Randori

Quattro chiacchiere con Paolo Bottoni - Fuori del tatami

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Per molti anni ti sei occupato nell'ambito dell'Aikikai di cosa esattamente.

Non è un po' presto per il coccodrillo?... Per chi non lo sapesse: si chiama "coccodrillo" il pezzo di repertorio che sta nei cassetti di tutte le redazioni. Una scheda ove si piange la perdita di questo o quel vecchione in lista di attesa per l'aldilà, pronta per essere tirata fuori quando le agenzie annunceranno la ferale notizia. Il coccodrillo viene preparato di norma da pigri topi di redazione, relegati a quel compito perché incapaci di scrivere un articolo vero. Inevitabilmente cominceranno con un "scompare con lui" e continueranno con una interminabile serie di cariche e incarichi che faranno concludere al lettore "Ma che gran rompiscatole che ci siamo levati di torno!"

Ma se coccodrillo deve essere, ebbene: coccodrillo sia.

Dopo alcuni anni di pratica al mitico Dojo Centrale dell'Aikikai, venivo già segnalato come persona pericolosa per se e per gli altri, con perniciose tendenze ad impicciarsi di tutto. La cosa tutto sommato faceva comodo: quando mi trovavo al Dojo Centrale mi toccava di tutto, dalla riparazione delle tegole alla esoterica procedura di accensione dei freddabagni (lo so che si chiamerebbero scaldabagni, ma al Dojo Centrale chi ha mai fatto la doccia calda?). Le rare volte che non c'ero era ancora meglio, si sapeva subito a chi dare la colpa per quello che non funzionava.

Inevitabile che nel febbraio del 1978 l'allora segretario nazionale, Stefano Serpieri, cominciasse a concupirmi. Divenni quindi il suo assistente in segreteria, e presi poi il suo posto all'inizio degli anni 80. Gli adescamenti di Stefano, una persona la cui dedizione al lavoro era assoluta e proverbiale, si prolungarono anche alla rivista Aikido, che fondata nel 1972 da Giovanni Granone (altra persona di cui ho ricordi indimenticabili) aveva trovato in lui un degno successore. Ma mi sembrava veramente troppo per me, e feci orecchie da mercante. Iniziai però di tanto in tanto a farmi convincere a scrivere un articolo. Alcuni anni dopo, se non ricordo male era nel 1983, in occasione dell'ennesimo periodico stravolgimento della redazione mi resi conto che era necessario dare qualcosa di più [divenendone redattore]. Da allora fino al gennaio 2009, sebbene con alcune lunghe pause dovute ai miei impegni all'estero, non ho mai cessato di occuparmi della rivista dell'Aikikai, sia come semplice collaboratore che più tardi di nuovo come redattore.

Dal 1988 ho cominciato a viaggiare sempre più all'estero e ho dovuto rassegnare le dimissioni dalla carica di Segretario Nazionale. Dal 1990 risiedo stabilmente a Bruxelles.

A metà degli anni 90 con la chiusura forzata del Dojo Centrale l'Associazione conobbe una seria crisi, e sentendomi di colpo privato di quella che era stata la mia casa, il mio luogo natìo, e sentendo l'appello di tante persone che mostravano di avere fiducia in me, sentii il dovere di fare quanto potevo. Non la buttiamo tanto sul patetico, lavorare per quello in cui credi non pesa, non deve pesare: ti arricchisce.

Le nuove tecnologie permettevano ormai di tenersi in contatto anche a distanza: divenni una sorta di consulente a tutto campo, un campo d'azione che era un po' quello dei giornalini di guerra: arriva dove, come e quando può. Diciamo che era l'equivalente - su scala un po' più vasta - del ruolo di factotum, ma a volte era purtroppo facpocum, che occupavo già negli anni 70 al Dojo Centrale. Ho dato assistenza soprattutto alla segreteria nazionale, effettuando anche continui aggiornamenti del software di gestione da me scritto nel lontano 1985 e che ormai meriterebbe di andare in pensione come me ("gira" in ambiente ms/dos, in linguaggio dBaseIII poi convertito a FoxBase: qualcuno si ricorda ancora che roba è?). Intorno al 2001 la solita crisi ciclica sconvolse di nuovo la rivista Aikido, e mi riproposi per l'ennesima volta nel mio ruolo salvifico, che non è quello di salvatore della patria: diciamo semplicemente quello della persona che lavora con passione ma anche, ci vogliono eccome se ci vogliono, con metodo e costanza.

Dimenticavo di dire che molti mi conoscono anche come "il fotografo dell'Aikikai". E' vero, iniziai nel 1981 al raduno estivo di Coverciano, e da allora hanno tentato di non farmi più smettere.

Tutto qui...

Nel corso del 2008 ho deciso che queste mie esperienze, che ho vissuto con grande piacere e che mi hanno lasciato ricordi incancellabili, dovevano terminare. Ho mantenuto così una promessa fatta ad Hosokawa sensei quel lontano febbraio del 1978. Gli promisi che appena fosse stato possibile o necessario avrei lasciato tutto per ritornare solamente a sudare sul tatami. Quando gli dissi che il momento era arrivato, mi ha sorriso. Non ci siamo detti null'altro.

