Jidai

Kei Kumai: Morte di un maestro del te (Sen no Rikyu)

1989

Eiji Okuda, Toshiro Mifune, Kinnosuke Nakamura, Shinsuke Oshida

Questa opera ha conosciuto uno strano destino: fece scalpore alla sua uscita e venne salutata come un capolavoro assoluto, ricevendo molti riconoscimenti in Giappone. In occidente ottenne il Leone d'argento al festival del Cinema di Venezia del 1989. Uscita poi nelle sale, vi rimase per diversi anni, anche se prevalentemente nei circuiti dei cinema d'essai dove rimaneva ininterrottamente in programmazione per tempi lunghissimi. Una recensione dell'epoca avvertiva: "Paninari, astenersi", per sottolineare che si trattava di un'opera imperdibile ma destinata solamente a chi era in grado di comprenderla ed apprezzarla. Eppure, nonostante tutto, fu una parte non indifferente del pubblico.

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Hiroshi Inagaki: L'uomo del ricsciò

1958

Toshiro Mifune, Hideko Takamine, Kaoru Matsumoto

 

Presentato al Festival di Venezia questo film vi riportò il massimo alloro: il Leone d'oro. Negli anni precedenti vi era stata grande attenzione nei confronti della cinematografia giapponese, soprattutto verso il veterano Kenji Mizoguchi prematuramente scomparso e l'astro nascente Akira Kurosawa. Probabilmente anche la presenza come protagonista del più noto degli artisti legati a Kurosawa, Toshiro Mifune, ha contribuito a richiamare l'attenzione su questa opera di Inagaki. Il regista, già famoso in patria per la sua trilogia sul grande samurai Miyamoto Musashi, era fino ad allora sfuggito all'attenzione del pubblico occidentale.

Sembrava con questo prestigioso riconoscimento che le sorti dovessero cambiare invece l'opera venne distrattamente distribuita in Italia e non riscosse grande successo venendo presto dimenticata, né si sentì più parlare molto di Inagaki.

Matsugoro, detto Matsu il selvaggio, non poteva essere altri che Toshiro Mifune. Attaccabrighe, irruento e screanzato ma anche operoso, genuino, gentile e disinteressato, non potrà però superare l'ostacolo della sua bassa condizione sociale e la sua vita rimarrà incompiuta. L'opera è ambientata nel difficile quanto affascinante periodo di passaggio attraverso tre diverse epoche: il periodo Edo, che era  tramontato già nel 1868 ma continuava a permeare di se le città, le campagne e gli animi dei giapponesi, il periodo Meiji che intendeva guardare al futuro ma senza rinunce preconcette del passato, ed infine il periodo moderno.

Durante l'epoca Edo (1600-1868) per ragioni di sicurezza le vie di comunicazione erano strettamente controllate dal governo dello shogun e gli spostamenti contingentati: raramente era consentito costruire ponti ed occorreva quindi ricorrere quasi sempre ai traghettatori. Inoltre ogni tipo di veicolo a ruote era proibito.

Le uniche alternative allo spostarsi a piedi, oltre ovviamente al cavallo, erano il kago, la portantina a noleggio portata da due uomini utilizzata prevalentemente in città, e quella con equipaggio più numeroso di cui si servivano le personalità di spicco per gli spostamenti da una località all'altra.

All'approssimarsi della restaurazione del potere imperiale (epoca Meiji appunto) il Giappone accettò o piuttosto dovette accettare l'apertura delle frontiere ed un rapido ma traumatico adeguamento al 'progresso' occidentale.

Uno dei simboli di questo cambiamento fu l'apparire di un nuovo veicolo munito di ruote, un leggero carrozzino a trazione umana: il jinrikisha, che venne chiamato in inglese rickshaw e in italiano probabilmente tentando di riprendere la fonetica inglese, ricsciò.

Fu inventato da un samurai del clan Fukuoka di nome Izumi Yosuke, che in viaggio ad Edo  per ordine del suo signore ebbe l'ispirazione vedendo una carrozza di farne una versione più leggera adatta ad essere trainata da un uomo (jinriki = uomo forte).

Muniti di una licenza lui e i suoi soci iniziarono la produzione nel 1870 e nel 1876 (9. anno Meiji) in quella che era diventata nel frattempo la capitale dell'est ossia Tokyo si contavano 10.617 jinrikisha ad un posto e 13.853 a 2 posti (Dictionnaire Historique du Japon, Maisonneuve & Larose, ed. 2002)

Quel veicolo fino ad allora inesistente non ebbe vita lunga in Giappone, ben presto sorpassato dalla meccanizzazione dei trasporti, ma venne esportato dapprima in Cina poi in numerose altre nazioni asiatiche ed in Sud Africa, ove conobbe lunga ed onorata carriera. 

Gli uomini del ricsciò - i jinriki - sono di conseguenza figure emblematiche di quel periodo in cui sia i giapponesi che gli occidentali iniziarono a scoprire il Giappone. Forse, troppo spesso, per cambiarlo inconsapevolmente, fino al punto da stravolgerlo e quasi distruggerlo culturalmente.

Fortunatamente la cultura giapponese aveva radici talmente radicate e diffuse nell'animo della popolazione che nonostante tutto non solo sopravvive ma è ancora attiva e vitale. Il rozzo Matsugoro, il jinriki presentatoci da Inagaki, è indubbiamente un rappresentante tipico di quella parte del Giappone destinata a scomparire per sempre eppure ancora viva nell'animo dei giapponesi.

 

 


Matsu il selvaggio farà attendere per qualche minuto la sua prima comparsa in scena. Da regista consumato Inagaki (1905-1980) preferisce aumentare il senso di attesa facendo dapprima parlare di lui - aumentando la curiosità nello spettatore - alcuni personaggi sottilmente selezionati.

La scena di apertura ricostruisce l'immagine di una stretta ed affollata strada cittadina di quella tumultuosa epoca, sul fare della sera.

Brulica di personaggi di ogni tipo intenti alle loro occupazioni di routine, che hanno l'aria di essere ancora le stesse di secoli prima, per quanto alcuni importanti indizi mostrino che si tratta di una epoca di passaggio. Primo fra tutti, il jinrikisha che si dirige verso lo spettatore, con un passeggero in abiti occidentali.

 

Qualcuno sta cercando Matsu: si tratta di un poliziotto, anche lui in uniforme moderna dal taglio occidentale, mentre la proprietaria della locanda cui si rivolge è abbigliata tradizionalmente ed ha i denti anneriti che da secoli contraddistinguevano le donne sposate.

Due mondi apparentemente rivolti verso direzioni opposte, verso il futuro e verso il passato, che eppure convivono ed interagiscono, e non sembrano prestare alcuna attenzione né attribuire alcuna importanza alle loro differenze.

 

 

 

 

Matsugoro, che i discorsi dei due ci hanno immediatamente dipinto come un personaggio da prendere con le molle, è una volta tanto fuori combattimento, con un gran mal di testa.

Si agita furiosamente nel dormiveglia, destando l'impressione di un uomo dotato di grande energia, fisica e mentale, ma incapace di controllarla.

Un ruolo che Toshiro Mifune ha spesso impersonato, ed in modo impareggiabile.

 

 

 

 

 

Matsugoro aveva trovato questa volta pane per i suoi denti: un samurai che doveva recarsi a Wakamatsu (Tokyo) aveva contestato il prezzo di 50 sen per il trasporto, offrendongliene 40. Tanto era bastato per far saltare la mosca al naso a Matsu, 'il selvaggio di Kokura' (evidentemente un luogo dalla fama non immacolata).

Dopo un rapido scambio di battute aveva colpito l'ignoto con un violento ceffone ma questi si era messo in guardia e gli aveva vibrato un micidiale colpo in testa col bastone da passeggio. Si trattava infatti di un insegnante di arti marziali, presumibilemente di scherma.

E l'attore che lo impersona è anche una vecchia conoscenza: Seiji Miyaguchi, l'infallibile e taciturno Kyuzo della più popolare opera di AKira Kurosawa, I sette samurai. Per la verità come guerriero ha qui minore credibilità ma mancando scene di combattimento vero e proprio (non mancano invece le risse) a questo film non può avere collaborato un maestro d'armi allo stesso livello di Yoshio Sugino, che invece Kurosawa continuò ad utilizzare sempre.

Le conseguenze del colpo hanno costretto Matsu a letto per diversi giorni, durante i quali però non ha mancato di distinguersi a suo modo. Riprendendo ad alimentarsi per la prima volta, dopo aver passato il momento peggiore, ha immediatamente fatto fuori con disinvoltura 6 palle di riso, che nei pettegolezzi di quartiere sono immediatamente divenute 16.

La tragicomica disavventura introduce meglio di ogni discorso il personaggio di Matsugoro, un Rodomonte giapponese capace di attraversare pesantemente il cammino di ognuno. Arrogante, presuntuoso e prepotente, ma intimamente fragile e alla vana ricerca di qualcuno che lo comprenda.

La successiva rodomontata di Matsu permette a Inagaki di ricostruire uno squarcio fedele della cultura popolare giapponese. Era costume che i jinriki avessero ingresso gratuito nei teatri, ma i tempi stanno cambiando velocemente.

Ci troviamo intorno al 1894 dato che la rappresentazione celebra le vittorie dell'esercito giapponese durante la prima guerra contro la Cina.

Matsugoro viene però fermato all'ingresso: deve pagare il prezzo del biglietto, o rassegnarsi ad entrare dopo le 21.

 

 

 

 

Naturalmente non finisce là: Matsu si ripresenta con un amico, paga regolarmente i biglietti e prende posto in platea, dove era costume, durando molto a lungo le rappresentazioni, che molti si preparassero addirittura da mangiare su dei bracieri portatili.

Matsu si è preso cura di portare con se gli ingredienti più pestilenziali, e l'odore della sua cena causa scandalo e scompiglio tra gli spettatori.

 

 

 

 

 

L'intervento degli inservienti e dell'impresario non turba minimamente Matsu il selvaggio, era anzi probabilmente proprio quello che voleva ottenere: avere il pretesto per scatenare una rissa mettendo a soqquadro l'intero teatro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Faremo ora la conoscenza con un'altra figura tipica della cultura giapponese: il chukaisha, ossia mediatore. Si tratta di un funzionario che ha l'incarico di intervenire, su chiamata o di sua iniziativa, per risolvere ogni genere di controversie.

Non ricorre generalmente alla forza pubblica, si affida solamente alla sua capacità di persuasione.

Il suo nome è Shigezo Yuki (interpretato da Chishû Ryû) e la sua calma personalità ha il potere di sedare immediatamente la rissa, per poi convocare le parti ed ascoltare le loro ragioni.

 

 

 

Shigezo Yuki non ha alcuna difficoltà a ridurre alla ragione Matsu. La sua collera è comprensibile, in quanto senza preavviso si è venuti meno ad una consuetudine da tutti accettata, ma non giustificabile: ha causato danni non solo all'impresario, ma soprattutto al pubblico, assolutamente incolpevole.

Matsu, mortificato, non può che convenirne, e scusarsi di non averci minimamente pensato.

E' evidente che la sua natura impetuosa è accompagnata da una grande sensibilità, sia pure a doppio taglio in quanto lo porta a reagire scompostamente ad ogni offesa, vera o presunta.

 


Sono passati già 10 anni. In quell'epoca, scandita dalle guerre, si sta celebrando la vittoria sulla Russia.

Una impresa che sembrava impossibile: un piccolo paese appena uscito dalla 'barbarie' aveva abbattuto al suolo il gigante russo, una delle grandi potenze mondiali.

I popolani in festa celebrano l'avvenimento, percorrendo la città in corteo alla luce delle lanterne di carta e dei fuochi d'artificio.

 

 

 

 

In realtà in questi 10 anni non sembra essere cambiato molto per Matsu.

Continua a percorrere la città in lungo ed in largo con il suo jinrikisha, e ha l'aria di non preoccuparsi di altro che del suo mestiere durante il giorno e dei molti divertimenti che offre Tokyo la sera.

Non sa che la sua vita sta per cambiare, e a causa di un episodio che gli appare inizialmente insignificante.

 

 

 

 

 

Un gruppo di monelli si è arrampicato su un albero e sta sbeffeggiando un bambino che non ha il coraggio di seguirli.

Abbiamo già visto che Matsu è un tipo che prende la vita di petto, nessuna meraviglia che inciti il bambino a fare lo stesso.

Deve vincere il suo timore e salire sull'albero, è con questa filososia - o assenza di filosofia - che bisogna affrontare gli ostacoli.

 

 

 

 

 

Il consiglio non si rivelerà ben dato. Ripassando nello stesso posto dopo aver svolto il suo servizio, abbiamo visto nella immagine precedente che stava trasportando i bagagli di una coppia, trova il bambino piangente per terra.

Ha tentato di arrampicarsi sull'albero ed è caduto malamente, riportando una forte distorsione ad una gamba.

Sia che si senta responsabile, ma più probabilmente per uno di quegli slanci di altruismo che lo accompagnano frequentemente, Matsu raccoglie il piccolo e si fa spiegare dai suoi compagni di gioco dove abita e chi sono i suoi genitori.

Poi, lasciato tutto il resto, lo riporta di persona a casa. Sulla porta è indicato solamente il nome del padrone di casa: Kotaro Yoshioka. La madre del bambino, preoccupata, gli chiederà di portarlo da un dottore per medicare le ferite e controllare lo stato della gamba.

La piccola famiglia è composta dal capitano dell'esercito Kotaro Yoshioka (Hiroshi Akutagawa), la moglie Yoshiko (Hideko Takamine) ed il piccolo Toshio (Kaoru Matsumoto).

Fortunatamente Toshio non ha nulla di serio, per quanto debba continuare a farsi controllare periodicamente dal dottore. Verrà quindi chiesto a Matsu di accompagnarlo col suo jinrikisha ogni volta che sia necessario.

Il capitano Yoshioka è curioso di sapere chi sia quel burbero omone entrato così improvvisamente ma benevolmente nella loro vita. Il nome Matsu non gli è nuovo, e compreso di chi si tratta non riesce a trattenere una risata.

Lo conosce, o perlomeno l'ha già incontrato.

Qualche tempo prima il famoso generale Oku era stato invitato a tenere un discorso ufficiale nella zona di Kokura, e il jinrijki incaricato di riportarlo indietro era proprio Matsu.

Urtato da quella che considerava una insinuazione ed una offesa alla sua professionalità, ossia che potesse non conoscere il percorso - cosa del resto ancora oggi normale in Giappone dove molto spesso le strade non hanno nome - Matsu aveva risposto in maniera molto pepata.

Lo stesso generale, avvezzo a trattare rigidamente e dall'alto in basso gran parte degli esseri umani con cui si trovava a confronto, dovette calmare i suoi ufficiali che pensavano seriamente di dover vendicare l'offesa: non era successo assolutamente nulla. Era anzi probabile che l'alto ufficiale, chissà, forse stanco di tante ipocrisie dettate dalla disciplina e dall'etichetta, fosse in cuor suo compiaciuto oltre che divertito dal comportamento rozzamente genuino di Matsu.

Matsu è ormai oltre che conducente abituale di Toshio nei suoi periodici viaggi dal dottore anche un amico di famiglia.

Si trattiene a volte a cena presso gli Yoshioka, cantando le sue canzoni ribalde, rinunciando tuttavia alle peggiori per riguardo nei confronti di Yoshiko, e chiacchierando amabilmente col capitano Kotaro.

