Tecnica e storia
Le armi giapponesi del museo Stibbert
Indice articoli
Nel giugno 2013 si è tenuto presso il Centro Civico Colonnata Camporella di Sesto Fiorentino il secondo seminario sulla spada giapponese organizzato dalla INTK, Associazione Italiana per la spada Giapponese e tenuto da Francesco de Feo. Il relatore ha voluto per questa seconda sessione di studio un titolo emblematico: All'ombra della spada.
Nel corso della lunga e proficua giornata di studi è stato soprattutto messo in rilievo il particolare carattere delle scuole d'arte giapponesi, e non solo quelle che si dedicano da molti secoli al culto della spada. La spersonalizzazione dell'artista, che al momento di entrare a far parte ufficialmente della scuola ottenendo l'autorizzazione a firmare le sue opere, assume tuttavia un nuovo nome che lo identifica come adepto di quella scuola, portandolo in quel momento ad abbandonare di fatto l'identità precedente per assumerne una competamente nuova al servizio non di se stesso ma dell'arte.
Parte rilevante nel seminario ha avuto lo studio di una importante lama che costituisce un anello di congiunzione tra la tipologia tachi e quelle uchigatana e poi katana che iniziarono a diffondersi ed affermarsi alle soglie del periodo Sengoku.
La montatura, anchessa di grande valore artistico, risale invece al tardo periodo Edo - Shinshinto in termini di epoche di produzione delle lame - se non forse al primo periodo Meiji. In ogni caso precedente all'Haitôrei che ha interdetto nel 1876 il porto della spada.
Sarebbe vano pretendere con le nostre poche risorse di rendere appieno il senso di quanto de Feo, che vediamo nella foto in alto assieme al maestro togishi Massimo Rossi, segretario della INTK, ha voluto trasmettere agli studiosi ed agli appassionati. Possiamo solamente augurarci che intervengano sempre più numerosi e di vederli progredire costantemente nei loro studi.
La giornata successiva è stata dedicata ad una visita guidata al Museo Stibbert, che ha sede a Firenze, che vanta una delle più importanti collezioni italiane di armi giapponesi. De Feo ha illustrato le preziose lame esposte nella mostra Samurai! Armature giapponesi della Collezione Stibbert mentre il presidente onorario dell'INTK Alberto Roatti oltre ad illustrare convenientemente le armature giapponesi ha saputo guidare i visitatori anche alla scoperta di quelle europee e medio orientali, non meno importanti e numerose.
Non è tuttavia possibile parlare del Museo Stibbert senza un breve accenno al suo creatore: Frederick Stibbert (1838-1906).
Di padre britannico e madre italiana, rimase per tutta la vita legato ad entrambe le nazioni, ma fu a Firenze il centro della sua vita.
Pur non tenendosi in disparte dalle tensioni sociali e politiche del suo tempo, fu volontario nelle formazioni di Garibaldi, Stibbert si dedicò soprattutto al collezionismo, forte dell'imponente patrimonio rimasto nelle sue mani: era infatti l'ultimo discendente di una famiglia molto facoltosa di militari britannici.
Concepì e costruì fin dalle fondamenta una grande villa a Montughi, allora nelle vicinanze di Firenze ed ora inglobata nella città, e continuò per tutta la vita ad accumularvi opere d'arte ma soprattutto armi, provenienti da ogni parte del mondo.
Alla sua morte, essendo privo di eredi, lasciò tutto alla corona britannica, ma con facoltà di trasmettere la proprietà al Comune di Firenze, come effettivamente avvenne.
Il gusto dell'epoca era per molti versi distante da quello moderno, e Stibbert era naturalmente figlio del suo tempo.
Una sorta di horror vacui serpeggiava all'epoca non solo tra i collezionisti privati ma anche nelle raccolte ufficiali.
Veniva raccolto di tutto, colmando fino all'inverosimile sterminate vetrine prive di alcuna spiegazione sopra quanto esposto, mentre vari oggetti- anche di provenienze, epoche e stili non omogenei - venivano assemblati artisticamente per comporre magari dei trofei appesi a grande altezza alle pareti senza che il visitatore potesse esaminarli e nemmeno vederli da vicino.
Eppure le camere delle meraviglie ottocentesche hanno un loro innegabile fascino, e quella di Frederick Stibbert ne è uno dei massimi esempi.