Leggendo le vecchie riviste non si può far a meno di constatare che la maggior parte degli articoli hanno la tua firma, questa conoscenza dove come e quando nasce?

So di non conoscere granché; so altrettanto bene però di avere sete di conoscenza, e solo questo mi piacerebbe di riuscire a trasmettere

E' difficile dire quando nasce l'attrazione verso una cultura, verso una forma di arte, verso una persona; probabilmente si tratta di un bisogno innato, una esigenza che porti dentro di te ancora prima di avvertirla, e che attende solo l'occasione giusta, l'incontro giusto, per venire alla luce

Credo di avere avuto un approccio molto precoce con la cultura giapponese; negli anni 50 infatti andavano molto di moda i film giapponesi, e non passava mai molto tempo tra una proiezione e l'altra, in televisione, di un film di qualche grande maestro

Non erano certamente i tempi di oggi, per chi è giovane è perfino difficile immaginarli: nel mio quartiere, un piccolo e sonnacchioso borgo sul colle Aventino, nel cuore di Roma, esisteva una sola televisione, presso la sede di un partito politico, la ormai defunta Democrazia Cristiana; e lì mi portava la mia prozia, credo che avessi 3 o 4 anni, a vedere indiscriminatamente tutto quello che riuscivo a scorgere su quel minuscolo schermo in bianco e nero tentando di aprirmi uno spiraglio in mezzo ai tanti spettatori, tutti ovviamente più grandi di me

Da allora qualcosa mi rimase, e quando qualche anno più tardi anche la mia famiglia conobbe l'avanzamento sociale di avere una televisione in casa non mancavo mai di implorare i miei genitori di lasciarmi vedere Rashomon o I sette samurai, opere che il resto della famiglia odiava cordialmente in quanto noiose ed incomprensibili

Sarebbe sciocco dire che io invece le comprendevo; ma proprio questa impossibilità fu la molla scatenante che ancora adesso continua a muovermi; ho ancora bisogno, desiderio, piacere di conoscere e di pormi domande; non importa se sono in grado o meno di trovare una soluzione, continuerò a cercarla per il resto della mia vita

Non importa quanto sia profonda questa conoscenza, so perfettamente di essermi disperso in troppi rivoli senza approfondirne veramente nessuno, ma per il mio carattere va bene così: avere perlomeno le nozioni di base nel maggior numero possibile di campi permette di avere una visione di assieme altrimenti non ottenibile

A cosa serve questo sul piano pratico? non lo so dire, e forse nemmeno mi è mai interessato; so che la ricerca della via mi affascina, mi intriga, mi necessita; avverto lo stimolo continuo a camminare, sono molto meno interessato a raggiungere una meta e lì arrestarmi

Se qualcuno pensa per questo - lo sento dire sempre più spesso - che io sia un maestro, ebbene stia in guardia: la mia strada non porta da nessuna parte ed è necessario che sia così

E anche se non lo fosse, a me così piace

Quali sono stati gli eventi da te organizzati nell'ambito Aikikai di cui vai particolarmente fiero.

Non ricordo di essere mai stato fiero di qualcosa in vita mia. Alcune cose mi sono riuscite, e l'ho considerato normale e doveroso. Altre di meno, ho cercato allora di capirne le ragioni e di crescere per essere all'altezza in futuro. Il mio lavoro nell'Aikikai d'Italia non fa eccezione.

Sono comunque sereno nell'analizzare quanto fatto, riconosco di avere lavorato con scienza e coscienza.

Molti anni fa, quando fui chiamato improvvisamente ad assumere l'incarico di Segretario Nazionale dell'Aikikai, prendendo il posto di Stefano Serpieri, ebbi un attimo di panico: non mi sentivo all'altezza. Solo chi ha conosciuto in prima persona la assoluta dedizione di Stefano può comprendere quanto fosse pesante la sua eredità. A farmi uscire dalla crisi fu proprio la riflessione che non partivo da zero: se pure era pesante, era comunque una eredità. Partivo già "ricco" di quanto lui lasciava, e sarebbe stata una mancanza di rispetto nei suoi confronti lasciar disperdere il patrimonio da lui creato. Di questo posso dire di essere serenamente cosciente: di avere iniziato il mio lavoro al punto X e di averlo lasciato al punto Y, oggettivamente più avanzato e degno di chi mi aveva preceduto.

Altre due voci del mio immaginario bilancio vanno messe all'attivo.

La mia pratica dell'aikido è stata per forza di cose discontinua, avendomi gli impegni e gli imprevisti della vita travolto o fisicamente portato via in diverse occasioni. Ho sempre per mia fortuna trovato la forza di "tornare a casa", come quegli animali abbandonati o smarriti che si ripresentano alla porta di casa dopo mesi od anni, smagriti, feriti, alienati. Ma di nuovo a casa.