Una sera questi si sente stanco, e chiede alla moglie di chudere le finestre mentre lui si corica: fa troppo freddo. Ma le finestre sono chiuse, e la casa è calda. Inoltre Kotaro ha una tosse preoccupante e la febbre alta, per quanto non lo voglia ammettere.

Mentre Matsu lascia la casa, con l'intesa che andrà a cercare del ghiaccio per far scendere la febbre del malato, si sentono le note del silenzio militare, scandite da una tromba.

Inagaki non ha alcuna intenzione di rallentare l'azione del film e prolungare la tensione, togliendole però intensità.

Arriva subito al dunque: nella scena sceguente Matsu, Yoshiko e Toshio stanno pregando sulla tomba di Kotaro, probabilmente portato via per sempre da un polmonite, malattia che all'epoca richiedeva un alto tributo di vittime.

La donna ed il bambino non hanno probabilmente alcun vero amico, essendo stati costretti a seguire le sorti di Kotaro assegnato di volta in volta in servizio in località diverse, senza poter mettere mai radici in alcun posto.

Matsu sente che in qualche modo quei due esseri umani fanno parte della sua famiglia, non potrà più abbandonarli.


Yoshiko è preoccupata soprattutto per le sorti del figlio, costituzionalmente timido e gracile quanto il padre era avventuroso e forte.

Matsu tenta di rassicurarla: per quanto si debba rendere conto dei suoi limiti culturali che lo rendono assolutamente inadatto ad assistere Toshio nel suo percorso scolastico e sociale, cercherà di dargli la forza interiore per superare ogni ostacolo.

Lo tiene costantemente sottocchio, cercando di passare sempre nei dintorni durante i suoi andirivieni . Un giorno lo scopre alle prese con un aquilone che non riesce a far decollare. Pianta immediatamente in asso il jinrikisha ed il cliente, che si esibisce in un buffo balletto per esprimere il suo sdegno, e si dedica a sciogliere il filo dell'aquilone.

Solo quando avrà risolto il problema riprenderà il suo posto tra le stanghe, senza che il distinto signore, intimorito dalla sua robustezza e dalla sua aria selvaggia, abbia il coraggio di continuare nelle sue proteste.

Da quel momento Matsu sarà una presenza costante accanto a Yoshiko e Toshio, premuroso e gentile quanto con il resto del mondo si è sempre mostrato scontroso ed irritabile.

Il suo obiettivo è di temprare Toshio, a costo di sottoporlo a prove che da solo non affronterebbe mai.

 

 

 

Con la sua grezza sensibilità naturalmente ha cura di accrescerne la fiducia aiutandolo a superare prove relativamente facili, ad esempio semplicemente mangiare una cipolla, cibo difficilmente gradito ai bambini.

Per la prima volta da chissà quando ha il coraggio di aprirsi, di rivelare qualcosa di se stesso: sì, anche lui ha pianto da bambino, e ne rivela le ragioni. 

Ma una sola volta, e da allora ha mantenuto la promessa di non piangere più.

 

 

 

 

Forse proprio la sua dura infanzia gli ha permesso di divenire un uomo forte (e ricordiamo che il significato di jinriki è proprio questo).

La forza di Matsugoro non è solamente fisica, ed emerge prepotentemente nelle frequenti occasioni di festa cui partecipa con l'entusiasmo di un bambino, provocando un certo imbarazzo iniziale nella compassata famigliola Yoshioka.

 

 

 

 

 

 

Lanciandosi senza esitazione nell'avventura di partecipare ad una gara podistica amatoriale, non lo fa però senza scegliersi una tattica adeguata.

Mentre gli altri concorrenti si danno battaglia, lui sembra attardarsi a salutare il pubblico, prendendosela comoda.

Sta in realtà solo mantenendo il ritmo di corsa che è abituato a tenere indefinitivamente, ben sapendo che gli altri si stancheranno ben presto e non avrà difficoltà a raggiungerli e poi superarli, pur con la sua buffa falcata e con le mani che stringono le stanghe di un immaginario jinrikisha.

Sarà naturalmente lui a riportare la vittoria, per consegnare trionfalmente il trofeo appena vinto a Yoshiko e Toshio.

 

Matsugoro non può fare nulla per aiutare Toshio nella sua crescita culturale, salvo aggirarsi intorno alla scuola per osservarlo dalla finesta - non visto - travolto dall'orgoglio quando lo vede in grado di rispondere correttamente ai professori.

Ma il suo incessante lavoro volto a fortificarne l'animo avrà i suoi effetti.

Toshio avrà il coraggio il coraggio di affrontare anche il pubblico e durante la recita scolastica di fine anno la canzone tradizionale da lui cantata riscuote grande successo.

La gioia di Yoshiko è come sempre misurata. Quella di Matsugoro è come sempre tangibile, e sarebbe perfino esplosiva se non dovesse contenersi suo malgrado.

 

In un susseguirsi di eventi che Inagaki mostra allo spettatore seguendo il filo delle feste tradizionali, gli anni passano e Toshio (ora interpretato da Kanji Kasahara) è oramai quasi adulto.

Matsugoro continua ad essere al suo fianco, anche fisicamente: la rivalità tra le scuole rivali sfociava spesso in scontri organizzati, ma i pur battaglieri studenti vengono facilmente sgominati da Matsu il selvaggio, sempre pronto ad intervenire quando vede il suo figlioccio in difficoltà.

Ma ben presto Toshio dovrà partire: deve continuare altrove i suoi studi.

 

 

 

Nella grande casa Yoshiko rimane sola. Ha chiesto a Matsugoro di continuare ad aiutarla, ma gli anni continuano a passare senza che nessuno dei due abbia il coraggio di rinunciare ai propri vincoli.

Yoshiko intende restare fedele alla memoria del marito. Ha anche rifiutato una vantaggiosa proposta di matrimonio.

Matsugoro è legato per sempre alla propria scelta di emarginarsi dalla società, dandole e ricevendone solamente lo stretto indispensabile.

Non troverà mai il coraggio di dichiarare a Yoshiko il proprio amore.

 


Toshio sta ancora crescendo, mentre le persone cui è più legato stanno declinando. E' la legge della natura.

Quando torna per le vacanze è quasi un uomo maturo, ed è accompagnato da uno dei suoi professori, che intende partecipare alla festa di Kokura, avendo sempre avuto desiderio di ascoltare il famoso suono del tamburo Gion Daiko.

Matsugoro lo avverte, non sarà possibile: nessuno è più capace di eseguire quel ritmo, dovrà contentarsi del tamburo Kaeru.

 

 

 

 

Se, come abbiamo detto, Inagaki utilizza spesso le feste come una sorta di sipario che scandisce l'intervallo tra una scena e l'altra ed allo stesso tempo come un fondale teatrale in cui si svolge l'azione vera e propria, dobbiamo anche ammettere che lo fa con mano particolarmente felice.

I cultori e gli appassionati della cultura giapponese non possono che essergliene grati.

Riesce a mostrare la peculiarità delle feste giapponesi, pur mostrando gesti e situazioni che potremmo tranquillamente immaginare in qualunque sagra di paese nostrana.

 

 

 

Sappiamo già che Matsugoro adora le feste e ama lasciarsene coinvolgere.

Sappiamo anche che ha molti talenti nascosti, e quello di suonatore di tamburo (taiko) è tra i più apprezzabili.

Chiede ai cerimonieri di poter fare la sua prova, e la proposta viene accettata con allegria, nello spirito della festa.

Sorprendentemente per tutti però Matsugoro si rivela un autentico maestro nell'eseguire il Kaeru.

 

 

 

 

Ma è solo l'inizio.

Di fronte alla folla strabocchevole ma ammutolita prima ed entusiasta poi esegue il Gion Daiku, che aveva spiegato al professore significare Tamburo furioso.

Si tratta in realtà a quanto sembra di due parti ben distinte, il tamburo furioso ed il tamburo selvaggio.

E naturalmente nessuno potrebbe essere all'altezza di Matsu il selvaggio nella sua esecuzione.

 

 

 

 

Inagaki fa intervenire un personaggio di contorno per rendere esplicito al pubblico quanto è avvenuto.

L'anziano signore, che ha tutta l'aria di essere un fine intenditore, sostiene a viva voce di essere incredulo.

Di non avere mai creduto possibile che qualcuno potesse eseguire quel pezzo in epoca moderna, e che un tale talento potesse nascondersi nella festa di quartiere di Kokura.

 

 

 

 

 

E' questo il canto del cigno di Matsugoro il selvaggio.

Toshio è ripartito.

Yoshiko è tornata sola nella casa, troppo grande per lei e troppo piccola per chiunque altro.

Vi è ancora presente infatti il ricordo di Kotaro, cui lei intende mantenersi fedele.

 

 

 

 

 

 

Un ricordo che incombe anche su Matsu.

In un ultimo colloquio con Yoshiko, avverte la tentazione quasi irresistibile di dichiararle il suo amore.

Ma se ne vergogna, non può fare a meno di confessarlo come un 'pensiero impuro', di cui dovrà chiedere perdono allo spirito della persona cui ha solennemente promesso il suo impegno disinteressato.

Yoshiko, intimorita dall'accenno di rivelazione, ma forse più per timore dei propri sentimenti che per quelli di Matsugoro, non sa cosa rispondere.

I due non si rivedranno mai più.

 

 

Nonostante la sua spavalderia e la sua innegabile forza interiore, che gli hanno permesso di superare indenne molte difficili prove, questa sarà fatale per Matsu il selvaggio.

Riprenderà a bere, incapace ormai di trovare un senso alla sua vita.

Le ruote del suo jinrikisha continuano a scorrere come sempre lungo percorsi decisi da altri.

Ora, mentre si rende conto che malgrado ogni sforzo anche la vita scorre indipendentemente dalla sua volontà, la sua forza d'animo gli viene meno.

 

 

 

 

In una fredda serata d'inverno si trascinerà lungo le strade deserte, stringendo la sua bottiglia, unica compagna.

La morte lo coglierà là.

La mattina sarà uno dei bambini che giocano innocentemente per strada, uno di quei bambini che lui tanto adorava, a scoprire il suo corpo gridando 'Guardate: Matsu dorme!'

 

 

 

 

 

 

Sì, Matsu il selvaggio si è addormentato, sognando.

L'ultima visione che gli è apparsa, mentre tornava per sempre bambino, è stata quella di una moltitudine di palloni colorati che salivano verso il cielo, in occasione della ennesima splendida festa.

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo la sua morte  Shigezo Yuki, il mediatore, si recherà da Yoshiko per farle conoscere le ultime volontà dell'uomo del ricsciö.

Ha scrupolosamente messo da parte tutto il denaro che prima Kotaro e poi Yoshiko gli hanno dato per le sue prestazioni, una somma considerevole, e vuole che venga utilizzato per assicurare una serena esistenza a Toshio.

Ha agito solamente per amore.

Nella sua casa ormai vuota penetra il freddo dell'inverno.

Alla parete è ancora appesa la stampa raffigurante una giovane donna, che gli era stata regalata per incitarlo a prendere moglie, e che lui celiando amaramente definiva la propria consorte.

A Mauro, cui non ho potuto dare la gioia di rivivere assieme questa epopea.

 

Hiroshi Inagaki: Miyamoto Musashi
1954-56
Toshiro Mifune, Rentaro Mikuni, Kaoru Yachigusa, Koji Tsuruta

Hiroshi Inagaki (1905-1980), per quanto non abbia raggiunto in occidente la notorietà di Akira Kurosawa, ha avuto un percorso artistico simile.

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Hayao Miyazaki: La principessa Mononoke

1997

Scriveva Hayao Miyazaki nel 1995, presentando la sua proposta di realizzazione dell'opera cui intendeva dare il nome di Ashitaka setsuki (La storia di Ashitaka):

Scopo del progetto:  Raffigurare ciò che costituisce l'immutabile base dell'esistenza umana attraverso i secoli, sovrapponendo l'attuale era, che sta attraversando cambiamenti verso il ventunesimo secolo, con la confusa era Muromachi, che si svolse durante il processo di mutamento dal collasso del sistema medioevale all'era moderna. Un dramma storico intessuto del seguente ordito: il combattimento tra gli uomini e i Mononoke per ottenere la testa del dio-animale, Shishi Shin, e dalla seguente trama: l'incontro e la liberazione tra la ragazza che era stata allevata dagli Inugami (dei cane) e odia gli umani ed il ragazzo che è sottoposto ad una maledizione mortale. .... Alla fine, la ragazza dirà al ragazzo: "Ti amo, Ashitaka. Ma non posso perdonare gli umani." Sorridendo, il ragazzo dovrebbe dire: "Va bene. Vivi con me." Voglio fare un film così.

Potete consultare qui il testo completo, in italiano.

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Akira Kurosawa: Ran

1985

Tatsuya Nakadai, Akira Terao, Jinpachi Nezu, Daisuke Ryu, Mieko Harada, Yoshiko Miyazaki, Peter

Se nelle opere gendai Aikira Kurosawa aveva a più riprese dato sfogo ad un pessimismo senza rimedio, in quelle jidai si era sapientemente tenuto in equilibrio tra storie marcate da profonda delusione verso il genere umano ma in cui il male trovava sempre la sua punizione (Rashomon o Il trono di sangue per fare solo due esempi) ed altre sia pure venate da un velo di malinconia, talvolta da aperto cinismo, in cui era il bene a trionfare (I sette samurai, La fortezza nascosta, Yojimbo, Sanjuro).

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Akira Kurosawa: Kagemusha (L'ombra del guerriero)
1980
Tatsuya Nakadai, Tsutomu Yamazaki, Kenichi Hagiwara, Daisuke Ryu, Masayuki Yui, Kota Yui, Takashi Shimura

 

Nel preambolo dell'opera appaiono 3 uomini, identici nell'aspetto e nei vestiti, di cui uno in posizione preminente accanto alla sua spada, evidentemente il signore del luogo. Uno al suo fianco e l'ultimo, in atteggiamento scontroso e dimesso, ai suoi piedi. Sono il grande generale Takeda Shingen (1521-1573 circa) conosciuto come la tigre del Kai - il suo feudo - suo fratello Nobukado che spesso confonde amici e nemici assumendo le vesti e l'identità di Shingen, ed un  ladro di cui non conosceremo mai il nome, strappato da Nobukado all'esecuzione per la straordinaria somiglianza col fratello, che solo lui ha notato: sarà un nuovo e perfetto kagemusha, ombra del guerriero. Si sostituirà al signore ogni volta che verrà ritenuto opportuno, dopo aver ricevuto un lungo e meticoloso addestramento che lo prepari ad ogni evenienza.

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Akira Kurosawa: Akahige

1965

Toshiro Mifune, Yuzo Kayama

Dal romanzo Akahige shinryotan, di Shugoro Yamamoto

 

Il ritratto di Akahige è di Mauro Cerri

Altre opere sono visibili sul suo sito.

Poco prima dell'epoca Meiji, nella prima metà dell’800, un giovane di casta samurai, Noboru Yasumoto, ha terminato gli studi di medicina. Il suo curriculum è brillante e gode di buoni appoggi, e il suo scopo è di diventare medico di corte.

Ma dopo essersi brillantemente diplomato viene con sua sorpresa assegnato per il periodo di pratica ad un oscuro ospedale in un quartiere malfamato, burberamente diretto dal dottor Niide soprannominato Barbarossa (Akahige). Lì scoprirà suo malgrado che la missione del medico è di curarsi dei più deboli e non di salire la scala sociale.

