Randori
La tribù
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Ancora una intrigante provocazione di Ugo Montevecchi. Ed essendo noto a tutti che Paolo Bottoni resiste a molte cose ma non resiste assolutamente alle tentazioni, eccolo qua a dire anche lui la sua, unendosi a dar manforte al provocatore. Solo i temerari che avranno il coraggio di andare avanti nella lettura sapranno che cosa ci propongono questa volta.
Una breve premessa prima di lasciare la parola ad Ugo Montevecchi: questo articolo prende spunto dal concetto della tribù come viene comunemente percepita al giorno d'oggi, in cui evoca comunità isolate in isole remote, in impenetrabili foreste o in sconfinate praterie, lontane dalla "civiltà" e pertanto libere di capire e ricercare con sistemi semplici ma non poveri di contenuti e di effetti quello che può portare ai membri della comunità benessere, serenità, saggezza. La tribù riceve questo patrimonio dai saggi del passato e lo tramanda intatto per mezzo della vita comunitaria oltre il percorso terreno dei singoli esseri umani. Storicamente però il concetto di tribù nasce su basi diverse, in ambiente diverso, e si mantiene tale per molto più tempo di quello trascorso da quando si è diffusa la nuova percezione del termine. Esamineremo nelle pagine successive anche queste forme "diverse" e lontane nel tempo di tribù, per poi ritornare attraverso queste riflessioni, come sempre, al'aikido. O probabilmente, come propone Ugo Montevecchi, semplicemente alla nostra tribù, come un cacciatore o raccoglitore che si è allontanato solamente per dare un servizio alla comunità.
P.B.
Come era bello il mondo al tempo delle tribù! A mio giudizio è stata quella per l'uomo l'epoca più serena e felice. Non importa a quale tipo di tribù si faccia riferimento, ci possiamo immaginare gruppi di umani persi nel folto della giungla equatoriale, isolati fra alte montagne, accampati fra le erbe delle immense praterie, arrampicati su palafitte lungo le rive di un grande lago, tra le palme di un'isola dalle sabbie bianchissime o coperti di pellicce al limite dei ghiacci perenni.
Tutti a quei tempi godevano ampiamente di quello che a noi manca drammaticamente e cioè gli spazi infiniti e condizioni di vita in armonia con la natura. Uomini semplici organizzati in un sistema semplice. Ogni singolo nel proprio interesse lavorava per la tribù. Tutto si svolgeva in comune e la specializzazione dei ruoli all'interno del clan era funzionale all'interesse della collettività. Ognuno svolgeva mansioni diverse ma con uguale dignità. Solo uno, il capo, era al di sopra di tutti, ma era sempre un capo eletto per il suo indiscusso valore quindi scelto nell'interesse della collettività.
Il privilegio del comando però comportava la pesante contropartita di gravi responsabilità quali ad esempio il dover prendere le decisioni in caso di contrasti fino al disporre, se necessario, l'allontanamento dal clan di elementi che si rivelassero dannosi per la serenità e l'armonia del gruppo. Situazioni estreme, per fortuna. Talvolta poteva accadere pure che qualche gruppo familiare si staccasse volontariamente dalla tribù d'origine, semplicemente per rispondere ad una esigenza di autonomia o per colonizzare nuovi territori in cerca di nuove e migliori risorse. In questo caso il legame con la tribù originaria restava saldo: in caso di necessità facilmente si ritrovava collaborazione e alleanza o semplicemente di tanto in tanto i gruppi si riunivano per rinsaldare l'amicizia in virtù della comune origine.
In un modo o nell'altro, passo dopo passo, attraverso la ricerca di nuovi territori tutto il pianeta è stato esplorato e abitato.
Perché dico che quello fu l'era più felice? Perché da lì in avanti le cose cominciarono a peggiorare. Tribù sempre più popolose e sempre più fittamente distribuite iniziarono ad entrare in contrasto fra loro. I villaggi vennero fortificati a scopo di difesa prima con semplici palizzate poi con mura sempre più alte e possenti. Erano nate le città-stato. La società era al suo interno organizzata in modo completamente diverso con ruoli molto più specializzati che ne determinarono una divisione. Tanto per cominciare il potere non era più assegnato per merito ma si trasmetteva per discendenza sul presupposto della nobiltà di sangue. Poi iniziarono ad esistere le caste: religiosi, militari, artigiani, commercianti, contadini, schiavi e, cosa di non poco rilievo, furono inventati i tributi, o se preferite le odiate tasse!