I criteri di conservazione e di esposizione di un museo moderno sono certamente altri, non compatibili con quelli romantici dei grandi collezionisti dell'ottocento, cui pure dobbiamo grande riconoscenza.
Anche la disposizione voluta da Stibbert è una testimonianza importante di un tempo passato di cui è necessario conservare memoria.
Ci sembra inevitabile accogliere con favore la proposta di de Feo: conservare il Museo Stibbert così come è ora, esponendo tuttavia a rotazione le opere più significative, rispettando criteri più moderni e scientifici.
Ed è appunto quanto intende fare la mostra Samurai!, che rimarrà aperta al pubblico fino al 3 novembre 2013, esponendo e descrivendo convenientemente settanta dei suoi capolavori.
La visita al museo inizia da una grande sala in cui sono raccolte numerose pregevoli armature, prevalentemente italiane. Per apprezzarle appieno è indispensabile la guida di un esperto, che era in questa occasione Alberto Roatti.
E' particolarmente percepibile fin da qui la particolare impostazione voluta da Stibbert per la sua esposizione, che lo accomuna agli grandi collezionisti ottocenteschi ma che era, come abbiamo già detto, condivisa anche dai maggiori musei istituzionali.
L'ambientazione è innegabilmente artificiosa: si è voluta ricreare una atmosfera suggestiva.
Le grandi sale sono decorate con gusto arcaicizzante e in alto sulle interminabili pareti, lungo le modanature, corrono file di blasoni di gusto medioevale.
Le opere d'arte esposte sono tuttavia di vario genere e varie epoche.
Qui vediamo come le pareti siano letteralmente ricoperte di tele dipinte,che è però difficile apprezzare per la loro collocazione, per il senso di saturazione che dà il loro affollamento, e perché distolti da altre opere.
La parte del leone è riservata infatti alle armi, disposte in modo da incutere all'osservatore stupore, ammirazione, una punta di timore.
Giustamente famosa è la cosidetta cavalcata.
All'interno di una lunga sala è disposto su due file un corteo di cavalieri rivestiti delle loro armature, impenetrabili dietro le loro celate, ed in atteggiamenti anchessi suggestivi.
In atto di porre la lancia in resta ad esempio o di estrarre la lunga spada, come mostrato nella immagine della pagina precedente.
Non potremmo giurare sulla esattezza filologica degli assemblaggi e delle ricostruzioni, lo testimonia ad esempio la presenza nella fila destra di un cavaliere moro, inspiegabilmente collocato fuori della sua destinazione naturale, l'importante sezione medio orientale, di cui non possiamo accennare per mancanza sia di spazio che di competenza.
E' innegabile che l'impatto estetico ed emozionale voluto e rigorosamente perseguito da Frederick Stibbert - benché a prezzo di non poche trasgressioni - sia forte.
Per ogni visitatore, con qualunque grado di preparazione culturale e a prescindere da spiegazioni dettagliate.
Interminabili corridoi, avvolti da una semi penombra anchessa suggestiva, lasciano immaginare innumerevoli altri tesori non accessibili.
La vastità del museo e la scarsezza di personale non permettono infatti di ammettere il pubblico in tutte le sale.
Oltretutto gli oggetti non racchiusi nelle vetrine rimangono a portata di mano di ogni visitatore malaccorto, se non addirittura malintenzionato.
Opportunamente all'interno di una vetrina un oggetto di straordinario fascino. Un elmo legionario rinvenuto nel Po.
Si pensa a giudicare dalla fattura, si direbbe del tipo definito imperiale italico risalente al I secolo d.C., che possa essere una reliquia della battaglia di Bedriaco, in cui le armate dell'imperatore Vitellio tentarono inutilmente di arrestare le legioni di Vespasiano.
Era il cosidetto anno dei 4 imperatori in cui salirono al trono dopo Nerone, in rapidissima successione e sempre condannati ad una tragica fine, prima Servio Galba, poi Marco Otone e dopo ancora Aulo Vitellio. Ma le legioni della Pannonia e della Mesia proclamarono imperatore Tito Flavio Vespasiano, che postosi alla loro testa invase l'Italia sconfiggendo Vitellio a Bedriaco.
Immediatamente dopo la battaglia Vitellio abdicò ma ritornato a Roma il suo temperamento indeciso ed incostante prese il sopravvento. Riprese il potere, invano contrastato dal prefetto dell'urbe Tito Flavio Sabino, fratello di Vespasiano. Ma la notizia dell'avvistamento delle avanguardie di Vespasiano lo gettò nel panico.