Dopo un lungo e durissimo praticantato rifiuterà la “promozione” guadagnatasi proprio col servizio degli umili, e chiederà di rimanere con l’imbarazzato Akahige, che non sapendo come esprimergli la propria gratitudine se la caverà con una burbera alzata di spalle, allontanandosi senza dir nulla.

Protagonista assoluto dell'opera, nella parte di Akahige, è Toshiro Mifune. Contro la volontà dello stesso Kurosawa, che per questa ragione ruppe definitivamente i rapporti con lui. D'altra parte lo stesso Kurosawa, nella sua autobiografia, spiega che l'unico modo per impedire a quello straordinario attore di impadronirsi del centro della scena era di non farlo apparire del tutto.

Barbarossa avrebbe dovuto essere una figura con molte sfaccettature, non priva di lati negativi, e l'opera avrebbe dovuto essere corale, senza alcuna figura che spiccasse troppo pù delle altre.

Mifune fece al contrario di Akahige, e non è facile comprendere come sia riuscito ad imporsi nonostante tutto, un eroe. L'opera racchiude ugualmente le vicende di numerosi personaggi, ma è soprattutto la storia di Akahige e Yasumoto.

Normalmente poter identificare una precisa figura di protagonista è proprio quello che chiede il pubblico, il film tuttavia fu un fiasco e segnò l'inizio di una lunga fase di inattività di Kurosawa, che dal 1942 al 1965 aveva già girato tredici delle sue trentuno opere ma dopo Akahige dovette attendere ben dieci anni prima di poter riprendere, e dovette accettare di lavorare all'estero - in Unione Sovietica - essendo completamente discreditato agli occhi dei produttori giapponesi.

Non è facile comprendere i motivi di questo fallimento. Per la prima volta - e rimase l'ultima - Kurosawa tentava di mescolare le sue tematiche preferite: l'epicità, la grandiosità e la meticolosità che traspare dalle opere jidai incentrate su grandi figure di uomini straordinari - nel bene, nel male o sospesi tra l'uno e l'altro - ed il crudo realismo, la denuncia sociale che furono la costante delle sue opere gendai, quasi sempre rigorose ed impietose analisi di microcosmi popolati di piccoli personaggi e derelitti che hanno rifiuutato la società o ne sono stati rifiutati.

E' possibile che questo tentativo di mescolare i due generi abbia disorientato pubblico e critica, che hanno accolto quasi sempre con entusiasmo le opere jidai ma si sono dimostrati più tiepidi nei confronti di quelle gendai, fatta eccezione per Ikiru (Vivere) considerata da molti il suo capolavoro.

Certamente Akahige non è completamente all'altezza delle ambizioni dei suoi realizzatori. Kurosawa probabilmente si è dilungato troppo anche ove sarebbe bastato accennare, lasciando allo spettatore il compito non difficile di ricostruire quanto che non veniva esplicitamente dichiarato, eppure non si può assolutamente dire che sia un fallimento. Affascina ed inchioda alla sedia, se si ha il coraggio - che indubbiamente è necessario - di accettare la visione di immagini e di situazioni sgradevoli e la pazienza di adattarsi ad una certa lentezza dell'azione scenica.


La vicenda è tratta da Akahige shinryotan, raccolta di racconti di Shugoro Yamamoto (1903-1967). Noboru Yasumoto ha appena terminato tre anni di studio a Nagasaki, nel corso dei quali ha appreso i segreti della medicina occidentale seguendo l'insegnamento dei medici al servizio della delegazione commerciale olandese di stanza nell'isola artificiaile di Dejima, con assoluta proibizione di uscirne.

Era quello l'unico luogo in tutto il Giappone in cui era possibile durante l' epoca Edo - 1600-1868 - venire a contatto con degli stranieri, apprendere le loro conoscenze ed il loro linguaggio ed esaminarne i testi.

Yasumoto (interpretato da Yuzo Kayama) crede che la visita all'ospedale si un semplice atto di cortesia richiestogli dal padre per deferenza verso un vecchio amico. Sarà invece una esperienza che per quanto dura e inizalmente perfino traumatizzante cambierà il corso della sua vita facendone un vero uomo ed un vero medico.

Yasumoto è destinato in realtà a rimanere diversi anni nel lazzaretto di periferia, chiamarlo ospedale sarebbe troppo, di cui varca le porte un giorno. Ad introdurlo - introducendo allo stesso tempo lo spettatore - è il medico a cui darà il cambio, Genzo Tsugawa.

Cinico e ribelle, non è mai riuscito ad andare d'accordo con Barbarossa, a suo parere un idealista privo di senso della realtà.

 

 

 

Si è fatto carico dell'impossibile compito di tutelare la salute di un campionario di derelitti senza speranza, sporchi e malnutriti, maleodoranti di un disgustoso odore di frutta marcia: l'odore della povertà.

Nemmeno Yasumoto riesce a comprendere le ragioni del comportamento di Barbarossa, che pure sembrano evidenti ad una mentalità "moderna".

Contrariamente alle tradizioni i malati vengono alloggiati nell'ala sud, ove possono godere un po' di sole, mentre gli alloggiamenti dei medici - che si considerano classe privilegiata - sono al nord, esposti all'umido e al buio. Gli scarsi fondi vanno utilizzati con oculatezza, quindi i medici consumano i loro pasti in comune e le loro stanze non sono riscaldate.

Ed è durante uno di questi pasti che il primario burberamente si presenta: il suo soprannome è giustificato, oltre che dalla barba rossiccia che gli adorna il volto e dietro cui tenta invano di nascondere le sue trasparenti emozioni, dalla difficoltà di pronunciare un nome "che fa inceppare la lingua": Kiojo Niide.

Entra subito nel vivo della questione. Yasumoto non è venuto solamente a portargli i saluti del padre: prenderà servizio da subito, i suoi bagagli arriveranno tra poco in quanto tutto è stato accuratamente preordinato a sua insaputa per fargli immediatamente iniziare l'apprendistato nel lazzaretto.

I suoi preziosi appunti, ove sono racchiusi i metodi terapeutici dei medici olandesi, dovranno essere messi a disposizione di Akahige. Yasumoto ribatte che gli appunti sono suoi, nessuno può appropriarsene, ma è un dialogo tra sordi: secondo Akahige la medicina non può essere proprietà esclusiva di nessuno, deve essere al servizio di ogni malato, indistintamente.

La prima reazione di Yasumoto è quella di chiudersi in un ostinato mutismo. Poi di fuggire; ma qualcosa che nemmeno lui riesce a comprendere lo costringe ad arrestarsi, a restare.

Infine decide di boicottare apertamente Barbarossa, rifiutando di seguire le sue direttive ed anzi mostrandosi apertamente provocatorio nella sua disobbedienza.

Non immagina che non sarà Barbarossa a ridurlo alla ragione: sarà l'impietosa realtà della vita del dottore impegnato nel suo naturale campo di battaglia: in mezzo alla gente che soffre. Non sarà mai l'elegante medico di corte di annoiati aristocratici.

 


 

Yasumoto ha bisogno di annientare le sue convinzioni e le sue aspettative prima di poter accettare quanto gli viene imposto. Non è assolutamente in grado di rendersi conto della necessità di questo trauma salutare. Una serie di umilanti sconfitte lo porterà a comprendere la debolezza che si cela dietro il suo orgoglio professionale, ma proprio questo orgoglio, finalmente asservito ad una giusta causa, gli darà la forza di risorgere.

Una delle pazienti dell'ospedale viene tenuta in isolamento dentro un edificio isolato, ove solamente una infermiera può avere accesso. Si dice di lei che sia bellissima, e che abbia già ucciso tre uomini attirandoli tra le sue braccia per poi trafiggerli col kogai, lo spillone che le donne giapponesi portavano tra i capelli.

Nei momenti di ozio dovuti al suo ostinato "sciopero" Yasumoto ottiene altre informazioni dall'infermiera. La ragazza ha avuto una infanzia travagliata, ed è stata vittima degli uomini.

L'interesse di Yasumoto travalica probabilmente quello professionale. La storia indubbiamente lo intriga, e la bellezza della ragazza, per quanto solo intravista da lontano mentre si dibatteva in preda ai suoi tormenti, lo attrae.

Un giorno viene dato l'allarme: approfittando in un attimo di disattenzione dell'infermiera la ragazza è fuggita.

Non poteva andare lontano, e d in cerca di un rifugio è arrivata proprio nella stanza di Yasumoto (è interpretata da Kyoko Kagawa, una delle attrici più utilizzate da Kurosawa).

 

 

 

 

 

 

Lui ascolta affascinato il torrente di parole della donna, che gli narra di una vita di sofferenze.

E' stata vittima di tutti gli uomini che ha conosciuto, che l'hanno presa con la violenza e le minacce, fin da quando era solamente una bambina.

 

 

 

 

 

 

Quando lei gli si getta tra le braccia Yasumoto non tenta nemmeno di fermarla.

Ma si si ritrova in un attimo legato, senza che si renda conto di come sia successo, e la ragazza, estratto lo spillone, vince con una forza sovrumana ogni sua resistenza e lo trafigge sul collo.

Solo l'intervento provvidenziale ed in extremis di Akahige, che alla ricerca della donna capita per caso nella stanza, salva Yasumoto dalla morte.

 

 

Ferito nel corpo ed umiliato nell'orgoglio, Yasumoto ha iniziato solo a scalfire la superficie della verità. Dovrà essere ancora umiliato ripetutamente, non da uomini o circostanze esterne, ma da se stesso e dalla sua assoluta immaturità, prima di poter iniziare la risalita.

Akahige chiede - non appena è guarito dalla ferita - il suo parere professionale su un malato, il morente Kokusuke: un valente artigiano da tutti rispettato.

E' secondo Yasumoto un evidente caso di tumore intestinale, giunto all'ultimo stadio. Akahige dissente: quella è l'origine della malattia, non la causa: le malattie degli uomini sono dovute spesso a cause di sofferenza morale e materiale di cui la malatta è solo un sintomo.

E se ne va, richiamato altrove da un'urgenza, chiedendogli di vegliare gli ultimi istanti del moribondo: la morte è il momento più solenne nella vita di un essere umano, Yasumoto deve assisterlo in questo momento supremo.

L'agonia di Kokusuke è terribile: Yasumoto sente che non potrà resistere.

L'intervento d'emergenza cui è stato chiamato il primario richiede altrove anche lui, con suo grande - ma temporaneo - sollievo.

Akahige sta operando d'urgenza una operaia ferita in un incidente sul lavoro.

Ha una grave ferita all'inguine che va ripulita e suturata, e l'operazione ovviamente, non esistevano veri e propri anestetici all'epoca, va eseguita mentre è pienamente cosciente, causandolei insopportabile sofferenza.

 

 

L'incarico di Yasumoto è semplicemente di tenerla ferma per permettere ad Akahige a all'assistente Mori, figura positiva che lo ammira incondizionatamente e vorrebbe emularlo, di portare a termine l'operazione.

Yasumoto non regge: sviene.

Ha toccato oramai il fondo. Sta a lui se desistere, e restarvi, o se affrontare la risalita.


Non è ben chiaro per quale ragione Yasumoto decida improvvisamente di avere fatto abbastanza sciocchezze e che è arrivato il momento di dimostrarsi all'altezza degli eventi.

Come spesso succede, il momento cruciale coincide con un cambiamento radicale dell'approccio mentale. Fino ad allora Yasumoto è stato un elemento passivo, sballottato qua e là dalla volontà di altre persone, in balia di eventi non controllabili, nemmeno prevedibili. Ora è lui a riappropriarsi del proprio destino. E' finalmente lui a decidere cosa deve o non deve fare.

Il suo stesso passo, quando arriva alle spalle del collega Mori, è più deciso del solito. Il suo tono è perentorio: "Ci vado io!".

 

Il suo primo intervento è al capezzale di Sahachi, il personaggio più popolare dell'ospedale.

Nonostante la malattia che lo sta portando verso una morte inesorabile, non cessa di lavorare per poter guadagnare qualcosa.

Allevia così, comprando cibo e medicine, la sorte dei suoi compagni di sventura, che si affollano ora davanti alla sua stanza implorando Yasumoto di fare qualunque cosa pur di salvarlo.

Il giovane dottore è anche testimone dei fantasiosi ed anticonvenzionali metodi escogitati da Akahige per procurarsi fondi, quando le autorità decidono di restringere ancora di più i già limitati finanziamenti.

I prezzi delle sue visite private - riservate a personaggi altolocati e benestanti che si fidano solo di lui, vanno alle stelle. Il ricavato va invariabilmente a soccorrere questo o quel disgraziato, o direttamente nelle casse dell'ospedale.

Tre le vittime di Akahige ci sono persone tutto sommato comprensive, che protestano timidamente, qualche volta anche con ironia, ma si rendono ben conto delle ragioni superiori che spingono Akahige a spennarli senza complimenti.

Nella parte di uno di loro ritroviamo brevemente l'attore che ha accompagnato Kurosawa praticamente in ogni sua opera, dalla prima Sugata Sanshiro a quelle dell'immediato dopoguerra con Tora no ofumu otokotachi (1945) fino a Kagemusha (1980): Takashi Shimura.

Un'altro cliente di Akahige è l'obeso principe Matsudaira, cui viene con un pizzico abbondante di sadismo prescritta una rigorosissima dieta: al corpo, che ne ha urgente necessità, ma anche e soprattutto al portafoglio.

Ne ha molto più bisogno di lui il dottore, per soccorrere chiunque capiti sotto la sua ala burbera e protettrice.

 

 

 

 

 

Ma la vicenda che veramente illumina il cuore di Yasumoto, la mente si era già aperta, è quella di Otoyo.

Nel suo periodico giro di visite Akahige incontra la tenutaria di un bordello (Akemi Negishi, già apparsa in Vivere nella paura come giovane amante del protagonista, e che ritroveremo in Dodes'ka-den).

Attrice apprezzata per la sua avvenenza, qui riesce ad apparire come una autentica megera, che Akahige tratta senza complimenti.

Trattiene praticamente prigioniera, con la scusa di averla salvata dalla miseria, una orfanella di 12 anni, Otoyo appunto (Terumi Niki), in attesa di sfruttarla nel bordello.

Akahige mostra qui la sua stretta parentela con altri personaggi di Kurosawa, in particolare col misterioso samurai protagonista sia di Yojimbo che di Sanjuro.

Minacciato da una numerosa banda di malviventi, prezzolati dalla tenutaria per intimorirlo, dopo averli ammoniti a guardarsi dai cattivi dottori - di cui lui è il classico esempio - li riduce tutti a mal partito in un batter d'occhio, affrontandoli a mano nuda e lasciando dietro di sé un'autentica strage.

Ma non solo: provvede anche a prestare loro le cure del caso, rammaricandosi con un sospetto di ipocrisia: "Questo l'ho ridotto proprio male...".

Ed infine se ne va. Yasumoto, che porta sulle spalle la piccola Otoyo malata è allibito quanto ammirato: le risorse di Akahige sembrano sconfinate.

Dopo avere con infinita delicatezza tentato assieme ad Akahige di superare l'animalesca diffidenza di Otoyo, troppo ferita dagli esseri umani per avere ancora fiducia in loro, Yasumoto si ammala a sua volta.

Sarà la volta di Otoyo a vegliarlo, cadendo addormentata sui testi di medicina: ha deciso, vuole anche lei diventare dottore, e curare gli infelici.

Questo episodio è ispirato alla figura di Nelly che appare nel romanzo Umiliati ed offesi di Fyodor Dostoevsky.


