Origines
Artemarzialmente - In pratica
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Non si deve pensare che l'impostazione didattica del maestro fosse indirizzata verso la difesa personale: semplicemente non intendeva rescindere il legame storico, ma anche culturale, tra l'aikido e la tradizione millenaria da cui proveniva.
Erano frequenti i suoi richiami durante l'allenamento ma anche, non ci si sorprenda, durante l'aikitaiso alle possibili applicazioni pratiche di quanto facevamo normalmente al solo scopo primario di accrescere le nostre capacità fisiche, mentali e morali. Il tutto era da lui definito aikijutsu, da non confondere con la quasi omonima disciplina conosciuta anche come Daito ryu o Takeda ryu.
Il suo mawashi geri apparteneva per esempio al genere cosidetto proibito e capitò di chiedergli come approssimare queste sue capacità, magari adottando alcuni sistemi del karate; avevamo infatti nel gruppo molti ex praticanti di altre discipline che qualcosa ne sapevano.
Rispose che non era necessario anzi si sarebbe rivelato alla fine dei conti controproducente se vi si fosse troppo insistito. Erano già presenti nell'aikido e nell'aikitaiso i fondamentali che lo permettevano.
L'esercizio preliminare in cui si esegue un kaiten a sinistra (all'epoca ogni movimento iniziava a sinistra e le ripetizioni erano sempre otto) e poi a destra, puntando il tallone posteriore contro il tatami, era propedeutico all'esecuzione di maegeri chudan.
La posizione è anche analoga a quella dei passi unpo del kata hojoken.
La forma maegeri jodan, sia pure possibile, sia pure spetttacolare, era sconsigliabile in quanto fa perdere facilmente l'assetto a chi la esegue.
Per limitare questo rischio tuttavia aveva introdotto nel taiso degli esercizi tipici dei sumotori finalizzati a maggiore scioltezza degli arti inferiori.
Come sanno i suoi discepoli nell'ikkyo di Hosokawa sensei si avanza di solito col piede esterno e poi si esegue un mezzo kaiten verso l'uke, in un certo senso puntandolo. Questo permetterebbe se fosse il caso di vibrare un maegeri con la gamba interna verso la mascella dell'avversario, mettendolo fuori combattimento. Non è naturalmente la scelta di elezione, ma potrebbe rendersi necessario ove gli avversari fossero diversi e non ci fosse modo di immobilizzare tranquillamente il cliente di turno portandolo a terra in osae.
In alternativa era possibile – horresco referens – vibrare il maegeri o hiza geri sul gomito dell'uke, tenuto saldamente fermo, in modo da inabilitarlo a continuare la discussione, o semplicemente salire con il piede sopra il suo gomito, portandolo a terra in modo molto persuasivo. Nella foto (di Simone Chierchini), il maestro esegue questa forma particolare durante il medesimo seminario cui si riferiva la foto precedente.
Il malcapitato gomito poteva essere anche soggetto a trattamento nell'esecuzione di hijikime osae, sostituendo all'osae un atemi vibrato col proprio gomito, sostituibile e sostituendo nell'allenamento quotidiano, per evitare conseguenze spiacevoli, con un deciso movimento del gomito stesso che ripetesse le modalità e la traiettoria dell'atemi ma con rigoroso controllo. In alternativa, consigliata a chi non avesse grande forza fisica come molte donne, ci si poteva lasciar cadere a peso morto sul gomito preventivamente portato in leva, scalciando le gambe verso l'alto in modo da accrescere la forza dell'impatto. Questa modalità veniva ovviamente provata lasciando la presa prima che il corpo arrivasse a contatto col gomito.
Un tecnica ormai praticamente desueta, aikiotoshi, veniva nella esecuzione giornaliera interrotta a metà sollevando l'uke in aria per poi riportarlo a terra oppure lanciarlo dietro le proprie spalle lasciandogli la possibilità di cadere senza danno. In esecuzione aikijutsu veniva proseguita, sollevando energicamente le gambe di uke, fino a quando la sua nuca impattasse energicamente a terra. Ovviamente l'uke preparato a questa evenienza aveva cura di attutire l'urto con le braccia e tenere la testa sollevata (“Guardare tanden!”).
Non sempre le modalità di esecuzione di Hosokawa sensei erano più “di artemarzialmente” rispetto al quelle di altri maestri. Nella fase finale di sankyo a solo titolo di esempio usava eseguire un rapido irimi tenkan per portare il braccio di uke in una posizione simile a quella di hijikime osae ura (tecnica riservata unicamente alle applicazioni “pratiche”, molto raramente mostrata e unicamente a livello yudansha); ma molto attenuata, non oso dire morbida ma ci andava vicino, semplicemente per mantenere il controllo di uke e da lì andare verso l'immobilizzazione finale.
Tada sensei è uso ad accennare a queste modalità con altra formula rituale: “se arte marziale allora...”; seguita spesso da atemi talmente veloci che si intuiscono solamente. Per evitare che uke si sottragga alla immobilizzazione con un mae ukemi, anche involontario in seguito allo squilibrio, il sankyo "normale" lo accompagna invece molto spesso con un deciso atemi all'occipite. Avvertendo tuttavia che non bisogna eccedere in quanto il colpo potrebbe avere conseguenze superiori al previsto, e al voluto.
Tale colpo, ma non lo spiega facendolo piuttosto semplicemente vedere, viene portato in modalità tale che la sua efficacia sia inevitabile, sia per la modalità di esecuzione sia per la direzione e l'angolazione della zona scelta come obiettivo.