Si fece portare in lettiga nella sua dimora all'Aventino, barricandosi dentro una stanza nella incomprensibile speranza di non essere lì rintracciato. Non fu così.
Venne trascinato per i capelli e con una spada alla gola, come si usava per i criminali, verso il foro - non distante - ed ucciso ai piedi delle scale Gemonie. In un ultimo soprassalto di dignità, ai legionari che lo avevano scoperto e chiedevano conferma della sua identità, aveva detto: "Sì, io fui una volta il vostro imperatore."
Ma è tempo ora di occuparsi della mostra Samurai! e della sezione giapponese del museo.
La mostra temporanea Samurai! è aperta - ricordiamo che lo sarà fino al 3 novembre 2013 - al primo piano del grande palazzo, che forse Stibbert ha voluto far sottovalutare al visitatore con un ingresso dignitoso ma non sontuoso, che collocato d'angolo nasconde la mole dell'edificio e non lascia immaginare la vastità del parco in cui sorge.
Come se il facoltoso collezionista pregustasse il piacere di sorprendere gli avventori con una una improvvisa non preventivabile maestosità.
Riprende grossomodo gli schemi della precedente mostra La peonia e la spada, allestita nel 1999, ed anche se non vengono citate espressamente - d'altronde sono le armature quelle che richiamano maggiormente l'attenzione del visitatore inesperto, le lame vi sostengono un ruolo importante.
Non era usuale in Giappone assemblare le armature in modo realistico ed in atteggiamento guerresco. Era tuttavia costume in occidente e le maestranze giapponesi si adeguarono, fornendo dei manichini che costituiscono anche loro una importante testimonianza dell'incontro tra due culture tanto diverse.
La composizione dei vari elementi, probabilmente ad opera dello stesso Stibbert e dei suoi più stretti collaboratori, non fu impeccabile. La trasmissione delle opportune informazioni tecniche non era d'altronde facile nell'ottocento.
E' il caso ad esempio della errata collocazione di alcune parti dell'armamento, come le ebira (faretre da guerra), che si immaginavano portate in modo differente o venivano confuse con quelle da viaggio per il trasporto, o dell'incoccatura al contrario degli archi, profondamente diversi nella concezione da quelli europei.
Un paziente lavoro di analisi ha permesso la correzione di molti di questi errori.
Alcuni rimangono tuttora terreno di esplorazione. Su richiesta di de Feo sono state fotografati a campione alcuni dei kamon (emblemi di famiglia) presenti sulle armature prescelte per la mostra.
Non è inconsueto trovare sulla stessa armatura diversi mon, per esempio quello pertinente alla casata di famiglia del guerriero e quello del feudatario da cui dipende. Qui un esempio di kabuto (elmo) su cui appaiono tre differenti mon: un gioco di aironi sul maedate (emblema frontale) che potrebbe essere quello di diverse differenti casate, una libellula sull'hachi (coppo), ma possiamo anche pensare ad un semplice motivo ornamentale, un mon vero e proprio sul mabizashi (visiera) raffigurante un mitsutomoe, in tutto simile alla triskele che si trova in molte raffigurazioni della cultura vichinga, che si sovrappone ad un sakura (fiore di ciliegio).
Altre armature evidenziano incongruenze meno accettabili, come ad esempio la diversità dei mon nelle varie componenti delle spade e particolarmente del tachi (kabuto gane, fuchi, tsuka ai, tsuba, saya, ichi no ashi e ni no ashi, shiba biki, kojiri...). E' possibile che le armature siano già arrivate dal Giappone in queste condizioni, è possibile che queste discrepanze siano frutto della selezione operata dallo stesso Stibbert o comunque da lui approvata.
Ma una attenta e minuziosa opera di riclassificazione, per quanto richieda un lavoro enorme, potrebbe riservare diverse sorprese.
Nella immagine a fianco lo yotsume (quadruplice occhio od anche quadruplice diamante), kamon anche del leggendario generale Takeda Shingen, nella cui casata si tramandava il daito ryu aikijujutsu da cui discende l'odierno aikidô, riportato sopra il guanto di una armatura.
Accanto alle armature assemblate con gusto occidentale una sezione della mostra mostrava diversi esemplari montati filologicamente alla giapponese ossia semplicemente appoggiati sopra una cassa, che era generalmente quella utilizzata per il loro trasporto, e privi delle armi da taglio a corredo.