L'intrico di vicende umane recitate dal coro di questa tragedia giapponese non può essere integralmente riportato senza confondere il lettore. Accenniamo brevemente solo agli episodi principali.

Sahachi, lo stakanovista che ignora il suo male per aiutare il prossimo, ha un segreto: innamorato perdutamente di una giovane di umili condizioni, arriva finalmente a sposarla dopo avere vinto una sua inspiegabile resistenza.

Ma dopo un devastante terremoto, non riesce a trovarla tra le macerie: è scomparsa.

In questo episodio Kurosawa ricostruisce la terribile esperienza avuta quando fu condotto dal fratello Heigo tra le rovine del terribile terremoto del Kanto nel 1923, come riporta nella sua autobiografia.

La ritroverà per caso anni dopo, con un piccolo assicurato sulla schiena: un figlio avuto da un altro. Era infatti promessa sposa con un giovane che aveva sempre aiutato la sua famiglia a sorpavvivere.

L'amore era stato temporaneamente più forte di ogni cosa, ed era fuggita per vivere con Sahachi.

Ma la voce del dovere aveva era tornata a prendere il sopravvento, ed era volontariamente scomparsa per mantenere la sua promessa, sprando che Sahachi la credesse morta e trovasse pace.

 

Rivedere Sahachi è stato troppo: non può vivere senza di lui.

Chiede ed ottiene di essere uccisa. Il suo scheletro verrà alla luce poco prima della morte di Sahachi, da uno smottamento del terreno.

Verranno seppelliti assieme.

 

 

 

 

 

L'artigiano Kokusuke, che abbiamo visto vittima di un tumore intestinale, era solo, nessuno lo veniva a trovare e sembrava non avere parenti.

Si presenta ora la figlia a rivederlo per l'ultma volta, accompagnata da tre bambini affamati ed impauriti.

Ha anche lei una terribile storia da raccontare: la moglie di Kokusuke aveva un'amante, che per avere occasione di starle vicino a suo piacimento riuscì ad ottenere di sposare lei. Rovinato dall'uomo che gli aveva distrutto e portato via la famiglia, Kokusuke era rimasto solo.

 

Morta la madre, la donna si era da poco finalmente ribellata, ed aveva aggredito il marito, violento ed ubriacone, tentando di ucciderlo.

Per salvare la donna ed i tre innocenti bambini Akahige non esiterà a mostrare il "peggio" di sé. Addomesticherà il questore di polizia, in modo da ridurre al minimo le conseguenze del ferimento, e buona parte dei proventi delle sue esosissime visite private servirà ad assicurare una dignitosa rendita alla famigliola, che verrà sistemata presso due vecchi coniugi di buon cuore.

 

Chobo è un ladruncolo che si aggira nell'ospedale per rubacchiare del cibo in cucina.

 

Sveltissimo ed inafferrabile, è l'incubo delle inservienti, che non riescono mai ad acciuffarlo.

Tentando di prenderlo in trappola, Yasumoto ed una inserviente ascoltano inosservati un colloquio tra Chobo ed Otoyo.

 

 

 

Il piccolo, che ha solo sette anni e che con le sue ruberie mantiene l'intera famiglia, ha rubato dei lecca lecca per farne dono ad Otoyo, che non vuole prenderli.

Infine, commossa dell'affetto del bimbo, li accetta, ma solo per renderglieli immediatamente.

Chobo non ha mai avuto il piacere in vita sua di godersi un piccolo piacere, è bene che li divida con i fratellini.

 

 

 

Chobo (Yoshitama Zushi, che sarà pochi anni dopo protagonista di Dodes'kaden) viene poco tempo dopo ricoverato nell'ospedale con tutta la famiglia.

I genitori hanno preso la terribile decisione di morire tutti quanti assieme per porre fine ad una vita di sofferenze, hanno avvelenato se stessi ed i figli.

Sono destinati a perire tutti, rimane solo un'esile speranza per Chobo: Akahige spiega alle inservienti che potrà sopravvivere se passerà la notte.

 

 

Le inservienti, ed Otoyo in prima fila, passeranno il resto della notte ad invocare il nome di Chobo nel pozzo dell'ospedale.

E' credenza giapponese che i pozzi arrivino fino al centro della terra, e che da lì si possano richiamare indietro le anime destinate all'oltretomba.

Infine Chobo passerà la nottata: vivrà.

 

 

 

 

 

Un'ultima piccola tempesta in un bicchiere d'acqua viene a turbare la ormai tranquilla quotidiana esistenza dell'ospedale, avvezzo a tanti piccoli o grandi drammi.

Si ripresenta la tenutaria, chiedendo indietro Otoyo, che il dottor Akahige non ha alcun diritto di tenere con sé.

Per una volta in difficoltà, ha bisogno di infuriarsi per rendere la pariglia e quel giorno non è in vena, Akahige viene tolto d'impaccio dalle infermiere, che vanno per le spicce.

 

 

Afferrati alcuni daikon, i ravanelli giganti onnipresenti in ogni cucina giapponese, non esitano ad utilizzarli per bastonare sonoramente la tenutaria, che batte in ritirata pesta ed ammaccata: si può essere ragionevolmente sicuri che non si farà più vedere da quelle parti.

E Akahige? Scrolla le spalle, altra caratteristica che sembra avre ripreso da Sanjuro, si liscia i baffi. E se ne va.


Yasumoto è ormai perfettamente integrato nell'ospedale. Già da molto, dopo lunga resistenza, aveva deposto l'abito del samurai per indossare il camice del dottore, accolto festosamente dalle inservienti.

Si era reso conto che quello che gli diceva il collega Mori era vero. Essere riconosciuto dappertutto come dottore dell'ospedale pubblico, anche dall'abito, senza doversi presentare, gli avrebbe permesso di venire a conoscenza di casi che altrimenti nessuno avrebbe avuto il coraggio di esporgli non essendo in grado di pagare alcuna parcella.

 

Ora è stato convocato in famiglia: i suoi genitori hanno deciso, come d'era d'uso a quel tempo e nelle famiglie tradizionali si usa ancora adesso, che è giunto il momento per il loro figlio di "sistemarsi".

Gli hanno quindi scelto una moglie, e predisposto tutto per il matrimonio. Yasumoto non è del tutto contrario, la prescelta nonostante tutto gli andava a genio, ma è la sorella della protagonista di una precedente esperienza sfortunata. Però le sue proteste ora sono più di circostanza che convinte.

 

Prima di procedere con la cerimonia c'è ancora qualcosa - e molto importante - da regolare. Yasumoto è stato chiamato a prendere servizio a corte, di lì a poco, su raccomandazione del futuro suocero.

Ebbene, intende rinunciare: vuole rimanere all'ospedale al fianco di Akahige. La sua futura sposa senza rispondere nulla si inchina: acconsente alla volontà del compagno della sua vita, ha già iniziato ad apprezzarlo.

 

 

 

Una sorpresa attende Yasumoto: la dama d'onore, che presenta il sake rituale, è proprio la sua vecchia fiamma. Quella che l'abbandonò per un altro, originando in lui un lungo periodo di avversione e timore verso le donne.

Al di là degli schermi scorrevoli piove nel giardino. I ciliegi sono già in fiore, ma la neve ne imbianca ancora i rami...

Ad attenuare la pesantezza delle molte vicende narrate nella trama Kurosawa ha deciso che ora deve arrivare un lieto fine a 360 gradi. Yasumoto è contento di vederla, e lieto che questo incontro ufficiale le permetta anche di riconciliarsi con i genitori, che avevano rotto i rapporti con lei dopo che aveva mancato alla parola data.

Ma Akahige, è d'accordo sul lieto fine? Non si direbbe: sbuffa e rimbrotta Yasumoto. Lo rimprovera di avere gettato al vento una occasione unica.

Per la prima volta da quando si sono incontrati, invece di un brusco rifiuto o una pronta accettazione, tra Yasumoto ed Akahige corre un rapporto dialettico.

Yasumoto fa presente che sta semplicemente applicando i principi trasmessigli dal dottore.

 

 

"Ma cosa le fa credere che ci sia bisogno di lei?", ribatte un urticante Akahige.

"Questo me l'ha fatto capire proprio lei. Altrimenti perché mi avrebbe insegnato ad essere un vero dottore?", risponde Yasumoto.

 

 

 

 

 

 

Cosa fa allora Akahige? E cosa vi aspettate che faccia? Scrolla le spalle, si liscia i baffi, e se ne va senza dire nulla.

Il coinvolgente tema musicale (Masaru Sato vi ha inserito tra l'altro splendide musiche di Haydn e Beethoven) accompagna le sequenze finali.

Il lieto fine non servirà: pubblico e critica respingeranno unanimi Akahige.

Ci auguriamo di avere convinto il lettore che hanno avuto torto.

Akira Kurosawa: Tsubaki Sanjuro

1962

Toshiro Mifune, Tatsuya Nakadai, Yuzo Kayama, Takashi Shimura

 

 

Incontriamo di nuovo il samurai vagabondo già protagonista l'anno precedente di Yojimbo (guardia del corpo) conosciuto col titolo italiano di La sfida del samurai. Si fa chiamare ora Sanjuro Tsubaki, mentre prima era Sanjuro Kuwabatake ma anche questo è uno pseudonimo: una nobile signora un po' svanita appena salvata da un assalto di malviventi gli chiede di presentarsi.

Il protagonista (Toshiro Mifune), evidentemente ricordandosi delle buone maniere che in un passato oscuro non dovevano essergli estranee, non riesce a dire di no; si trova in quel momento all'ombra di una camelia (tsubaki) e inventa lì per lì di chiamarsi Tsubaki Sanjuro: Camelia Trentenne.

Tatsuya Nakadai interpreta sinistramente quanto magistralmente la parte del feroce samurai Hanbei Muroto, che viene cruentemente ucciso da Sanjuro nel catartico duello finale. La tecnica di estrazione usata da Sanjuro ha fatto scalpore e la ritroviamo perfino in ponderosi tomi di arti marziali, I segreti dei samurai di Oscar Ratti fra tutti. Dobbiamo però disilludere quanti vi hanno prestato fede: si tratta di un trucco cinematografico, l'estrazione della spada con la mano sinistra mostrata nel film è assolutamente irrealistica.

Quindi Kurosawa si prende una vacanza per la seconda volta nel giro di poco più di un anno, rinunciando anche al suo proverbiale realismo?

L'insistenza suglii stessi due attori in antagonismo, Mifune e Nakadai, il ripetersi delle stesse situazioni nell'uno e nell'altro film, un certo tono disincantato infine lasciano pensare ad una garbata presa in giro di Kurosawa; diversi indizi porterebbero a sospettarlo.

Ma sarà veramente così?

Ancora molti anni dopo Tatsuya Nakadai, in una lunga intervista, si concede e ci concede delle riflessioni molto profonde sul personaggio di Muroto, che evidentemente è tra quellii che più hanno lasciato il segno in lui.

Ricorda infatti che Hanbei Muroto viene definito da Sanjuro, dopo averlo ucciso nel cruento duello finale, un nukimi: una “spada nuda”. Nakadai spiega che si tratta di un tipico modo di dire samurai, che indica la persona che non riesce a stare nel suo “fodero”, lasciando uscire dall’animo quanto dovrebbe rimanere dentro, sotto controllo.

Ed anche la sua analisi del difficile ed intenso rapporto tra due uomini che si rispettano e provano simpatia l'uno per l'altro ma devono confrontarsi in un duello mortale, è degna di riflessione.

E' un tema che si ripresenta anche in altre opere, Nakadai infatti commenta a volte con umorismo durante le interviste: "Nella scena finale quando vengo ucciso, come al solito..."  e che a pensarci bene non è solo materia di intrattenimento.

D'altra parte Kurosawa san ama sorprenderci, apprestiamo quindi a commentare anche Sanjuro, pronti a rifletterci sopra a ragion veduta.


In Yojimbo i nemici erano dei malviventi organizzati in due grosse bande, che si erano impossessati di una piccola cittadina facendo leva sulle attività semiclandestine come lo spaccio e il contrabbando di alcol o di altri generi di lusso e la prostituzione. Tradizionalmente, in ogni paese del mondo, vengono tacitamente lasciate gestire dalla delinquenza ma coinvolgono sempre di più anche gli onesti cittadini, man mano che la potenza economica e la presenza sul territorio della malvivenza si estendono oltre quei limiti che i benpensanti e la classe dirigente sono abituati ad accettare come fisiologici.

In Sanjuro i nemici sono le istituzioni: la corruzione strisciante che serpeggia proprio nella classe dirigente, per combattere la quale non basta nemmeno il coraggio, quello che mancava ai cittadini oppressi in Yojimbo dalle bande rivali di Ushitora e Kazuemon. Ce l'ha sicuramente il gruppo di giovanissimi samurai che intende ribellarsi al degrado morale delle istituzioni, ma le spade che portano orgogliosamente al fianco si dimostreranno armi assolutamente inadeguate.

Le circostanze richiederanno loro più spesso di nascondersi come topi che di combattere a viso aperto con la spada in pugno, e convinti di sapere perfettamente cosa fare scoprono invece che la sa molto più lunga di loro, sulle cose loro, uno sfaccendato appena appena arrivato, fuori da ogni schema e da ogni convenzione, screanzato e incurante del rispetto dovuto al loro stato sociale.

E pur senza arrivare mai a capire, nemmeno sospettare, chi sia veramente e quali siano i suoi veri scopi, finiranno per seguirlo disciplinatamente: come topolini.

Viene infatti occasionalmente in loro soccorso il vagabondo Sanjuro, che si era appartato per schiacciare un pisolino nell'edificio dove il gruppo di cospiratori al contrario si era riunito per decidere il da farsi, ascoltando involontariamente i loro discorsi.

La sua arma principale, quella che si dimostra praticamente infallibile, e ben più micidiale della sua pur temibile lama, è il cinismo, il disincanto. Sanjuro è fondamentalmente disilluso, appartiene a quella corrente di pensiero che si attiene al principio che, per citare un concetto nostrano, a pensare male si fa peccato. Ma ci si azzecca.

Non che Sanjuro sembri un decisionista: la sua tattica preferita è quella di attendere, schiacciandoci magari sopra l'ennesimo pisolino.

Ripensiamo alle vicende di Sanjuro in questa ottica alternativa: certamente non inedita ma che Kurosawa contrariamente al suo solito non ha sussurrato, preferendo un'opera dai toni molto carichi e dai riferimenti espliciti. Altrettanto certamente però non è stata nemmeno ipotizzata dalla maggioranza di pubblico e critica. Nell'edizione utilizzata per questa recensione, quella inglese, i giudizi concordano: "Rattles along like a John Ford Western... Irresistibly funny" (Tom Mine, The Observer). E ancora: "The humour is bitter, the action ferocious. A minor masterpiece." (Philip French, The Observer).

Quindi secondo molti critici se non tutti, un film di puro intrattenimento. Un'opera minore.

Ma con una riflessione più attenta il giudizio finale complessivo, così come la valutazione dei singoli episodi, può - e probabilmente deve - cambiare.

Nasce il sospetto che le auto citazioni di Kurosawa, quel suo tornare su eventi e su situazioni  psicologiche già visti in Yojimbo, non siano frutto del mestiere, espedienti commerciali  dell'abile venditore che scommette di nuovo sul prodotto che ha avuto successo l'anno prima, ma necessarie pietre di paragone che l'autore ha voluto introdurre per permettere ai fruitori dell'opera di comprendere se ci siano differenze tra la guerra alla malvivenza e quella alla corruzione del sistema.