Già si stava molto peggio di prima, ma ancora esisteva una certa giustizia. Coloro i quali godevano dei privilegi maggiori erano quantomeno costretti a prendersi grossi rischi, ad esempio andando a combattere, anche se a pagare le spese e le conseguenze delle guerre fin da allora erano poi le classi più povere. Le cose peggiorarono ancora: le conquiste ad opera di alcune città allargarono progressivamente i domini e così col tempo si formarono i regni e poi gli imperi e ora siamo giunti ai blocchi continentali in vista di un futuro drammatico epilogo, la totale globalizzazione!
Col dilatarsi di queste aree di controllo degli interessi sempre più si è ampliata la forbice fra chi detiene il potere aggrappandosi ai propri privilegi e chi ne subisce le scelte pagandone le conseguenze. Tutti corriamo come pazzi affannandoci a soddisfare bisogni indotti che nulla hanno a che fare con la nostra originaria natura, perdendo di vista i veri valori della vita e il senso stesso del nostro breve passaggio sulla terra. Tristi preoccupazioni su cui troppo raramente ci soffermiamo a riflettere e che neppure sfiorano la mente dei cosiddetti "potenti".
Già, i potenti. Allo stato attuale delle cose la globalizzazione ha portato a selezionare una casta di persone che detengono un potere così spaventosamente grande da poter condizionare con le loro decisioni la vita di tutti gli abitanti del pianeta Decisioni non certo ponderate con la saggezza e l'altruismo che illuminava la mente degli antichi capo-villaggio, ma distorte da cinismo e ambizione perché solo una mente intrisa di smisurato arrivismo può portare a scalare vette di potere così elevate. Ma l'intervento di "grandi" uomini capaci di modificare nel bene o nel male la storia del mondo oppure quella del sereno abitante di un villaggio primordiale, sostanzialmente in cosa differiscono? In nulla!
Due scintille di energia che hanno opportunità di brillare per un attimo infinitamente breve nell'eternità del tempo e dispersi in un universo così infinito da sfuggire alla nostra capacità di comprensione, da far sembrare il nostro pianeta un granello di polvere.
Una cosa è certa, la vita all'apparenza insignificante del tranquillo uomo primitivo era serena, armoniosa, in sintonia con la natura e quindi, usando una frase che ci suona familiare, in armonia con l'energia dell'universo.
A questo punto il semplice teorema esposto dimostra alcune cose: primo, aprire un dojo di aikido presso un villaggio paleolitico sarebbe stato decisamente fallimentare; secondo, praticare aikido tentando di riequilibrare in qualche modo la nostra confusa esistenza è invece cosa molto opportuna.
In virtù di queste convinzioni ho sempre concepito il dojo, come una piccola tribù. Raccogliendoci sotto l'immagine di o sensei come sotto un totem abbiamo modo di realizzare una magica regressione, un enorme balzo all'indietro, ritrovandoci a rispettare le poche semplici leggi che servono per regolare la pacifica convivenza.
Ero partito con l'intenzione di descrivere magari in modo simpatico proprio questo, l'affinità che esiste fra il concetto di dojo e la realtà di una tribù, ma ora rileggendomi mi accorgo che il delirio filosofico in cui questa volta sono precipitato è troppo profondo per venirne fuori.
Divertitevi voi a trovare similitudini e affinità fra il dojo e la tribù, qualche suggerimento l'ho già dato. Ciò che conta è mettere a fuoco un concetto fondamentale: all'interno del dojo come nell'antico villaggio, ogni singolo deve trovare il proprio spazio, avere modo di realizzarsi ricoprendo un proprio ruolo, all'insegna del reciproco rispetto. Personalismi, ambizioni, spirito di competizione nei confronti dei compagni di percorso sono dannosi, stridono aspramente con lo spirito del dojo, con l'interesse della tribù di cui un valido capo, con grande umiltà e saggezza, ha il dovere di farsi garante.
Montevecchi Ugo
Il termine latino tri-bus viene dalla ripartizione di Roma (urbs) che la tradizione ci tramanda fondata da 3 differenti etnie appartenenti a ceppi diversi, con le relative differenze di cultura e di lingua: Luceri (Etruschi), Ramni (Latini) e Tizi (Sabini). Non si tratta quindi di un termine nato in società rurali relativamente primitive come si assume comunemente oggi, è anzi all'origine della evoluzione da questi nuclei sparsi sul territorio alla città, poi alla città stato, allo stato vero e proprio, infine all'impero. Va detto che le fonti classiche sono state sistematicamente messe in dubbio dalle analisi critiche elaborate alla fine dell'ottocento, ma un susseguirsi di ritrovamenti archeologici sembra tornare a dar loro definitivamente ragione, sia pure con la non rinunciabile clausola cum grano salis (con un po' di giudizio, per chi "non ha fatto il classico").