Per quanto essenziale questa disposizione non manca di fascino.
Le armature esposte erano del genere tosei gusoku ossia moderne, ma questa denominazione non deve trarre in inganno.
Venivano definite moderne solamente in relazione allo stile antico, perché in realtà risalgono al periodo Edo, grossomodo corrispondente al dominio della dinastia Tokugawa ossia tra il 1603 ed il 1868.
Si caratterizzano per l'uso ormai esteso delle protezioni metalliche, che condizionano fortemente anche il loro aspetto generale poiché vengono portate più aderenti al corpo, abbandonando le vistose protezioni in bambu e nastro di seta che tendevano a deviare i colpi nemici più che ad arrestarli.
L'acciaio veniva sovente laccato, per prevenire premature formazioni di ruggine dovute alla forte umidità del clima giapponese oltre che per ragioni estetiche.
Le immagini naturalmente varranno - meglio di ogni aggrovigliato tentativo di spiegazione - a far apprezzare il temibile aspetto di questi magnifici strumenti di guerra.
L'armatura giapponese classica veniva definita o yoroi (grande armatura) per distinguerla dalle rudimentali ed incomplete protezioni che indossavano gli ashigaru, i samurai di fanteria armati di picche e più tardi di fucili ad avancarica.
Queste pur rozze armi da fuoco durante l'epoca Sengoku, ossia dei Regni combattenti seminavano indiscriminatamente la morte tra le file dei guerrieri più nobili, suscitando lo stesso orrore e disgusto che avevano già provocato nella cavalleria europea.
Mentre l'identità del guerriero era desumibile dal kamon, l'appartenenza ad un feudo o ad una armata veniva segnalata mediante i colori della fitta nastratura in seta che ricopriva i pannelli di protezione o della laccatura che la sostituì quasi del tutto sulle parti metalliche.
Il kabuto (elmo) del guerriero di nobile lignaggio era costituito da un hachi (coppo) a volte laccato, con pronunciata visiera.
Un vistoso chikoro (paranuca) proteggeva la nuca, ed lo yodare-kake (gorgiera) la gola.
La prima lamina dello chikoro era ripiegata in avanti ai lati della visiera in modo da proteggere il guerriero dai colpi che scivolassero sull'elmo, formando i due fukigaeshi: su questi si era soliti apporre il kamon.
Un emblema frontale, maedate, talvolta accompagnato da due ornamenti laterali, wakidate, permetteva il riconoscimento da lontano.
Il volto del guerriero era protetto dal menpo, una maschera in acciaio, con la parte superiore asportabile per agevolare la respirazione oppure monoblocco nel tipo denominato somen.
Quando costruito con molteplici lamelle, il kabuto era talvolta fittamente ricoperto dai kyo, spuntoni di acciaio ribattuti che avevano il compito di arrestare i fendenti, talvolta spezzando perfino la spada del nemico o rendendola comunque quasi inservibile.
L'hachimanji, una apertura sulla sommità ,aveva oltre al compito di permettere l'areazione quello di richiedere la protezione degli dei.
Uno o più nodi rituali, pendenti da un anello posto sullo chikoro oppure - in questo caso di dimensioni molto maggiori - dal dorsale dell'armatura, avevano la stessa funzione apotropaica.
E' evidente come il profilo dell'armatura giapponese tosei gusoku sia attentamente studiato per deviare i colpi, allontandoli dai punti vulnerabili mediante una opportuna inclinazione verso l'esterno delle differenti componenti.
Gli o yoroi dei periodi precedenti erano dotati piuttosto di grandi pannelli di protezione che mascheravano i contorni del corpo ed erano lasciati liberi di basculare quando ricevevano un colpo, che difficilmente di conseguenza manteneva la linea di taglio o di penetrazione ideali.
Rimarrebbe molto da dire sulle lame esposte nella mostra, ma ce ne manca la competenza.
Tralasciamo del tutto di menzionare quelle racchiuse dentro i loro koshirae per accennare brevemente a quelle esposte, finalmente, come si conviene: assolutamente nude, così come furono concepite dai maestri forgiatori.
Solamente quattro, tutte della tipologia katana, ma di grande levatura.
In alto: Suishinshi Fujiwara Masatsugu (Kao). Appartenente alla scuola di Taikei Naotane. 1838 (epoca Shinshinto).
In basso: Sakon Korekazu. Atttribuita alla scuola Ishido in Musashi. Seconda metà del XVII secolo (epoca Shinto).