Il rapporto conflittuale ma anche dialettico tra Sanjuro e la sua controparte in negativo Muroto, impersonato da Nakadai con la sua impareggiabile capacità di adattarsi in modo assolutamente naturale alle parti in nero nonostante la natura bonaria e riflessiva che emerge nelle interviste, va forse anchesso rivisto sotto questa potenziale prospettiva.

Non c'è sostanziale differenza di pensiero e nemmeno di atteggiamento decisionale tra chi combatte da una parte e dall'altra. Le energie naturali del combattente hanno bisogno di una causa per cui spendersi, qualunque essa sia, e la differenza tra  il bene ed il male appare sfumata quando l'esigenza dell'azione, sia che nasca dall'interno  sia che dipenda da circostanze esterne, diventa impellente.


Yojimbo era stato un grande successo di pubblico, mentre la critica lo aveva considerato senza molte eccezioni una vacanza disimpegnata che Kurosawa aveva deciso di prendersi in attesa di ritornare su temi più alti.

Si è detto che questo successo fosse dovuto in gran parte al remake in chiave western girato da Sergio Leone (Per un pugno di dollari) ma chi lo sostiene si inganna: il film di Leone infatti è del 1964, e uscì inizialmente come un anonimo prodotto firmato con uno pseudonimo e destinato ai circuiti di periferia. Solo gradualmente si affermò tra il pubblico e venne infine scoperto - a posteriori - anche dalla critica.

Sanjuro che è invece del 1963 venne girato su richiesta dei produttori, che intendevano replicare immediatamente il successo immediato di Yojimbo e ricavarne altri interessanti guadagni. Kurosawa riprese quindi tra le mani una sceneggiatura che aveva scritto in precedenza sulla base di una novella di Shugoro Yamamoto, autore cui ha attinto anche per l'opera successiva, Barbarossa.

Cogliamo l'occasione per ricordare che Kurosawa fu molto critico nei confronti delle emulazioni (e un giorno vi diremo perché parliamo al plurale) di Sergio Leone:

Non avrei mai pensato di contribuire involontariamente alla nascita del western spaghetti! Ma perché rifare un film tale e quale  (a parte certe insistenze sulla violenza bruta) travisandone in parte lo spirito?

A me interessava il ritratto di un uomo fuori dall'ordinario che si batte con l'astuzia contro i mascalzoni per un'idea di giustizia.

Nel remake sembra che importi principalmente il numero dei morti e il modo in cui vengono uccisi; il sangue, la crudeltà e il cinismo hanno cancellato ogni sottofondo etico.

(da Pier Maria Bocchi: Akira Kurosawa, Il Castoro, 2007)

La versione originale della sceneggiatura prevedeva un protagonista non particolarmente versato per le armi, che piuttosto "duellava con la testa" raggiungendo i suoi obiettivi con l'astuzia.

Man mano che si andava avanti però le pressanti richieste dei produttori cambiarono la chiave di volta dell'intero edificio: Sanjuro diventava sempre più un uomo di azione, e la spada tornava protagonista.

In realtà sono molti di più nel film i tempi di attesa che quelli dedicati all'azione, spesso fulminea e in cui Sanjuro annienta i suoi avversari così velocemente che lo spettatore si rende conto che c'è stato un duello solo quando è già terminato.

A differenza di come si comportava in Yojimbo, sembra ora più riluttante a spargere sangue. Abbatte i nemici, incurante del loro numero, senza nemmeno estrarre la spada dal fodero. Ma quando decide di farlo i risultati sono terribili.

Sembrano i sintomi di un ripensamento in corso d'opera, almeno parziale, da parte di Kurosawa.

 

 

 

Forse dietro esplicita richiesta dei soliti produttori, vengono replicate diverse situazioni già viste in Yojimbo.

Ma Kurosawa le stravolge dando loro chiavi di lettura beffardamente diverse, come se si divertisse a sconcertare lo spettatore che pensa d sapere già quello che sta per succedere.

Qui vediamo la caratteristica scrollata di spalle, Kurosawa chiese che ricordasse quella di una cane, con cui Sanjuro commenta a modo suo la conclusione di avventure piccole e grandi, divertenti e tragiche.

L'antagonista Nakadai deve invece impersonare, seguendo le istruzioni del regista, il ruolo del serpente.

 

 

 

 

Il tono dell'intera opera è apertamente satirico, di un umore nero che si alterna alle scene di violenza ma non per questo coglie meno nel segno.

Sono aperti bersagli di Kurosawa un certo esagerato conformismo della società giapponese, e gli entusiasmi giovanili che portano direttamente dalla sognata "rivoluzione" alla catastrofe, passando attraverso la facile quanto errata identificazione del nemico da abbattere e dell'alleato cui legarsi.

Si direbbe quasi una profetica anticipazione di quanto si sarebbe visto poi con la "rivoluzione" giovanile del 1968.

 

 

 

 

 

 

Tra Sanjuro Kuwabatake e Sanjuro Tsubaki corre un'altra importantissima differenza.

Il primo accelera deliberatamente con le sue provocazioni il corso degli eventi, sembra che i momenti di stasi lo annoino profondamente.

Il secondo ha la tendenza a dilazionare, a rimandare e ad attendere e una sostanziale vistosa pigrizia, e non è facile valutare fino a che punto sia autentica e dove invece cominci la simulazione per trarre in inganno sia amici che nemici.

Proprio per questo i momenti in cui passa all'azione arrivano del tutto inaspettati, sorprendendo ed avvincendo lo spettatore, e i suoi giudizi impietosi e chirurgicamente precisi sorprendono i suoi improvvisati alleati.


Sembrerebbe di avere detto praticamente tutto quello che c'era di dire su questa opera "leggera" del maestro.

Pochi cambiamenti formali apportati al canovaccio di un film già riuscito, per ripeterne stancamente gli stilemi e riscuotere moneta sonante al botteghino? Il tutto senza alcun messaggio da trasmettere?

Non sembra. Corre molta acqua tra il primo ed il secondo Sanjuro: molto più tempo in apparenza di quanto afferma lui stesso, quando dichiara pensoso alla nobildonna da lui salvata che si sta ormai avvicinando ai 40.

Le esitazioni ed i ripensamenti di Sanjuro II hanno una motivazione molto più profonda di quella che si riceverebbe prestando attenzione solamente alle rare ma violentissime scene di combattimento.

In realtà, mentre Sanjuro I non esitava ad estrarre la spada alla minima occasione, il nuovo Sanjuro esita. Ma non per scelta tattica o strategica: non ama uccidere.

 

 

 

Ed il suo nemico non solo si annida nel cuore delle istituzioni - non è più quindi la delinquenza dichiarata e palese che deve combattere - ma  anche dentro di lui.

Il suo rapporto di attrazione e repulsione verso Hanbei Muroto è motivato dalla sensazione soggettiva di trovarsi di fronte ad un essere umano molto simile a lui, eppure schierato sul campo opposto.

Sanjuro combatte anche contro se stesso.

Occorre dire che questa impostazione della vicenda non sarebbe stata realizzabile se Kurosawa non avesse  potuto disporre di due magnifici interpreti all'altezza di tanto impegno.

Si è detto molto di Toshiro Mifune, della sua inimitabile capacità di condensare in pochi istanti, magari in una sola espressione del viso, messaggi inequivocabili che altri attori avrebbero a stento trasmesso confusamente, pur occupando metri e metri di pellicola. Per la prima volta, ed è un vero peccato che sia rimasta l'ultima, Mifune trova in Nakadai un antagonista alla sua altezza.

Non è un caso che Nakadai sia rimasto così profondamente impressionato dal rapporto tra i due protagonisti.

E' nella scena finale che Kurosawa mette in bocca a Sanjuro la famosa definizione di Muroto che Nakadai ha voluto ricordarci: una spada nuda, priva del fodero.

Ma è esattamente la stessa definizione di Sanjuro che aveva dato la dama al loro primo incontro, quando l'aveva cruentemente  liberata da un rapimento.

Una spada micidiale, priva del fodero perché sempre pronta ad agire. Mentre le lame di valore debbono essere protette, ed estratte solo quando necessario.

 

 

 

 

Al termine di un lungo percorso Sanjuro dovrà convenirne, arrivando anche  alla drammatica conclusione di aver dovuto vincere ed uccidere, assieme a Muroto, anche se stesso.

Nella inquadratura finale Sanjuro si allontana di nuovo dai luoghi che lo hanno visto in azione, scrollando come sempre le spalle, emulando il gesto di un cane randagio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa volta Kurosawa ha raffigurato probabilmente se medesimo nei panni di Sanjuro, mentre in altre opere ci aveva proposto personaggi molto distanti dal suo essere.

Con questo film sconvolge le pigre abitudini di noi spettatori e irride le sciocche presunzioni dei produttori interessati solo all'incasso.

Ha fatto nonostante tutto esattamente il film che ha voluto, lasciando però credere a tutti di avere ceduto alla moda del momento per creare un prodotto di facile consumo.

Rendiamogli omaggio.


La storia di Sanjuro II è molto semplice: poco più di un canovaccio che deve apparentemente, senza farsi e farlo troppo notare, sorreggere in qualche modo  una serie di repliche degli episodi di Yojimbo più apprezzati dal pubblico. Questo almeno secondo i produttori. Sappiamo ormai che Kurosawa aveva intenzioni diverse.

Un gruppo di giovani samurai, nove in tutto guidati da Iori (Yuzo Kayama, che sarà 3 anni dopo il protagonista di Barbarossa) ha deciso di ribellarsi alla corruzione imperante nel feudo.

Purtroppo la lettera di protesta indirizzata al governatore Mutsuta è stata da lui platealmente strappata, e stanno ora pensando di appoggiarsi all’alto funzionario Kikui.

Costui ha appena detto a Iori di riunire tutti in un luogo sicuro e isolato, dove lui manderà sue notizie.

 

 

 

 

 

 

 

Il samurai errante Sanjuro come abbiamo detto si stava riposando nel tempio abbandonato dove si riunivano i giovanotti di belle speranze, ed interviene non richiesto a dire la sua.

Mentre l’atteggiamento prudente di Mutsuta può essere giustificato dalla delicatezza della materia, l’entusiasmo con cui Kikui ha accolto i giovani è sospetto, e quella proposta allarmante.

Una rapida occhiata al di fuori rivela infatti che un numeroso gruppo di armati ha circondato l’edificio e sta per fare irruzione.

 

 

 

 

 

 

 

Sanjuro frena i giovani dal tentativo immediato ed istintivo - dopotutto sono dei samurai - di tentare una reazione armata: ci penserà lui.

Affronta da solo la fiumana di uomini che fanno irruzione, prima assicurandoli che non c’è nessuno oltre lui e poi, visto che insistono a controllare di persona, facendo una carneficina per difendere, a suo dire, l’inviolabilità del tempio.

Il comandante dei soldati, Hanbei Muroto, si rende conto di non avere di fronte a se una persona comune; accetta di ritirare i suoi uomini, ed offre a Sanjuro di entrare anche lui al servizio di Kikui. Sanjuro ci rifletterà.

E’ solo l’inizio di una lunga serie di avventure che sembrano apparentemente, come ripetuto più volte, essere solo un pretesto per replicare con infime varianti gli episodi già visti in Yojimbo e raccontano invece una storia completamente diversa, che va al dilà dei singoli episodi, su cui di conseguenza è inutile insistere.

L’intera famiglia del governatore è intanto stata rapita dagli sgherri di Kikui (Masao Shimuzu), ma Sanjuro riesce quasi subito a liberare la moglie di Mutsuta (Takako Iriie) e la figlia.

Le nasconde poi nella casa accanto a quella del maggiore alleato di Kikui, Kurofuji (Takashi Shimura, qui pavido ed insignificante).

Pensa giustamente che nessuno penserà a cercare in un posto tanto vicino al nemico.

Per spezzare la catena di omertà Sanjuro ricorrerà poi al doppio gioco, fingendo di accettare l’offerta di Muroto ma agendo in realtà come una micidiale quinta colonna.

Aggredisce ogni volta che può gli uomini di Kikui, senza curarsi del loro numero, per sterminarli tutti, non senza rimorsi; non può lasciarsi dietro testimoni che svelerebbero il suo inganno.

Non appena ha scoperto che il governatore si trova sotto stretta sorveglianza proprio nella casa di Kurofuji accanto alla quale si erano rifugiati anche i samurai ribelli, Sanjuro decide di liberare anche lui.

Ma un banale errore fa scoprire il suo doppio gioco, e Muroto lo smaschera, lo fa disarmare e mettere sotto stretta sorveglianza.

 

Un provvidenziale episodio gli salverà la vita. Uno degli uomini di Kikui, fatto prigioniero in una delle battaglie iniziali, si è talmente assuefatto al suo insolito ruolo di ospite forzato che si fa prestare i migliori vestiti del padrone di casa ed entra ed esce a suo piacimento dalla prigione, in realtà una semplice parete scorrevole, per partecipare ai consigli di guerra del gruppo di cospiratori e dire perfino la sua.

E’ lui a ricordarsi per primo che un banale errore farà inevitabilmente scoprire l’inganno, ad uscire di corsa dal suo bugigattolo, a dare l'allarme, ad avvertire gli altri.

Ma non osano fare irruzione: Sanjuro ha comandato di attendere ad ogni costo il suo segnale. Arriveranno nel giardino delle camelie, portate dalla corrente lungo il ruscello che passando per la casa di Kurofuji entra poi in quella dove si trovano in agguato i cospiratori a fin di bene.

 

Sanjuro, saldamente legato e reso completamente inoffensivo, lavora tuttavia di cervello: fortunatamente Muroto è assente e ha con se quasi tutti gli uomini.

Riesce a convincere Kurofuji "confessando" con titubanza che un attacco dei suoi uomini è imminente, proprio ora che loro sono praticamente indifesi.

Solo un segnale dato con le camelie potrebbe arrestarlo, altrimenti l'attacco sarà inevitabile e cruento; ovviamente raccoglieranno camelie a grandi bracciate e le getteranno freneticamente nel ruscello.

 

 

 

 

 

 

Il segnale scatena invece l’irruzione dei giovani seguaci di Sanjuro, che libereranno senza colpo ferire sia lui che Mutsuda.

E' la fine della banda di corrotti.

Muroto al rientro trova i suoi complici legati ed imbavagliati, e si rende immediatamente conto di avere perso la partita.

Non appena tornato libero il governatore, che fino allora aveva tentato di trovare una soluzione che non facesse troppo scandalo, farà invece piazza pulita senza troppi complimenti.

 

 

 

 

 

 

 

Si è detto in alcuni testi critici che Kurosawa, alle ricerca del perfetto tono di bianconero con cui rendere il rosso delle camelie, abbia fatto infinite prove e sia poi ricorso a fiori artificiali meticolosamente laccati di rosso uno ad uno.

Per la verità il dialogo del film dice un’altra cosa: Sanjuro informa i suoi carcerieri, che gli chiedono di che colore debbono scegliere le camelie, che ne devono essere mandate il più possibile lungo il torrentello, ma rosse o bianche non ha importanza.

Quindi Kurofuji ne taglierà immediatamente un quantitativo spropositato, che ad ogni proiezione suscita l'ilarità del pubblico. Ma tutte bianche come si vede.

