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Miyao: gli artigiani Meiji di fronte alla rivoluzione industriale - Il Drago Re del Mare
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Il Drago Re del mare. Fusione in bronzo ad opera del gruppo Sanseisha. Due differenti iscrizioni riportano: la prima Opera di Sansei-sha in Tokyo ed esibito alla Seconda Esposizione dell’Industria Domestica, la seconda Iniziato ai primi del nono mese Meiji 12 (settembre 1879) e terminato nel primo mese Meiji 14 (gennaio 1881). Artista Oshima Joun, assistito da Takamura Koun e Hasegawa Siu’un. Oshima Joun era il nome d’arte del fondatore della ditta Sanseisha, Oshima Katsujiro.
Si tratta di una opera di grande pregio in cui viene rappresentato l’ambasciatore di Ryujin, il mitico dragone re del mare, che assistito da una figura marina fantastica ma dall’aspetto quasi umano, consegna il Gioiello della Mare al nobile Takenouchi no Sukune, ministro dell’imperatrice Jingô.
Jingô (o Jingu) fu una figura leggendaria vissuta nel III secolo che resse le sorti dell'impero dopo la morte del consorte, l'imperatore Chuhai, e guidò di persona le armate nipponiche alla conquista della Corea.
Il gruppo (alto 135 centimetri compresa la base) è talmente ricco di dettaglio da presentare una elevatissima difficoltà tecnica sia per la fusione che per l'assemblaggio delle varie parti.Quello del dignitario è il costume tipico dei kuge, uomini di corte, ma indossa la parte superiore di una armatura ed impugna una naginata, oltre a portare al fianco il chokuto (la lunga e dritta spada arcaica) ed il tantô (pugnale). Il vento marino scuote suggestivamente le vesti dei personaggi.
Lo scoglio su cui posano i personaggi è reso con estremo gusto del dettaglio e brulica di vite marine che sfuggono ad un esame non ravvicinato dell’opera; nascosti negli anfratti ed invisibili all’osservatore superficiale, e purtroppo non fotografabili nelle precarie condizioni di luce in cui vengono tenute per non deteriorarle le opere d’arte esposte nei musei, ci sono granchi, molluschi, tartarughe.
Le incrostazioni degli scogli vengono realisticamente rese con agemine in lega, ma le sottili sfumature cromatiche apprezzabili alla visione diretta vengono appiattite nella riproduzione tipografica qui mostrata.
Non c’è da stupirsi che quest’opera abbia richiesto per la sua realizzazione oltre un anno di lavoro da parte di 3 artisti oltre a un numero non precisabile di collaboratori e tecnici. Anche gli abbigliamenti dei personaggi sono finemente trattati con intarsi di differenti metalli. Si ritiene che il famoso artista Takamura Koun, figura chiave nel passaggio dalle raffigurazioni tradizionali dell’epoca Edo al realismo Meiji, abbia preparato il modello in legno su cui lavoró Oshima Joun.
Molte opere di questo periodo sono firmate da artisti conosciuti per una loro precedente attività nelle forniture delle spade, e questo è il segno incontestabile di una loro conversione alla mutate condizioni del mercato.
Si fa strada nello stesso tempo, per venire incontro ai gusti occidentali, una maggiore ricerca del realismo, che porta naturalmente ad una maggiore diffusione della già realistica scuola di Mito a scapito delle piú conservative scuole di Kyoto e di Tokyo. Ma la parte piú sorprendente, e per certi versi amara, della storia rimane ancora da narrare.
Gli artigiani attivi nel periodo Edo erano abituati a lavorare per dare il meglio di se, i committenti infatti questo volevano e il costo finale dell’opera non era importante per il committente, che cercava il meglio e non badava a spese. Il panorama cambió bruscamente quando gli artisti dovettero lavorare a condizioni di mercato: la domanda si rivolgeva ormai verso un prodotto, anche di qualità, che costasse sempre meno. E in quantità sempre maggiori.
Apparvero sul mercato in tempo molto breve delle opere di aspetto gradevole e dalla rifinitura apparentemente impeccabile, ma costruite con procedure completamente differenti da quelle adottate per i prodotti artigianali e coinvolgendo un numero minore di artisti e operai. Seguendo un principio introdotto, ma con moderazione, già dagli artisti precedenti gli artigiani della “decadenza” iniziarono inoltre a predisporre le loro opere per una riproduzione in serie; per le procedure di rifinitura e colorazione vennero abbandonati le agemine e gli intarsi di vari metalli a favore di economici procedimenti di doratura o galvanizzazione. La fonderia Sanseisha non sopravvisse a lungo e dovette chiudere i battenti dopo avere tentato perfino, per sopravvivere, di contraffare i manufatti mettendovi la firma di Murata Seimin (1769-1837) a giustificare il loro prezzo elevato. Ma invano:
“La domanda straniera mostrava cosi scarsa discriminazione che gli esperti, trovando impossibile ottenere una remunerazione adeguata per i loro lavori di classe elevata, furono obbligati ad abbandonare il campo o abbassare i loro standard al livello del gusto comune”. [4]
Tra le piú note ditte specializzate nella produzione in piccola scala di opere di seconda scelta, forse addirittura la piú nota, è la Miyao, che si affermó rapidamente sul mercato. Al punto che ancora oggi, nel gergo degli antiquari questo genere di manufatti viene chiamato semplicemente miyao, qualunque sia la effettiva provenienza.
[3] Oliver Impey e Malcom Fairley, The dragon king of the sea, Japanese decorative art of the Meiji period, Ashmolean Museum Oxford, 1991. Da questo testo, che rappresenta il catalogo della mostra di cui abbiamo parlato, provengono anche alcune illustrazioni dell’articolo.
[4] Brinkley, come riporta il già citato The dragon king of the sea.