Ed anche, forse soprattutto, la considerazione che ovunque mi abbiano portato i casi della vita sono stato alla resa dei conti considerato con rispetto, anche da chi si era trovato a combattermi. Molte delle persone che me ne hanno chiesto ragione hanno individuato nella mia pratica dell'aikido - anche quando ignoravano del tutto l'esistenza stessa dell'arte - le ragioni che mi obbligavano ad agire con integrità.

Ecco, se proprio dovessi trovare un qualcosa di cui essere fiero, forse potrebbe essere questo: la consapevolezza di essere considerato da miei maestri un discepolo che sta seguendo la via, ovunque si trovi e qualunque cosa stia facendo. Sul tatami, che rimane in fin dei conti la parte più facile, ma soprattutto fuori.

Come sono cambiati gli aikidoisti nel tempo.

Quale è la differenza di atmosfera su tatami, ammesso che ci sia con quella degli inizi.

Cominciamo dalla parte negativa. Quando io ho iniziato la pratica, l'aikido era un'arte che richiedeva molto impegno e non consentiva di raccogliere molto: erano i cosidetti "tempi eroici", piccole conquiste che ora sono alla portata di tutti erano allora una chimera per molti. Per darne un'idea: erano pochi, forse non più del 20%, i praticanti in grado di eseguire una corretta caduta su kotegaeshi; nessuno dei pochi yudansha era in grado di ripiegare correttamente la sua hakama...

Ora c'è molta più professionalità da parte degli insegnanti, i progressi dal lato praticanti sono molto più rapidi, gli scambi culturali col Giappone sono molto più facili (io personalmente non ci sono mai stato) e ormai molti conoscono perlomeno i rudimenti della lingua, altri la padroneggiano alla perfezione.

Eppure sento che c'è in giro meno entusiasmo, meno passione: tutto è fatto meglio, ma si ha l'impressione che sia fatto con una certa freddezza, non si prova la sensazione che venga fatto per amore, ma piuttosto per ottenerne qualcosa in cambio. E, da parte di alcuni insegnanti, osservo un esagerato afflusso di informazioni non verificate verso gli allievi, forse per un bisogno inconscio di dimostrare la propria maestria ci si allarga a parlare ex cathedra di argomenti di cui palesemente si conosce poco.

Forse è il necessario prezzo da pagare per la diffusione dell'aikido su scala più vasta: dovendo aumentare la "produzione" per venire incontro alla richiesta è ovvio che viene meno la produzione artigianale e il prodotto diventa professionalmente ineccepibile ma un po' freddo, asettico e talvolta con una confezione molto strillata, che si pensa lo valorizzi di più.

La parte positiva: il volto soddisfatto di tante persone al termine della lezione, le confessioni di tanti praticanti che un po' timidamente, quasi come se se ne vergognassero, confessano di sentirsi persone migliori da quando hanno iniziato a praticare. Questo basta a ripagare di ogni cosa

Del tuo amore per l'aikido cosa puoi dirmi.

Lo sapevo che non dovevo parlare di amore.... Non so se il mio legame con l'aikido si possa definire amore. L'amore, sentimento indispensabile che muove l'universo e forse la vetta più alta dell'essere umano, ha tuttavia un fondo di egoismo. Il nostro amore lo consideriamo proprietà esclusiva e tendiamo a non volerlo dividere con nessuno, inoltre siamo portati a pretenderne qualcosa.

Si sente spesso dire invece "ti presento un amico". L'amicizia è una forma di amore probabilmente non meno nobile, sicuramente più disinteressata ed altruistica. Se l'amore ce lo vogliamo tenere per noi, abbiamo invece piacere che tutti conoscano i nostri amici e gioiscano, fruiscano, di loro. Se l'amore ha spesso un sottofondo di gelosia, l'amicizia non ne ha. Ecco, direi per concludere che tra me e l'aikido è sbocciata tanti anni fa una profonda e disinteressata amicizia. Credo che sia destinata a durare, e ho piacere di condividerla con tanti altri esseri umani.

 


 

Fin qui si è spinto l'intervistatore. Chi fosse rimasto con qualche residuo di curiosità non ha che da Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Un tentativo di risposta è assicurato ma non sono garantiti i risultati: sono poche le domande che ancora non mi sono fatto da solo, ma le risposte, che tanti anni fa credevo per loro natura immutabili e consolidate, si trasformano, evolvono,  tornano indietro sui loro passi in continuazione: si direbbe che abbiano l'argento vivo addosso. E qui il paziente lettore spintosi fino alle ultime righe ha diritto ad una precisazione. Il fine ultimo, la meta di ogni essere vivente, è il ricongiungimento con l'universo attraverso il proprio annullamento personale. In altre parole, la morte. Non ho particolare fretta di arrivare a questa meta, non la cerco e non vi dirigo i miei passi: arriverà da sola. Nel frattempo il cammino che mi hanno indicato i miei maestri, pur essendo apparentemente senza meta, con un sospetto di essere senza scopo, è bello ed appagante. E a questo voglio limitarmi: a camminare sempre per seguire virtute e conoscenza. Non a cercare di arrivare. Confermo che la mia strada non vuole arrivare da nessuna parte. Ma da qualche parte, comunque, arriverà.

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