Tornato libero il governatore, il gioco dei ribelli viene denunciato in pubblico e fallisce miseramente. I personaggi maggiormente coinvolti nella corruzione. Vengono immediatamente arrestati ed esiliati dal saggio Mutsuda, che rinuncia a chiedere loro il seppuku (suicidio rituale).

 

Lo vediamo ora per la prima volta: Kurosawa ce lo presenta come un buffo omino dai tratti bizzarri e con l’aria un po’ tonta. Eppure è senzaltro uno dei personaggi del film maggiormente dotato non solo di comprendonio ma anche di notevole acume.

Senzaltro ne ha da vendere in confronto ai giovani quanto sprovveduti samurai pronti a spaccare il mondo con le loro spade.

Come suo solito Kurosawa gioca molto coi toni comici, alternandoli a quelli drammatici. Ma, molto spesso, per trasmettere messaggi serissimi.

E’ finita dunque la lotta alla corruzione. Rimangono da regolare i conti privati tra Sanjuro e Muroto.


La resa dei conti finali tra Tsubaki Sanjuro e Muroto Hanbei viene resa da Kurosawa col duello più carico di tensione e più cruento visto fino ad allora sugli schermi. Da quel momento è stata una continua progressione, si è spesso cercato da parte di altri registi  di far vedere qualcosa di più, e di più sanguinoso, ad ogni nuova opera.

Nessuno però è riuscito ad eguagliare la forza drammatica di questa scena, che non trova più riscontri nelle opere successive di Kurosawa: ha voluto mostrare quale fosse il limite, ma non ha voluto superarlo né ha accettato di ritornare sull'argomento per pure ragioni di cassetta. Kurosawa è in grado di mostrare la violenza e l'orrore con una potenza che nessun altro ha mai avuto, ma non lo fa mai gratuitamente.

La tecnica utilizzata da Sanjuro è stata anche analizzata e portata ad esempio da diversi studiosi delle arti marziali, ma come stiamo andando a vedere, nessuna di queste analisi arriva al necessario livello di approfondimento.

Questa è la ricostruizione del duello proposta da Oscar Ratti nel suo libro I segreti dei samurai pubblicato in Italia dalle Edizioni Mediterranee, edizione del 1992, pagina 292.

La didascalia recita "Estrazione iai, da Sanjuro".

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorniamo alla immagine di apertura di questo articolo: una locandina che venne utilizzata all'epoca della prima uscita. Mostra Toshiro Mifune nell'atto di impugnare la spada con la mano sinistra in posizione gyakute (palmo verso il basso), e lascia immaginare che sia quella la tecnica di estrazione utilizzata nel combattimento.

In realtà questo genere di immagini non utilizza normalmente i fotogrammi delle riprese. Si tratta di immagini riprese dal fotografo di scena durante sessioni separate, e per quanto siano logicamente indirizzate a richiamare gli episodi chiave del film, se ne possono discostare più o meno per ragioni tecniche.

E' il caso di questa locandina, di cui non conosciamo l'autore, che diversi commentatori hanno utilizzato per le loro ipotesi di ricostruzione. Non hanno però notato una macroscopica differenza rispetto al film.

Nel momento dello scontro Sanjuro si sposta sulla sinistra, di conseguenza Muroto si trova alla sua destra. Nella locandina però sia la  lama che lo sguardo di Mifune sono focalizzati a sinistra, ove non c'è nulla. E' evidente che si tratta di una ricostruzione completamente avulsa dalla scena reale. Forse è addirittura frutto di una composizione, in cui qualcuno ha posato per mostrare l'atteggiamento del corpo mentre il viso di Toshiro Mifune vi è stato sovrapposto in un secondo momento.

Ha indubbiamente una cosa in comune con la ricostruzione di Ratti: la spada viene estratta come detto in posizione gyakute (col palmo della mano verso il basso).

Oscar Ratti, pioniere delle arti marziali, è stato coautore assieme ad Adele Westbrook di due testo fondamentali nella bibliografia dei cultori di arti marziali: I segreti dei Samurai e L'aikido e la sfera dinamica. Dotato di grande cultura e disegnatore professionista, le sue conoscenze tecniche delle varie arti non potevano però oltrepassare i limiti raggiunti dai praticanti occidentali nell'epoca in cui ha vissuto.

E'  questa la ragione per cui le sue opere, ricche di preziose riflessioni, di approfondite analisi, di teorie innovative, non sono tuttavia esenti da errori.

L'estrazione di una spada con la mano sinistra è plausibile anzi necessaria - quando la destra già impugna la katana - per estrarre il wakizashi, la cui lama misura tra i 30 e i 60 cm.

Ma Sanjuro contrariamente alle abitudini non porta wakizashi: utilizza solo una grande spada, valutando dalle immagini intorno ai 75cm di lama, che è impossibile estrare con la mano sinistra. Kurosawa sa bene che la scena deve apparire verosimile, non necessariamente esserlo: e per stupire lo spettatore con l'ennesima dimostrazione di incredibile destrezza da parte di Sanjuro, gli farà estrarre la lama con la sinistra.

Nella serie dei suoi disegni Ratti continua facendo completare a Sanjuro (sulla sinistra) l'estrazione della spada. Completata l'estrazione il palmo della mano appoggia sul mune (dorso) della lama per aumentare la forza del colpo e permettere maggiore precisione: la lama taglia in orizzontale il torace di Muroto, con movimento da destra a sinistra.

Contemporaneamente Sanjuro si sposta sulla sinistra per evitare il colpo di Muroto, che va a vuoto. Questi si accascia poi al suolo, privo di vita.

Non è esattamente cosí, né potrebbe esserlo. Lo vedremo analizzando il duello sulla scorta dei fotogrammi.

Alcune immagini di questa sequenza sono molto cruente: ne sconsigliamo la visione alle persone particolarmente sensibili.

 

 

Kurosawa inizia la sequenza con un espediente mutuato da uno degli stilemi più ricorrenti nei film western: una interminabile attesa in cui i due avversari sono l'uno di fronte all'altro, immobili, impassibili, senza battere ciglio, mentre gli spettatori, anche loro pietrificati ma con una altalena di emozioni che si alterna sui loro volti, restano sullo sfondo.

Lo spettatore viene coinvolto in questa spasmodica attesa, la tensione sale dentro di lui fino a diventare quasi intollerabile.

Al momento della improvvisa esplosione dell'azione, fulminea, cruenta, imprevedibile ed imprevista, i suoi sensi sono già ottenebrati e non riuscirà a comprendere quanto vede o immagina di avere visto.

 

 

 

 

Hanbei Muroto decide di passare all'azione per primo, estraendo la sua lama con una tecnica simile a quella che viene chiamata batto in alcune scuole di iaido.

Sanjuro Tsubaki si prepara a scartare sulla sinistra ed impugna la tsuka.

Ma la sua mano non è gyakute, come mostrato nella locandina e ripreso da Ratti, ma visibilmente honte: col palmo verso l'alto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In realtà in questo modo l'estrazione della spada non è possibile: vediamo come, anche al massimo dell'estensione del braccio, si arriva ad estrarre meno della metà della lama.

Non vuole assolutamente essere una critica al grande Sugino sensei, maestro d'arme di tanti film di Kurosawa, né ad Akira Kurosawa stesso che ricorda nella sua autobiografia di essere stato un adepto dell'arte della spada che ogni mattina si alzava all'alba per recarsi al dojo, né a Toshiro Mifune, che per tutto il corso della sua vita ha continuato a studiare l'arte della spada,

E' anzi un complimento: sono riusciti a rendere assolutamente credibile quello che invece non era possibile fare.

 

 

 

 

 

E' possibile che la base di partenza sia stata una tecnica simile, prevista nella "panoplia" di alcune scuole, ma eseguita con la mano destra.

E' la mano destra, sempre in posizione honte, che sta ora completando l'estrazione della lama.

A questo punto una rotazione del polso porta la punta del'arma a ruotare prima verso il basso e poi verso l'alto, in posizione di offesa.

La capacità di penetrazione è modesta se l'angolo di impatto non è ottimale, ma l'impeto dell'avversario può aumentarla fino al punto che si trafigga da solo e l'intervento in appoggio della mano sinistra può renderla risolutiva.

 

 

 

 

 

 

Non è così comunque che ha vibrato il suo colpo Sanjuro.

Fermo restando che l'estrazione è irrealistica, probabilmente la spada è fin dall'inizio fuori dal fodero, celata alla vista, si sottrae alla lama di Hanbei spostandosi di lato mentre contemporaneamente avanza sulla sinistra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ruotando il polso sinistro, come nella tecnica "convenzionale" esaminata prima ruotava la mano destra, Sanjuro porta la punta della lama verso l'avversario e lo trafigge, recidendo l'arteria succlavia destra.

E' uno dei bersagli più importanti nella scherma giapponese: si trova sotto l'ascella, che è completamente scoperta nel momento in cui le braccia si trovano in alto per caricare il fendente (shomenuchi).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La lama di Hanbei incontra il vuoto.

Quella di Sanjuro sta terminando la sua mortale parabola .

Si è aiutato con la mano destra: non utilizzandola per spingere da dietro col palmo, come ipotizzato nella ricostruzione di Ratti, ma per appoggiarvi sopra la lama - sul dorso della mano - e poter così guidare meglio il colpo.

Il colpo è stato portato da sinistra a destra, e non al contrario come supposto nelle ricostruzioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

A meno che non sia dotato di straordinaria prontezza di riflessi, lo spettatore a questo punto non solo non è in grado di ricostruire quanto successo, ma nemmeno di comprendere che Hanbei sia stato colpito.

Figuriamoci capire anche il come.

I due contendenti rimangono immobili, il gruppo di samurai che assiste non osa muovere un ciglio.

Chi ha vinto? O è stato un nulla di fatto?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dopo un lasso di tempo che sembra interminabile, il dramma che nessuno avrebbe immaginato.

Dal corpo squarciato di Hanbei fuoriesce un grande getto di sangue.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E' destinato ad allargarsi fino a divenire una tragica sconvolgente eruzione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il volto dei protagonisti rispecchia quello che sta provando ogni spettatore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel corso di tutto il film non sono davvero mancate scene di duello o combattimento, e Kurosawa le aveva trattate con mano molto leggera.

Come un gioco, un gioco spettacolare e divertente.

Ora ci mostra tutto l'orrore della morte di un guerriero stroncato dalla spada dell'avversario.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non è un'opera disimpegnata come può apparire ad una lettura superficiale.

Sanjuro si congeda da noi pensieroso, obbligandoci a pensare a nostra volta.

Akira Kurosawa: La sfida del samurai
Yojimbo), 1961

Toshiro Mifune, Tatsuya Nakadai, Takashi Shimura, Daisuke Kato, Susumu Fujita

 

Un silenzioso enigmatico samurai senza padrone e senza nome vagabondando privo di meta giunge in un piccolo villaggio dove è in corso una feroce guerra tra due bande rivali, capeggiate dal grossista di seta e da quello di sake. In realtà quando gli viene chiesto il nome il ronin inventa lì per lì uno pseudonimo ispirandosi a quello che gli si trova davanti:  Kuwabatake Sanjuro (Gelseto Trentenne). Ma nella sbrigativa edizione italiana - che non ebbe successo - questa scena venne tagliata. Tuttavia l'espediente piacque a Kurosawa che citò se stesso nell'opera successiva ove il protagonista si attribuisce il nome di Tsubaki (Camelia) Sanjuro che è anche il titolo del film.

Enigmatico e cinico il ronin passa con disinvoltura da una parte all'altra lasciando lievitare le offerte per avere a servizio la sua spada come guardia del corpo (yojimbo), ma in realtà il suo scopo, dichiarato fin dall'inizio al gestore della locanda, scettico ma fedele alleato, è di annientare entrambe le bande per restituire la pace al paese.

RedHarvestLa storia -  plot per rispettare il termine tecnico utilizzato nel mondo del cinema -  è debitrice a Red harvest, un romanzo giallo del 1929 recentemente ripubblicato in Italia da Mondadori col titolo Raccolto rosso, dello scrittore americano Dashiell Hammet, maestro del genere che venne definito hard boiled per il suo crudo realismo.

E una ennesima prova dell'attenzione con cui Kurosawa guardava al mondo occidentale, prendendo spunti sia dalla letteratura "alta" (Shakespeare, Gorkij) sia da quella più popolare come dimostra questo secondo caso di ispirazione alla letteratura statunitense contemporanea di intrattenimento. L'altro esempio come è noto è Anatomia di un rapimento, ripreso da uno dei gialli della serie dell' 87. distretto scritti dall'italo-americano Ed McBain (nato come Salvatore Lombino) e pubblicati in Italia nella collana Giallo Mondadori.

LeoneIl soggetto venne quasi subito ripreso a sua volta da Sergio Leone che ne ricavò Per un pugno di dollari. Non il primo western all'italiana ma certamente il primo che nonostante la pochezza dei mezzi impiegati abbia riscosso un vero successo internazionale, dando inizio alla luminosa carriera di un artista che aveva dato finora prova di sé soprattutto come negro ossia mero esecutore senza diritto di firma, direttore di seconde unità di ripresa. .

La famosa scena della corsa delle bighe in Ben Hur fu infatti girata non da William Wyler che firmò l'opera ma da Leone. Eppure come autore vantava prima della cosidetta trilogia del dollaro solamente un non memorabile Il colosso di Rodi, opera tarda del genere peplum fiorente in Italia tra gli anni 50 ed i 60. Dopo il successo di Per un pugno di dollari una lunga controversia tra Kurosawa e Leone, che non aveva chiesto alcuna autorizzazione per il riutilizzo del soggetto, venne risolta affidando a Leone la distribuzione dei film di Kurosawa in occidente (ma che si sappia non ci fu seguito) e a Kurosawa quelli di Leone in oriente.

L'incipit dell'opera - e sappiamo che Kurosawa prestava grande attenzione alle sequenze iniziali - ci mostra un samurai , chiaramente riconoscibile come randagio dall'acconciatura del capo ma le cui non oscure origini sono evidenziate dagli stemmi di famiglia impressi sugli abiti. Trovandosi ad un bivio getta per aria con infantile allegria un bastone: la direzione ove si poserà la punta del bastone sarà anche la sua. Ed è così che arriva in un sinistro villaggio, apparentemente privo di abitanti (sono tutti rinchiusi dalla paura nelle loro case) ove una inquietante apparizione gli fa immediatamente capire che qualcosa - e qualcosa di molto grosso - non va: un cane che trotterella per la via principale, deserta e battuta dal vento, portando in bocca una mano umana, evidentemente tagliata di fresco da un colpo di spada. Ancora un cane, dopo quello di Nora Inu del 1949, dodici anni prima, che introduce lo spettatore alla sinistra atmosfera di questo film.


Il villaggio è conteso tra due bande di trafficanti, che significativamente si occupano di commercio di seta e di sake: una chiara accusa alla brama di potere del capitalismo moderno, che in altre opere di Kurosawa assume i toni di una vera e propria denuncia ma che rimane in sottofondo in Yojimbo.

Un'opera caricata all'estremo su ogni registro, come certe fotografie che andavano di moda all'avvento del colore, dalle tonalità talmente contrastate ed esagerate da diventare surreali; ma il registro dominante è senza ombra di dubbio quello comico, rivolto contro quel genere di miserie umane che fanno più spesso indignare che sorridere.

 

E Yojimbo ride apertamente, al vedere la commedia umana di cui tiene le fila scatenando le due bande l'una contro l'altra, mentre prima le loro sopraffazioni erano rivolte agli inermi abitanti del villaggio.