L'atemi di aikido infatti non ha molto a che vedere con quello di altre discipline ed è in sostanza quello che viene spontaneamente, ma efficacemente, vibrato da chi ha consuetudine quotidiana con l'utilizzo della spada.
Nel chudantsuki la mano non viene chiusa completamente, rimane semiaperta come se impugnasse un'arma e si colpisce abitualmente con le nocche, come in questa immagine di anni lontani in cui Fujimoto sensei attacca con il tanto.
Un suo attacco a mano nuda sarebbe stato assolutamente simile, salvo la posizione dell'indice che impugnando il tanto ne aiuta la direzionalità ma andrebbe altrimenti raccolto assieme alle altre dita.
L'atemi non andrebbe indirizzato a caso ma dovrebbe essere ben mirato verso dei punti precisi su cui va concentrata l'energia, la superficie di impatto va quindi ridotta il più possibile e non dovrebbe arrivare a toccare semplicemente l'avversario ma oltrepassarlo. E non solo gli atemi: Asai sensei ricordava che all'Honbu Dojo in anni ancora più lontani si raccomandava di terminare shihonage con l'obiettivo di portare uke non a terra, ma idealmente ben al di sotto del livello del suolo.
Nella esecuzione pratica è quindi preferibile deviare l'atemi per non colpire l'uke, piuttosto che arrestarlo prima del contatto: verrebbe inevitabilmente frenato, perdendo in questo modo completamente la sua efficacia. Ed è una abitudine da non prendere, perché nelle situazioni impreviste scompare facilmente l'intuizione e affiora l'abitudine.
Il colpo può essere eseguito in rotazione per aumentarne le capacità di penetrazione, ma essendo il kamae del praticante di aikido simile a quello della spada non dovrebbe partire mai col palmo in alto (come in alcune scuole di karate per intenderci) e se ruotato dovrebbe ruotare di preferenza in direzione inversa (come quando si subisce kotegaeshi) aumentandone la forza di penetrazione e rendendolo difficilmente visibile. Partendo quindi col palmo in verticale per arrivare a colpire col palmo in alto.
Ma in aikido vengono privilegiate non le percussioni, aventi il massimo di energia ma concentrata in un unico punto facilmente evitabile, ma i tagli, che hanno il loro effetto su una intera linea. Sorvolo su ulteriori descrizioni delle relative modalità, accenno solamente a un tipo di allenamento cui ricorreva con una certa frequenza Hosokawa sensei. Il tori doveva essere circondato da 8 uke, o perlomeno da un numero non inferiore a 4, che gli giravano intorno in continuazione come i pellerossa intorno alla carovana nei film western degli anni 50. Al comando dell'insegnante (UTE!) colpivano all'unisono con uno shomen, il compito di tori essendo meramente quello di evitare di essere colpito. Ne usciva fuori di norma meno ingloriosamente chi applicava nell'evasione gli spostamenti canonici di tsuki ashi, okkuri ashi, ayumi ashi, irimi, tenkan, kaiten. Ma quasi tutti nel panico se ne dimenticavano completamente. Eppure si trattava di un panico del tutto ingiustificato, essendo un semplice allenamento.
Non si creda che le posizioni in materia di aikijutsu fossero le stesse per tutti i maestri storici dell'Aikikai. Hosokawa sensei e Ikeda sensei non solo avevano impostazioni simili ma spesso elaboravano addirittura assieme i loro programmi didattici, della impostazione di Tada sensei ho già accennato.
Fujimoto sensei aveva una ideologia di base differente. Per lui, perlomeno all'epoca poi non ne parlammo più, l'aikido non poteva più essere considerata un'arte marziale, era già qualcosa di diverso. Forse se gliene avessi parlato avrebbe sposato senza riserve la definizione che ne diede Tada sensei, per quanto diversi anni dopo: “una disciplina di formazione derivata dalle antiche arti marziali”.
Ma nemmeno lui voleva rompere il legame tecnico con la tradizione, vi poneva semplicemente meno enfasi. Ricordo una lezione per yudansha in cui dibattè a lungo sul tema gokyo, applicato a una ipotesi di attacco all'alto con tanto (non particolarmente accademica, basta immaginare che al posto del tanto ci sia una bottiglia oppure una sedia e diventa molto realistica).
Propose una sua versione personale, premettendo che non era assolutamente una critica all'altra versione proposta usualmente da Tada sensei. Si dichiarava certo che su 100 esecuzioni il maestro fosse in grado di portarne fino in fondo con assoluta coerenza almeno 101, ma Fuji confessava di non sentirsi alla sua altezza. Proponeva di conseguenza una esecuzione più alla portata dell'essere umano medio, in parole povere più realistica. Il fulcro del tutto, oltre a una entrata meno diretta che permettesse maggiore distanza dall'arma, era la tecnica di disarmo. Rinunciando all'eleganza, che pure era uno dei suoi leit motiv anzi sicuramente quello più ricorrente, privilegiava l'efficacia pratica. L'aikijutsu.
Di cui non ho in realtà particolare nostalgia, come potrebbe pensare chi ha avuto la pazienza di arrivare fin qui. E' semplicemente il nostro antenato, e fa piacere – anche se non lo si ritenesse necessario – sapere da dove proveniamo e di chi siamo discendenti. Senza per questo vivere nel passato.