, se non è già assimilato.

Durante gli allenamenti nel dōjō si portano attacchi predeterminati, ma ciò non significa che non si sia in grado di rispondere ad un attacco improvviso portato in maniera diversa. Il maestro Ueshiba, per esempio, insegnava che lo shomenuchi (colpo fendente diretto alla testa) rappresenta l’attacco in cui l’energia dell’avversario viene direttamente dal lato frontale, e che potrebbe anche essere portato con una lancia, con una spada, con un coltello o con un calcio, quindi non si tratta semplicemente di un fendente portato alla fronte col te-gatana (bordo esterno della mano). Durante l’allena­mento bisogna tenere ben presente nella mente tutte queste possibilità, concentrando la pro­pria attenzione su come risponde il pro­prio corpo ad ogni attacco, e come creare linee di forza per adat­tarvi il proprio corpo. Inoltre, bisogna possedere una speciale forma di energia, al fine di creare un ambiente in cui la ci si possa veramente allenare ed essere motivati ad allenarsi. Motivare tutti coloro che si trovano nel dōjō richiede la poten­za del respiro vitale dell’Universo (kokyū).

Si dice che il maestro Ueshiba esempio eseguendo ad esempio suwariwaza ikkyo non lasciasse all’avversario alcuna possibilità di attacco, cioè iniziasse il movimento emanando tutta la propria energia vitale nel modo conosciuto come “colti­vazione del magnetismo”, che consiste nell'avere un’acuta consapevole percezione del respiro vitale dell’universo, che attrae l'attaccante come un pezzo di ferro è istantaneamente attirato da una calamita. Si possono prendere in considerazione tre situazioni: l’attaccante si muove per primo, difensore e attaccante si muo­vono simultaneamente, il difensore si muove per primo. La tecnica in realtà è la stessa in ogni caso e ciò che conta alla fine è lo stato mentale mantenuto. Se si guarda invece soltanto alla forma esteriore, considerando le tecniche solo come una sorta di autodifesa, non si sarà mai in grado di comprenderne fino in fondo il signi­ficato globale. Le tecniche attingono alla energia vitale, non consistono nella sem­plice interazione di due corpi materiali, e l’allenamento è come uno specchio che riflette la sensibilità del praticante verso l’e­nergia vitale. La pulizia dello specchio ne è l'aspetto più importante.

Si distinguono due tipi di “entrate” rispetto all’attacco dell’avversario: omote dalla parte anteriore e ura dalla parte posteriore. Da un punto di vista puramente mate­riale si esegue una tecnica ura quando il compagno ha poggiato sul terreno in modo stabile il proprio piede posteriore sollevando l'anteriore. Quando invece il piede posteriore è in movimento o quando non è ancora ben poggiato, quando il respiro vitale di chi pratica passa liberamente attraverso il compagno, allora la tecnica si esegue omote. Una tale variazione si presentava molto spesso nell’insegnamento del maestro Ueshiba. Il punto importante però, è che bisogna essere in grado di eseguire le tecniche in ogni direzione, su un arco di 360 gradi. Omote ed ura non sono forme o stampi prefissati; essi rappresentano semplicemente l’idea che le tecniche possono variare con la massima libertà.

Il maestro Tada ha posto grande cura nel tenere ben organizzate le tecniche apprese direttamente dal maestro Ueshiba, ed esse formano la base del suo programma di allenamento. Egli si sforza di conservare non solo le tecniche, ma anche la percezione delle condizioni globali e dell’atmosfera del periodo di apprendimento. Ad esempio, visualizza il tragitto per andare al dōjō ad allenarsi con il maestro Ueshiba: “Lascio la mia casa a Jiyugaoka, scendo la collina e prendo la linea tranviaria Toyoko in direzione di Shibuya, dove mi trasferisco sul raccordo ferro­viario Yamate in direzione di Shinjuku; prendo quindi una vettura del collega­mento stradale per Nukebenten (un pic­colo santuario) ed entro nel dōjō, dove appare il maestro Ueshiba ed esegue varie tecniche”. Ripete numerose visualizzazioni di questo tipo nella sua mente. Se si tratta di ikkyo (prima tecnica), vengono incluse tutte le possibili applicazioni, le variazioni e le controtecniche. Questo tipo di allena­mento è stato sempre molto comune fra i praticanti di arti marziali.