Tutto sembra dunque andare secondo i piani del misterioso samurai, ma non tarderanno a sorgere complicazioni, che lo costringeranno perfino a mostrare il suo volto umano, ben celato dietro un comportamento brusco, sfrontato e cinico.


Sono presenti in Yojimbo, per la prima e per l'ultima volta contemporaneamente assieme, tutti gli attori icona di  Kurosawa.

Susumu Fujita, protagonista già della prima opera di Kurosawa (Sugata Sanshiro) è qui invece alla sua ultima apparizione, nelle vesti di uno scontroso samurai che abbandona la banda di cui era al servizio, apparentemente ingelosito della paga favolosa che viene accordata al ronin sconosciuto appena arrivato ma soprattutto contento di sfruttare la prima occasione per sottrarsi ad un vassallaggio che avverte non appropriato al suo sentire.

E' invece una novità assoluta Tatsuya Nakadai - perlomeno nei panni di protagonista di rilievo dato che in una intervista ricorda di avere avuto un insignificante ruolo in I sette samurai. Sarà ancora antagonista di Mifune in Sanjuro ed infine protagonista assoluto dei grandi affreschi storici dell'ultimo Kurosawa: Kagemusha e infine Ran.

Nakadai recita in Yojimbo in un ruolo che in quegli anni gli veniva spesso richiesto, quello dell'antagonista. Unosuke è nevrotico e irresistibilmente attratto dal male ed in possesso di un oggetto "magico", una pistola a ripetizione, che lo rende invincibile e infallibilmente sicuro di sé. Qui lo vediamo mentre incrocia per la prima volta il ronin misterioso. Al suo fianco Daisuke Kato, l'allegro lanciere dei Sette samurai, onnipresente nei film di Kurosawa e qui nel ruolo divertente dello sventatissimo fratello del capobanda. Non manca Takashi Shimura, altra icona del cinema di Kurosawa, in uno dei suoi rarissimi personaggi negativi.

Nel remake di Sergio Leone sarà Gian Maria Volonté a ridisegnare la figura dell'antagonista, aggiungendovi se possibile un ulteriore tocco di inquietante ambiguità.Come è noto la parte dell'eroe solitario e silenzioso toccò invece a Clint Eastwood.

Tra i personaggi di contorno le recensioni non mancano mai di segnalare la vistosa presenza di un gigante armato di una gigantesca mazza, per descrivere il quale si ricorre frequentemente alla frase "immaginatevi un tipo alla Richard Kiel". Si tratta dell'attore americano divenuto famoso nella interpretazione di Jaws, avversario e poi alleato di James Bond in alcuni film della saga di 007. Sembra però che la verità sia come spesso accade molto più semplice e che la parte sia stata interpretata veramente da Richard Kiel, anche se nessuna fonte ufficiale lo conferma

Difficile spiegare il perché, ma nel mondo del cinema abbondano i piccoli ed i grandi misteri. In fondo se il remake di Leone non avesse avuto il successo che ha avuto crederemmo ancora che il regista si chiamasse Bob Robertson e fosse statunitense, mentre Gian Maria Volonté venne ribattezzato John Wells. Forse una sorta di pudore analogo probì a Kurosawa di rendere noto il ricorso ad un attore americano per un film giapponese, probabilmente reso necessario dalla impossibilità di reperire in Giappone un attore di statura paragonabile ai 217cm di Kiel; che per la verità confessa di avere rubacchiato un po' nella sua scheda ufficiale, arrotondando a 7 piedi e 2 pollici (218,5 cm) perché quando diceva di essere alto 7 piedi, un pollice e mezzo (217cm appunto) gli interlocutori si perdevano nei calcoli.

Sia come sia, lasciamo giudicare al lettore: pur tenendo presente che la foto a colori di Kiel risale a circa quaranta anni dopo, è legittimo il sospetto che le due immagini siano riconducibili alla stessa persona. Ancora un altro piccolo mistero si cela in Yojimbo: i titoli di testa della recente edizione italiana attribuiscono le "scene di kendo" ad un personaggio ignoto al recensore. E' risaputo invece, e lo provano le foto di scena (vedi la relativa pagina nella recensione dei Sette samurai) che il maestro d'armi era Yoshio Sugino, celeberrimo insegnante di spada e di aikido.


Chirurgicamente efficiente quando cinico e pragmatico, il samurai cade nella rete tesa dai suoi avversari solo quando si rivela capace di umanità: il suo sanguinoso intervento  per liberare la donna ostaggio di una banda e instradarla sulla via della fuga assieme al marito e al figlioletto, lo tradisce.

E' proprio una lettera di ringraziamento inviatagli dalla coppia che viene in possesso di Unosuke e svela il suo doppio gioco.

Imprudentemente lasciata sul tavolo, viene notata ed aperta dal trionfante malfattore, che fin dall'inizio si era dimostrato diffidente ed ostile nei confronti del samurai.

La catarsi finale verrà preceduta, come di consueto nelle opere che in qualche modo si ispirano al genere western, da una sanguinosa sconfitta che non sembra lasciare spazio per una rivalsa.

 

 

Ormai prigioniero della banda di Unosuke, il samurai viene lasciato nelle mani del gigante - senza nome anche lui - e ridotto a tal punto che ormai non sembra più costituire alcun pericolo.

Anche la lotta tra le due bande rivali arriva ad una conclusione: Unosuke rompe gli indugi ed incendia il magazzino di seta dei rivali, attendendoli al varco quando sono costretti ad uscire per sfuggire ad una morte orribile, dopo essere stati assicurati che avranno salva la vita.

 

 

 

 

Ma Unosuke non esita a scaricare su di loro il suo revolver, giustificandosi infantilmente con l'eterno pretesto di non essere stato lui a cominciare con i trucchi. Kurosawa nell'istruire i suoi attori aveva prescritto loro dei comportamenti animali e a Nakadai toccò la parte del serpente, sostenuta alla grande. Sembra il momento del trionfo definitivo della malvagità umana.

Sanjuro - o comunque si chiami  - pur ridotto in condizioni pietose è tuttavia riuscito ad evadere dalla sua prigione. Si rifugia in una minuscola capanna accanto al cimitero, e riprende lentamente le forze; la sua unica arma è ormai un coltellaccio da cucina lasciatogli dall'oste, con cui si allena metodicamente lanciandolo contro le foglie portate dal vento che penetra attraverso le fessure del tavolato.

Si è molto favoleggiato su questo effetto scenico di Kurosawa: l'effetto di precisione matematica con cui il coltello colpisce la foglia svolazzante sarebbe stato ottenuto montando al contrario la pellicola, girata estraendo il coltello dalla foglia invece che tirandoglielo contro. Questa fantasiosa ricostruzione cade miseramente ad una semplice verifica: fate girare il filmato al contrario, cosa ormai possibile su ogni copia in dvd e se la storia fosse vera dovreste vedere la sequenza originaria come è stata girata.

Come sempre la verità è molto banale, e coglibile da chiunque abbia un minimo di spirito di osservazione e non ami fermarsi alle apparenze; è stata prima ripresa la foglia sballottata dal vento - o più probabilmente da un apposito ventilatore -  poi è stata fermata la macchina da presa e sistemato convenientemente  l'assieme foglia/coltello. A quel punto si è dato di nuovo il segnale di azione, e per lo spettatore si è raggiunto perfettamente l'effetto voluto: la foglia svolazzante si arresta di colpo trafitta dal coltello, che arresta la sua corsa configgendosi nel pavimento.


Armato di una spada di fortuna, coltellaccio alla cintura, il samurai si dirige verso la strada principale del villaggio, per affrontarvi il duello finale che riprende tutti gli stilemi del film western: il vento impietoso, la strada deserta, l'apparire dei contendenti da un lato e dall'altro, il loro lento avvicinarsi, mentre sale la tensione.

L'archetipo a cui si è ispirato Kurosawa per la scena finale è chiaramente derivato come abbiamo detto dall'epopea western. Non necessariamente quello che proponiamo, per quanto sia molto compatibile e plausibile. Nella immagine vediamo lo sceriffo solitario di High noon (Mezzogiorno di fuoco), impersonato da Gary Cooper, che si diirige verso il suo destino. Solo contro una banda di malfattori, nella via principale del villaggio deserto, sotto la sferza del sole implacabile.

Kurosawa ricorrerà invece per rappresentare il raccapriccio della natura stessa di fronte alla barbarie umana, al vento: un forte vento ricreato da enormi ventilatori, che sollevavano la polvere scaricata in continuazione da una carovana di camion. Nakadai ebbe bisogno di qualche giorno per riprendersi dalla seria irritazione agli occhi causata dalla polvere.

Con passo sicuro e determinato il sedicente Sanjuro si avvicina ai gruppetto ormai sparuto dei pochi malviventi sopravvissuti alla sua violenta scrematura. Con uno degli espedienti retorici cui frequentemente ricorre - spesso da lui introdotti per la prima volta nel mondo della settima arte - gli avversari si avvicinano lentamente, titubanti, come desiderosi di sottrarsi ad un appuntamento mortale tuttavia non rimandabile.

Nonostante il loro numero, nonostante la forza del gigante, nonostante la pistola di Unosuke, sanno o comunque presagiscono quanto inesorabilmente avverrà: è l'ora della resa dei conti.


Kurosawa porta la tensione fin quasi ad un livello intollerabile, poi improvvisamente la spezza:. giunto a distanza di combattimento, appare infatti un sorriso sarcastico sul volto del samurai.

Un sorriso sarcastico eppure anche infantilmente divertito, che disorienta gli avversari ma anche e soprattutto gli spettatori.

 

 

 

 

 

Continuando a sorridere il samurai affretta il passo, e si esibisce in quel caratteristico scrollare delle spalle che Mifune rese leggendario - e che strappa ogni volta allo spettatore un sorriso divertito -  che vuole ricordare il gesto di un cane che si scuote gli insetti di dosso.

La parte assegnata da Akira Kurosawa a Toshiro Mifune era infatti quella del cane. Ancora un cane come fonte di ispirazione del maestro....

 

 

 

Lo sparuto eppure ancora agguerrito gruppetto di malviventi non sa più cosa pensare: si rendono conto di avere di fronte a loro qualcuno che non possono capire, che non possono prevedere e di conseguenza non possono pensare di sconfiggere.

Quell'attimo di indecisione, questa imprevista crepa nel loro ki, sarà fatale: in pochi attimi il samurai sarà già in mezzo a loro, con la spada sguainata che traccia intorno cerchi mortali.

 

 

 

Il destino si è compiuto: a Unosuke, falciato dalla lama del samurai, rimangono ormai pochi istanti di vita, che impiega chiedendo di poter stringere un'ultima volta in pugno la pistola. L'ennesimo tranello, vano quanto gli altri.

Il samurai commenterà con una percepibile punta di rispetto che Unosuke ha lasciato la vita coerentemente a come l'aveva vissuta.

 

 

 

 

E' finita: il samurai misterioso lancia un addio ai suoi compagni ed alleati di pochi giorni, e scrollando le spalle come un cane se ne va, non sappiamo dove. Questo divertissement di Kurosawa, interludio tra opere che trattavano temi ben più impegnativi, è terminato.

Ma ci lascia con un dubbio: ha voluto veramente scherzare e prendersi un po' di vacanza?  Siamo sicuri che il messaggio che ha tentato di lanciare non sia importante ed essenziale quanto gli altri?

Akira Kurosawa: La fortezza nascosta

1958

Toshiro Mifune, Minoru Chiaki, Kamatari Fujiwara, Susumu Fujita, Takashi Shimura, Misa Uehara, Toshiko Higuchi

 

 

Considerato dalla critica un'opera minore di Kurosawa, quasi un intervallo di divertimento tra le opere maggiori, quelle più impegnate e più ambiziose che comunque vennero spesso ugualmente stroncate, questo film narra le avventure di una principessa costretta a travestirsi da popolana e vivere tra il popolo per sfuggire ai suoi nemici.

Ha tuttavia vinto l'Orso d'argento al festival di Berlino nel 1958 e attirato le attenzioni degli addetti ai lavori: la sceneggiatura, certo largamente rimaneggiata, è alla base di Guerre Stellari, la fortunatissima opera di George Lucas ripresa poi in altri episodi di una vera e propria saga.

L'ammirazione di Lucas e altri per Kurosawa fu all'origine negli anni 80 del suo intervento per salvare dal fallimento la produzione di Kagemusha, forse il più importante film di Kurosawa, certamente quello di maggiore impatto, anche visivo, sullo spettatore. Come è noto la cooperazione tra Kurosawa e i suoi "allievi" americani Lucas, Spielberg e Scorsese  continuò, e permise la realizzazione delle ultime opere del maestro.

Il generale Makabe Rokurota, lo scontroso eroe impersonato in questo film da Toshiro Mifune, diviene in guerre stellari il comandante Jan Solo, nell'interpretazione di Harrison Ford. La spigolosa principessa Yuki (Misa Uehara) diventa la principessa Leia interpretata da Carrie Fisher mentre i due buffi briganti di Kurosawa, Matashichi (Kamatari Fujiwara) e Tahei (Minoru Chiaki), sono i due robot D3-BO e C1P8. Il cattivo della situazione, Darth Vader, non ha un omologo nell'opera originale ma il suo elmo secondo le dichiarazioni di Lucas è ispirato a quello portato dal capo dei briganti dei Sette Samurai.

Le intenzioni di Kurosawa emergono ben chiare fin dai titoli di testa, prima ancora di vedere la prima immagine. Del resto egli ha sempre insistito sulla necessità di avere un impatto immediato sullo spettatore, di avvincerlo fin dall' inizio. Sono le note marziali e trascinanti della musica composta da Masaru Sato: annunciano un'avventura esaltante destinata a lasciare nello spettatore un ricordo bello e positivo.

E forse non si tratta di un obiettivo così scontato, così facile da raggiungere ed alla portata di qualiunque mestierante.

La trama: due paesani, Tahei e Matashichi, pusillanimi ed imbroglioni vogliono tuttavia far fortuna con le armi.

Arrivano però troppo tardi, a guerra finita, e vengono scambiati per sbandati dell'armata sconfitta e messi a scavare fosse comuni per le vittime della battaglia.

Si danno alla fuga appena possono, appena riacciuffati vengono messi in campo di concentramento a scavare per ritrovare il tesoro del feudo sconfitto, quello di Akizuki.

Fuggono di nuovo, ma la frontiera di Akizuki (il cui emblema è la luna) è strettamente vigilata dai guerrieri del feudo vittorioso di Yamana  e di lì non si passa. Decidono quindi di fare un lungo giro passando per il feudo di Hayakawa (indicato dalle tre linee, che si leggono kawa, e indicano la corrente di un fiume).

Questo quindi il loro obiettivo, che pianificano tacciando una mappa sulla sabbia: passare la frontiera portando con sé le verghe d'oro, sulle cui tracce sono casualmente arrivati: ne hanno già alcune e contano di trovare il resto.

Il lingotto d'oro che indica simbolicamente la strada ha forma semicilindrica: all'epoca venivano ricavati versando l'oro fuso dentro delle canne di bambu spaccate a metà. Questo particolare è essenziale per comprendere il seguito della trama.

Li raggiunge per strada un enigmatico personaggio, vestito come un viandante ma dai modi guerreschi. Dichiara infatti di essere il generale Makabe Rokurota, del feudo di Akizuki.