La ripartizione tribale degli abitanti della Roma arcaica si ripercuote nella organizzazione militare, che è quella che ha lasciato maggiori tracce nella letteratura e nel linguaggio e ci permette quindi di proporre ipotesi di ricostruzione; ci porteranno a pensare che i costumi tribali abbiano influito sulla nostra civiltà molto più profondamente di quanto siamo portati a credere, e molto più a lungo.
L'esercito romano arcaico era diviso in tre schiere di 1000 uomini divisi per etnia. Un sistema tribale. Le fonti non ne parlano esplicitamente, ma sappiamo che ogni schiera era comandata da un tribuno, figura istituita secondo Plutarco dal primo re di Roma, Romolo, con compiti di comando militare e rappresentanza in ambito civile. Col tempo ci fu una separazione tra le due funzioni, come dimostra la ben nota istituzione dei tribuni della plebe, figura sacra ed inviolabile. I tribuni dall'alto di un palco chiamato tribunale si rivolgevano ai cittadini o amministravano quanto di loro competenza: ad esempio riscuotere i tributi, ossia quanto la collettività richiedeva al singolo, in ragione della capacità contributiva di ognuno, per ripartirlo fra le tribù (tribuere).
Tornando all'ambito militare notiamo come già nella cavalleria arcaica, un corpo elitario, a differenza che nella fanteria legionaria le tre diverse etnie siano affiancate in uno stesso reparto: quello di base, la turma, era composto da 30 cavalieri divisi in 3 decurie, ognuna comandata dal suo decurione. Nemmeno qui abbiamo testimonianze o prove dirette che gli uomini di ogni decuria appartenessero alla stessa tribù, ma la logica ci porta a supporlo visto che ogni etnia parlava lingue diverse; è lecito invece supporre che i decurioni fossero multilingue. Ove si dimostra anche che, da sempre, per lavorare assieme superando le differenze ambientali o sociali ci vogliono un po' d'istruzione, un minimo di cervello e un obiettivo comune. Oltre che, lo stavamo dando per scontato poiché parlavamo di una organizzazione militare, una buona disciplina.
Qui dobbiamo chiedere al lettore un ulteriore sforzo. Se la situazione gli è sembrata fino ad adesso già complicata, è ancora niente rispetto a quello che gli succederà ora.
Ai fini civili si arrivò ad una differente ripartizione delle tribù. In questa società "primitiva" tutte le leggi erano votate dal popolo, mentre al senato e ad alcuni magistrati competevano solamente le proposte. Nel corso dei secoli un sistema elettorale basato sulle tribù e definito comitia tributa - poiché ogni tribù esprimeva il suo voto separatamente nel comizio, un piccolo recinto sotto al Campidoglio - sostituì gradatamente i precedenti sistemi di suddivisione per curie o centurie. La proposta di legge era approvata o respinta a maggioranza dalle tribù, non dai singoli cittadini.
Queste nuove tribù ebbero però basi territoriali e non più etniche: la Palatina, la Suburana, la Collina, l'Esquilina, prendendo nome dai colli in cui probabilmente le tribù originarie si erano spontaneamente suddivise: la pianura, vicino al Tevere, era acquitrinosa, sede permanente di animati mercati, e sprovvista di difese naturali. Ognuno avrà notato che ora compaiono quattro tribù. E' possibile – ma è una mia ipotesi - che la quarta tribus (una definizione che è quasi un ircocervo) fosse costituita dagli indigeni. Ossia dall'insediamento sul Palatino ove regnava come ricorda Virgilio nell'Eneide il re Pallante, già secoli prima dell'arrivo di Romolo e della sua variegata armata. Abbiamo insomma un antico esempio di integrazione extracomunitaria. Ed abbiamo appreso che un altro termine che credevamo di conoscere appieno, indigeno, cela risvolti inaspettati.
L'integrazione tribale non si ferma là: nel corso dei 1200 anni circa di storia "romana"; al cui confronto alcune presuntuose civiltà moderne nate da pochi decenni devono dimostrare ancora molto, il numero delle tribù venne gradualmente accresciuto: alle 4 tribù urbane menzionate vennero aggiunte 31 tribù suburbane. Alcune di esse nacquero per accogliere gruppi extracomunitari i cui discendenti avrebbero poi scritto la maggior parte delle pagine di storia romana dei secoli seguenti: la gens Fabia, la Claudia, la Cornelia, la Emilia. E le relative tribù raccoltesi attorno a queste leadership.
La nuova struttura tribale attraverso l'aumento delle tribù venne incontro all'incremento della popolazione e del territorio di Roma, ma fu anche strumento di inserimento controllato verso una comunità più estesa. Nei primi turbolenti anni della repubblica Roma era impegnata in permanenza in lotte mortali contro le città vicine, cui spesso preferì tagliare corto radendo al suolo i centri rivali ed obbligandone la popolazione a trasferirsi a Roma assumendo la cittadinanza romana. Una misura però non applicabile alle popolazioni troppo numerose e lontane affrontate in seguito all'espansione del dominio romano.