Il termine di “allenamento per immagini” ora si usa spesso ovunque, ma in origine questo era un concetto orientale ed è una forma di meditazione. Non ci si può veramente aspettare grandi risultati senza una com­pleta identificazione di ciò che si visua­lizza. Ci si deve mescolare con il pano­rama, solo allora si possono ascoltare i suoni che accompagnavano le tecniche e il respiro del maestro Ueshiba. Si racconta che quando il maestro era sulla cinquantina non insegnasse più le forme del daito ryū come le aveva apprese da Sokaku Takeda: tutte le esperienze della sua vita, fin dalla più lontana infanzia, culminavano in una corrente ininterrotta di nuovi movimenti  “che ribollivano come se sgorgassero da una sorgente”. Si trattava di una forma di invenzione e di scoperta continua. Il maestro diceva che quando si trovava nella sua forma migliore un’im­magine del suo avversario che volava per l’aria gli si presentava davanti agli occhi; l’istante successivo il suo corpo si muoveva automaticamente e l’immagine diventava realtà.

Il maestro Tada cerca sempre di tramandare ai suoi studenti tutto ciò che ricorda del maestro Ueshiba e quanto da lui ha imparato, tiene però a precisare che molte storie e molti aneddoti vengono in realtà “dalla cima della montagna” cosicché c’è il rischio che vengano compresi in modo sbagliato se non ne viene spiegato il contesto. D’altra parte c’è un vecchio detto secondo il quale avere troppe nozioni può essere d’ostacolo ad una vera conoscenza. Quando era discepolo del maestro Ueshiba tentava con tutte le energie di assorbire e digerire ogni suo insegnamento, cercando per anni di copiarlo. In Giappone c’è una espressione, gokui ni kabureru, per descrivere qualcuno che tenta di andare oltre le sue capacità, un modo di fare questo che da sempre è disprezzato dai giapponesi. Pertanto bisognerebbe usare prudenza nel raccontare ai giovani del maestro Ueshiba o nel far loro vedere le pellicole che lo ritraggono. Il maestro Ueshiba infatti rimproverava sempre severamente colui che imitava semplicemente l’esteriorità delle tecniche, con queste parole: “Non dovete imitare soltanto la forma esteriore di ciò che faccio! Concentratevi di più sui vostri elementi fondamentali!”

È ben nota inoltre le frase “aiki è Amore”. In genere si usa il termine amore in senso relativo, come quando si dice: “amo questo, o quello”. Ma il maestro Ueshiba parlava dell’amore in un senso assoluto, come quello della mente dell’Universo. Di conseguenza, mentre si riesce facilmente a comprendere questo amore sul piano intellettuale, se non ci si fonde con l’Universo intero come fece il maestro Ueshiba, di certo non si può comprendere come l’intendeva lui. Forse proprio questa era la “lucidità” mentale ovvero il “diventare lucido” di cui solitamente parlava. I discorsi del maestro Ueshiba si svolgevano tuttavia ad un livello molto elevato e rimangono talvolta di interpretazione non facile.

Circa l’allenamento per coltivare e sviluppare il ki, è importante prendere coscienza delle proprie limitazioni fisiche: è impossibile sollevare oggetti straordinariamente pesanti o correre in un modo estremamente veloce. Quando ci si trova nel regno mentale, tuttavia, nelle fasi iniziali è impossibile conoscere le proprie vere limitazioni e come fare per sviluppare se stessi e raggiungere questo limite. Non si ha altra risorsa se non quella di seguire fedelmente la sapienza del passato, allenarsi con diligenza seguendo i metodi che vengono trasmessi dai maestri.

 

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