Decide di unirsi a loro, l'idea di aggirare la frontiera è buona. E porteranno con loro il tesoro, di cui Rokurota conosce il nascondiglio: una quantità enorme di verghe d'oro, che da solo non riuscirebbe mai a trasportare.

 

 

Ed una donna altrettanto enigmatica, incontrata per strada, per quanto voglia mantenere l'incognito si rivelerà presto essere la principessa Yuki di Akizuki, che i samurai di Yamana stanno cercando per ogni dove.

L'obiettivo quindi è ora di portare in salvo l'oro, ma soprattutto la principessa.

 

 

 

 

Il cinefilo attento qui avrà forse drizzato le orecchie. Non gli ricorda nulla la storia? Un tesoro perduto durante una guerra.... tre personaggi alla ricerca del tesoro, in lotta e allo stesso tempo in connubio tra di loro... un campo di concentramento, una fuga... una guerra civile, brutale ed assurda... una resa dei conti finale. Viene il sospetto che non sia stato il solo George Lucas ad essere rimasto attratto da questa storia e ad averne trovato fonte di ispirazione.

Per facilitare la ricerca è doveroso aggiungere almeno che si tratta dell'opera di un regista occidentale divenuto famoso proprio dopo aver fedelmente ripreso - in chiave western - un film di Kurosawa uscito poco prima. Ma stavolta la copia non è sfacciata, potremmo anzi dire che si tratti di un omaggio e non di un plagio.

Chii è interessato a controllare di persona se questa ipotesi può essere accettata, non ha ora che da cercare: gli indizi forniti dovrebbero essere sufficienti. Buona fortuna!

Mancano all'appello solamente altri due personaggi principali. Il fondale dell'opera è rappresentato come già detto dal grandioso affresco della lunga guerra.

Ma nemmeno ne conosceremo le cause. Ne sono attori i guerrieri, protagonisti principali, ma anche il popolo che nonostante tutto continua la sua vita di tutti i giorni.

 

 

 

 

Il generale Hyoe Tadokoro (Susuma Fujita, spesso utilizzato da Kurosawa per oltre un ventennio e protagonista dell'opera prima del maestro: Sugata Sanshiro).

E' a capo delle truppe di Yamana che hanno l'incarico di rintracciare ed uccidere la principessa.

Ha un rapporto di rude ma leale rivalità con Rokurota.

 

 

 

Si aggiunge nel corso della fuga all'avventuroso ed eterogeneo quartetto una donna sconosciuta del feudo di Akizuki, ridotta in schiavitù dagli invasori (Toshiko Higuchi).

La principessa Yuki chiede a Rokurota di riscattarla e lasciarla libera.

Ma  lei deciderà di seguirli, e farà la sua brava parte nel corso dell'avventura.


L'avventura non si presta ad essere raccontata: non sono i fatti in se ad avere importanza, ma il modo in cui vengono affrontati: qualunque descrizione del duello dei tre moschettieri contro d'Artagnan o della lotta dei sette samurai contro i predoni, lascia un po' il tempo che trova.

Non ci divulgheremo troppo di conseguenza sui particolari, lasceremo solo una esile traccia: delle briciole qua e là, da seguire per non perdere il sentiero nel bosco dell'avventura.

Matashichi e Tahei vorrebbero tornare al loro villaggio, prematuramente saturi di tutto quello che hanno visto e subito. Non sarà facile: i guerrieri di Yamana pattugliano intensamente il territorio, alla caccia dei pochi superstiti samurai di Akizuki, che vengono falciati senza pietà.

Per loro fortuna i due vagabondi non hanno l'aspetto del guerriero di rango, vengono quindi giudicati come materiale umano a buon mercato e catturati vivi.

 

 

Verranno avviati assieme a migliaia di altri sbandati ad un enorme campo di concentramento.

Lì dovranno, sotto stretto controllo, scavare tra le macerie del torrione degli Akizuki per rintracciarne il tesoro: una quantità incredibile di lingotti d'oro.

 

 

 

 

 

 

Allo stesso tempo un cartello avvisa gli abitanti: una cospicua taglia, sempre in oro, è destinata a chi fornirà informazioni utili alla cattura della principessa Yuki, unica superstite del clan sconfitto.

Per tutto il resto della loro involontaria avventura Matashichi e Tahei oscilleranno tra il grande miraggio del tesoro e quello più a portata di mano del tradimento per ottenere la taglia.

 

 

 

Le condizioni di vita nel campo di lavoro sono disumane, ed alla prima occasione che si presenta i prigionieri si ribellano, preferendo la morte a quel genere di vita.

Una fiumana di uomini disperati sommerge la guarnigione: i due ne approfittano per fuggire ancora una volta.

 

 

 

 

Mentre cercano di mettere assieme una grama cena, Matashichi getta lontano con stizza un pezzo di legna che non vuole saperne di bruciare a dovere sul fuoco.

Quando atterra sul greto del torrente manda un suono metallico, cristallino: i due accorrono immediatamente, incuriositi, e si rendono conto che all'interno del ramo, scavato appositamente, si cela una verga d'oro.

Era in fondo logico, essendo ricavate le verghe dalla cavità di un ramo, nasconderle dentro dei rami.

Se ne trovano altre qua e là, lungo il greto di un torrente. Sanno di essere sulle tracce del tesoro degli Akizuki.

Non sanno ancora, mentre come al solito si accapigliano per dividersi il tesoro, prima ancora di averlo trovato, di essere osservati: dall'alto di una gola un uomo li sta osservando.

E' impassibile, a bracce conserte. Anche da lontano il suo aspetto è inquietante. Chi sarà? Che vorrà?


Di Makabe Rokurota non viene detto molto, come ogni maestro della rappresentazione Kurosawa sa che va fatto così: è molto più suggestivo un rapido accenno che lasci galoppare a briglia sciolta la fantasia del lettore.

L'aspetto fiero e marziale, senza alcun cedimento, senza un un attimo di rilassamento, e soprattutto lo stupore, il timore,  dei due cialtroni ad udire il suo nome fanno capire allo spettatore che si tratta di un personaggio fuori dal comune.

 

Sarà senza alcun dubbio lui l'eroe della vicenda.

Sapremo in concreto di lui solamente che si tratta di un generale dell'armata sconfitta di Akizuki e se gli abiti dimessi e rustici potrebbero far pensare ad un montanaro intento alle sue incombenze quotidiane, bastano il suo aspetto ed il suo sguardo a  lasciar capire che si trova in guerra.

Con chi? E perché?

 

 

E' evidente che si nasconde, ma non cerca un rifugio in cui attendere la sua sorte, è piuttosto in cammino verso un obiettivo preciso.

Prende immediatamente con disinvoltura il comando  della piccola spedizione, approvando il piano dei due scalcinati ma non sprovveduti vagabondi

Dopo averci riflettuto a lungo, per la prima volta sorride. Ed un sorriso sul volto di Rokurota, lo spettatore anche qui non può avere alcun dubbio, significherà sicuramente guai per qualcun altro.

 

Rokurota conduce Tahei e Matashichi attraverso un impervio paesaggio montuoso, in direzione di una misteriosa Fortezza Nascosta.

Sono arrivati: indica ai due la cresta rocciosa oltre la quale si trovano la Fortezza e, naturalmente, l'oro.

Si precipitano a risalire lungo la ripida e franosa pietraia, ma solo a prezzo di sforzi disumani riusciranno a varcarla: la Fortezza oltre che celata è anche ben difesa dalla natura.

 

 

Giunti in cima trasecolano: al di sotto di loro c'è la Fortezza, certo, ma c'è anche Rokurota, che non li ha seguiti eppure sta molto avanti a loro.

Per accedere alla Fortezza esiste un passaggio segreto.

 

 

 

 

 

 

In realtà esiste anche un altro passaggio, al di sotto di una rombante cascata, in cui vediamo avventurarsi Rokurota,  ma i due fannulloni non verranno mai a saperlo.

Dentro una caverna ben presidiata troveremo diverse sorprese, tra cui una vecchia conoscenza.

 

 

 

 

 

Si tratta dell'immancabile Takashi Shimura, sapientemente invecchiato dal trucco.

Aveva solo 53 anni e da quando aveva impersonato l'energico Benkei 4 anni prima si era dimostrato ancora molto arzillo: aveva partecipato nel frattempo ad oltre 40 film!

Qui impersona l'aziano generale Izumi Nagakura, con cui Rokurota tiene consiglio.

 

 

E' nella caverna occultata presso la Fortezza nascosta, assieme agli ultimi irriducibili seguaci, che si nasconde la principessa Yuki.

Si è salvata solo a mezzo di un tragico espediente architettato da Rokurota, la cui sorella si è spacciata per la principessa venendo catturata dalle truppe nemiche ed immediatamente giustiziata.

Questo concederà loro una tregua momentanea per portare in salvo la vera principessa ed il tesoro.

 

Sarà difficile convincerla, non ha accettato il sacrificio di una innocente, e questo ha creato una frattura che sembra insanabile tra lei ed il rude Rokurota, taciturno e poco adatto a giustificare la necessità del sacrificio.

Yuki non è un personaggio facile da gestire: ha solo 16 anni, ed il padre non avendo avuto il figlio maschio che sognava, l'ha allevata alternando una educazione marziale alle classiche indulgenze paterne verso l'unica figlia, facendone una persona testarda e viziata.

Non ci sono però alternative, ha già preso i panni di una donna di campagna e dovrà seguire Rokurota, di cui sembra costituire un alter ego: due personalità ugualmente forti, destinate inevitabilmente a scontrarsi.

Kurosawa lo lascia capire immediatamente, facendo replicare a Yuki gli atteggiamenti e le pose che hanno fino ad allora contrassegnato Rokurota.

Coi due straccioni e chiunque altro dovrà fingere di essere muta, per non essere riconosciuta da tutti per il suo inconfondibile aristocratico modo di parlare, e dovrà sobbarcarsi come gli altri il carico delle fascine ove è celato l'oro, immedesimandosi nella vita quotidiana di una donna di umile condizione.


Un'avventura come questa non si presta ad essere raccontata, va semplicemente vista.

Basti al lettore sapere che gli ingredienti ci sono tutti, in dosi generose eppure equilibrate.

I truccchi più astuti si rivelano controproducenti, le peggiori catastrofi si rivelano provvidenzial.

 

 

 

 

Lo sparuto gruppetto, cui si è aggiunta per strada la donna riscattata da Yuki, non ha davvero tempo di annoiarsi, e nelle stesse condizioni Kurosawa mette lo spettatore.

Un episodio almeno però dobbiamo citarlo.

Incappati in un drappello di soldati a cavallo, i fuggitivi stanno per essere sottoposti ad una perquisizione, e sarebbe la fine: non possono fuggire abbandonando il tesoro, ammucchiato su un carretto che stanno faticosamente tirando a mano.

Rokurota non ha più nulla da perdere: strappa il lungo tachi al comandante dei soldati e lo trafigge, poi si getta addosso agli altri ma non riesce a fermarne due, che fuggono a galoppo sfrenato per andare a dare l'allarme.

Le scene che seguono sono tra le più avvincenti del cinema epico. Mifune (complimenti, a lui o nel caso alla sua controfigura) si lancia all'inseguimento a briglia sciolta, impegnando lo spadone in posizione hasso no kamae, pronto a colpire: è una furia vendicatrice.

 

Raggiunge i due malcapitati e li falcia ma lo slancio lo porta ad irrompere suo malgrado nelle porte di quello che scopre con comprensibile disappunto essere l'accampamento nemico.

I lancieri lo attorniano, minacciosi eppure allo stesso tempo inspiegabilmente timorosi. Sentono qualcosa in quell'uomo.

Un comando imperioso li ferma.

 

 

 

E' il generale Hyoe, che comanda l'armata: Makabe Rokurota è un suo caro vecchio nemico: il suo miglior nemico. Se la vedrà lui.

E parte immediata la proposta: ci battiamo? Rokurota accetta immediatamente, con la gioia di un bambino invitato al suo gioco preferito.

 

 

 

 

 

L'arma prescelta è la lancia: Rokurota ne prende in prestito una selezionandola con estrema cura e disgustati commenti tra quelle degli ashigaru che assistono sbigottiti.

E qui apriamo una benevola parentesi per venire incontro ai lettori curiosi che hanno accettato la nostra sfida.

Ecco un altro indizio: l'emulo occidentale di Kurosawa cui abbiamo accennato, fa anche lui finire i suoi eroi - per errore - in bocca ad un reparto nemico.

 

E in un'altra memorabile scena uno dei protagonisti seleziona le sue armi con la stessa meticolosità di Rokurota, anche se tutta la sequenza viene tenuta su un registro più ironico che drammatico.

E torniamo a noi: anche se nella versione che abbiamo esaminato non viene dichiarato nei titoli di testa, sappiamo che da alcuni anni il maestro d'armi di Kurosawa era Yoshio Sugino (1904-1998)

 

 

Fu un grande insegnante di aikido e  figura di riferimento del katori shinto ryu, scuola ove si fa un intenso studio della naginata, arma in asta molto simile nelle modalità di maneggio alla lancia.

E' grazie alla sua accorta ed impareggiabile guida, oltre che naturalmente alla professionalità e senso artistico di Mifune, Fujita e soprattutto Kurosawa, che assistiamo al miglior duello di lancia mai visto sugli schermi.

 

Che finisce dopo un tempo che sembra al momento interminabile, ma che immediatamente dopo l'epilogo sembra allo spettatore sia stato troppo breve.

La vittoria è di Rokurota che spezza la lancia di Hyoe dopo essere penetrato alla corta distanza.

 

 

 

 

 

Dopo di che balza a cavallo, sorride soddisfatto, e si allontana in una nuvola di polvere.

I lancieri sono rimasti di sasso, nessuno accenna a fermarlo.

E Hyoei si è ben guardato dall'ordinarlo.

 

 

 

 

 

 

Al termine delle innumerevoli vicissitudini che abbiamo scelto di non raccontare (andate piuttosto a vedere quest'opera quando potete o procuratevene subito una copia),  le sorti dei fuggitivi, caduti in trappola, saranno proprio nelle mani di Hyoe,

Come finirà?

 

 

 

 

 

Lo avrete capito fin dai trionfali squilli di tromba che vi hanno accolto allo spegnersi delle luci in sala o appena premuto il tasto play nel vostro soggiorno: finirà nel migliore dei modi.

Una Yuki irriconoscibile negli abiti di corte, ritornata principessa dopo una salutare viaggio nella umile vita quotidiana del suo popolo, abbandonati gli infantili capricci, riceve i suoi compagni di viaggio.

 

 

 

Accanto a lei  Hyoe elegantemente abbigliato da cortigiano e Rokurota rivestito di una inquietante armatura.

E' lui a consegnare una congrua ricompensa ai Tahei e Matashichi, eroi involontari e recalcitranti.

 

 

 

 

 

 

Che scendendo la scalinata del palazzo ancora si guardano indietro, increduli di quanto loro hanno immaginariamente vissuto e noi realisticamente immaginato.

 

 

 

 

 

 

 

Ci allontaniamo anche noi, ringraziando di cuore il maestro Kurosawa.

Ha voluto questa volta donarci una favola bella ed affascinante, che supera ogni barriera di tempo e di luogo.

Che ha qualcosa da dirci, qualcosa da lasciarci, comunque:  che venga ambientata nel Giappone in epoca samurai, nel futuro remoto delle Guerre Stellari, oppure nell'epopea western rivista con gli occhi di un europeo

E se ancora non avete capito a chi alludiamo, pazienza: potete pensarci ancora.

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