Si scelse allora di controllarle inviando nei territori più inquieti delle colonie di ex soldati romani, scelti di volta in volta tra questa o quella tribù. Diverso tempo dopo iniziarono ad essere concessi concessi via via diritti di cittadinanza alle popolazioni latine e poi a quelle italiche ossia residenti in italia anche se non necessariamente di stirpe italica, come i celti stanziati al nord. Quando una città aveva dimostrato una sufficiente assimilazione della cultura romana tutti i suoi cittadini venivano iscritti in una delle tribù suburbane di Roma.
E' stato detto che questo serviva a diminuirne il peso politico e l'influenza (essendo ininfluente il voto di una sola tribù), ma la ritengo una opinione errata. Nei comitia tributa era uso accettare il voto della prima tribù sorteggiata, la praerogativa (consultata per prima) essendo l'assenso delle tribù rimanenti una mera formalità. Concentrando quindi i nuovi arrivati all'interno di una sola tribù gli si dava la possibilità di condizionarne il voto, non ottenibile disperdendoli fra tutte le 31 tribù suburbane. Scopriamo così finalmente che cosa hanno in comune gli abitanti di Ravenna con quelli di Alba: appartenevano entrambe le città, assieme a diverse altre, alla tribù Camilia. Erano membri se non originari della tribù Emilia i cittadini di Vibo Valenzia, della Horatia quelli di Spoleto, della Lemonia quelli di Ancona e di Bologna, i cui abitanti erano in parte celti della tribù dei Boi, in parte romani della colonia creata in quel territorio per tenerli a bada..
Questa lunga digressione - forse troppo lunga – era tuttavia necessaria per far comprendere due cose: la prima è che non dobbiamo considerare il fenomeno delle tribù estraneo alla nostra cultura: nasce da noi, da noi si evolve, e siamo infine noi a ragione o a torto che abbiamo ritagliato questa definizione addosso a civiltà differenti e lontane, fino a darle oggigiorno un significato completamente diverso. La seconda è che non si può pensare che una società tribale sia necessariamente semplice, che sia indissolubilmente legata a comunità relativamente piccole, che sia refrattaria ad ogni cambiamento.
Nella prima parte di questo provocatorio studio Ugo Montevecchi ha preconizzato il ritorno, all'interno della comunità dell'aikido, ad una mentalità tribale. E' un desiderio condivisibile, e da me condiviso, una proposta necessaria ed allettante. Ma già immagino alcune obiezioni: "Non è possibile. ... Non viviamo più in mezzo alla gungla". Ma le tribù non sono nate per ritornare indietro, bensì per andare avanti. Per far crescere la comunità, per permetterle di evolversi, di progredire, di diventare più grande. E, auspicabilmente, migliore.
Sia io che Ugo facciamo parte di associazioni, l'Aikikai contano migliaia di iscritti e molti dojo affiliati. Sappiamo che non è possibile ritornare a "scudo e zagaglia" e non è certamente quello cui vogliamo incitare. E' piuttosto un desiderio di vedere materializzato lo spirito costruttivo di chi prova gioia nell'appartenenza alla propria tribù e sogna di vederla crescere ancora, guardando al futuro e non al passato. Se vogliamo dare ascolto all'appello di Montevecchi non dobbiamo certamente sostituire jo e bokken con scudo e zagaglia, e non abbiamo nemmeno bisogno di acconciature da sakem per i capi delle nostre belle tribù (nostre, al plurale: e tante, tutte con uguale dignità).
"E' più facile! Quindi è più difficile..." E con questo tormentone, che alcuni riconosceranno come uno di quelli preferiti dal maestro Hosokawa, anche io concludo.
Augh! *
Paolo Bottoni
*
Sembra che non esistano prove che il termine augh, onnipresente in vecchi film, romanzi o fumetti, sia stato veramente utilizzato da alcuna tribù del nord America come saluto o commiato. O perlomeno si ipotizza sia stato utilizzato solamente per indirizzarsi ai colonizzatori bianchi, equivocando sul significato della parola inglese how (come) con cui spesso iniziava una frase chi tentava di rivolgere una domanda agli indigeni.
Quindi, in cauda venenum, un ennesimo segnale che ci ricorda come il ritorno alla mentalità tribale richieda molti passi indietro, ma sempre ben meditati e verificati. E sempre - sempre - con lo sguardo rivolto in avanti.
Come i famigerati unpo che Hosokawa sensei ci ha inflitto per tanti anni, e da noi accettati, voluti, graditi.