Mi è stato segnalato tempo fa un episodio, non banale. Durante il seminario di un importante maestro, costui si è avvicinato a un importante discepolo dicendogli in sostanza: "Ma se vuoi fare quello che ti pare, perché sei venuto qui?"
Non posso avere e tantomeno esprimere opinioni sul fatto in se: nemmeno avendovi assistito di persona me la sentirei di dare giudizi, ma astraendosi invece dall'episodio alcune considerazioni di principio se ne possono tuttavia - paradossalmente - trarre.
E' evidente, perlomeno spero che lo sia, che oltrepassato un determinato livello, come era il caso del discepolo di cui sopra, diventa non solo possibile ma addirittura necessario sviluppare una propria visione indipendente dell'arte e del mondo. Questo non significa "uccidere il proprio maestro", frase d'effetto quasi mai citata a proposito, ma onorarne il lavoro.
Ho avuto la fortuna di essere indirizzato sulla via da un maestro che ha immediatamente chiarito come intendesse impostare il suo lavoro per creare indipendenza, non dipendenza, e ho avuto l'onore forse immeritato di non scegliere di separarmi dalla mia guida ma di essere da lui invitato a camminare senza. Questo non signifca troncare i rapporti: è anzi sicuramente più bello provare il desiderio di incontrarsi senza esserne obbligati da esigenze di ordine materiale, dal cosidetto bisogno. Perché se è vero che il discepolo ha bisogno del maestro, è anche vero il contrario. Ma solo quando si affrancano da questo bisogno forse riescono a sentirsi veramente vicini l'un l'altro.
Da qui riparto per altre considerazioni di ordine più generale: che la decisione venga dall'uno o dall'altro, è comunque evidente che la via del discepolo, pur strettamente legata a quella del maestro, non sarà la stessa. Sarà forse una evoluzione, sarà forse una involuzione, ma questo non è rilevante. Sarà sempre e comunque un percorso più aderente alla personalità del discepolo che a quella del maestro.
Detto questo il processo di successione, non diciamo allontanamento - a volte necessario ma più spesso no - ma proprio successione, è inevitabile a prescindere da ogni desiderio umano. E' necessario per tutti, non solo per i diretti interessati e trascende il loro stesso volere. Possiamo infattti lasciare disposizioni per chi verrà dopo di noi ma non avremo alcun potere di imporle o controllarle, né il successore sarà in grado di eseguire disposizioni fuori dalla sua portata o di fatto impossibili..
Occorre quindi, non è solamente questione di gusti, lasciare la massima discrezionalità ai propri discepoli o successori e mi accingo temerariamente a dimostrarlo con l'aiuto della matematica. Forte delle mie ripetute sonore bocciature in materia.
A (il maestro) + B (il discepolo) = C (un nuovo maestro)
L'opera del maestro sul discepolo tende alla sua trasformazione in un nuovo maestro o comunque nuovo artista. Dotato almeno di un dignitoso livello tecnico, qualunque sia il suo livello artistico. La trasmissione della conoscenza tecnica permette infatti che si mantengano stabili nel tempo, anche sfidando i secoli, le condizioni per lo sbocciare di nuovi grandi maestri. Il talento invece non è trasmissibile.
Questo enunciato viene dimostrato empiricamente dalla storia della spada giapponese. Termina il periodo kotô (antica spada) con la fine dell'epoca delle grandi battaglie:privata non solo della verifica sul campo ma anche di gran parte della sua ragione d'essere l'arte degrada. L'epoca shintô (nuovo spada) viene comunemente giudicata un periodo di produzione artistica di livello inferiore al precedente.
Ma si continua comunque a trasmettere l'arte. Finalmente la rilettura del passato porta al rinascimento dell'epoca shinshintô (nuovissima spada). Rinascimento dovuto sì alla trasmissione delle regole dell'arte ma soprattutto alla "ribellione" di Shuishinshi Masahide che rompe con gli schemi che ha appreso, esce dai canoni della sua scuola, trascina il mondo della spada verso nuovi orizzonti.
Sarà un ritorno al passato? No certamente: una lama di epoca shinshintô, per quanto sia debitrice della tradizione, non è una lama di epoca kotô. Eppure il suo legame con la tradizione è forte, intenso e indissolubile. Del resto, chi viene riconosciuto maestro cambia il suo nome... a rimarcare che da quel momento comincia per lui una nuova vita, volta al futuro ma rivolta al passato. Nel nome è infatti contenuta una radice, comune a tutti i maestri che si sono succeduti nel tempo, che attesta la loro appartenenza al medesimo progetto artistico.
E sarebbe poi veramente possibile l'altra equazione?
A + B = A?
Quella in cui al termine del processo evolutivo, che coinvolga una sola generazione o decine di generazioni, si mantiene integralmente quanto trasmesso? Una trasmissione che trascenda ogni fattore legato alla personalità unica propria di ogni essere umano?
Certamente, ma ad una sola condizione: che nell'interno di questa equazione B sia uguale a 0 (o che lo sia A, ipotesi non priva di suggestione ma che ora tralasciamo per comodità). Ma non si vede perché un insegnante dovrebbe perdere il suo tempo con qualcuno che valendo zero non è in grado di comprendere ma al massimo di copiare servilmente senza trasmettere all'opera il soffio vitale, né cosa ci guadagnerebbe da tale rapporto subordinato il mondo dell'arte. Certamente chi sa ha il dovere di accogliere chiunque desideri apprendere, ma nella scelta dei successori deve essere invece severo.
Accenno brevemente a un'altra problematica, più legata all'episodio che ha innescato queste mie considerazioni, ma comunque ugualmente proponibile come spunto di riflessione. Se il dissenso andrebbe evitato la manifestazione della propria personalità invece non è sopprimibile. Nemmeno a comando.
Esistono ovviamente dei limiti, da ricercare in una appropriata sensibilità più che in rigide regole di etichetta, e non voglio mettermi a ipotizzare se siano stati oltrepassati nell'ormai stracitato episodio In linea di principio si pensa frequentemente che l'osservanza di questi ai limiti sia sempre dovuta, in nome del rispetto dovuto all'insegnante. Anche, naturalmente.
Ma ogni insegnante, e ancor più ogni maestro, si suppone abbia dentro di se gli anticorpi per non lasciarsi coinvolgere da queste situazioni e non rimanerne anzi nemmeno turbato in alcun modo. Oltretutto opportune dosi di vaccino vengono iniettate precocemente ad ogni insegnante da parte degli innumerevoli allievi che coscientemente o meno fanno l'esatto contrario di quanto loro indicato. Si suppone che chi è arrivato ad essere maestro ne sia di conseguenza costituzionalmente immune senza che abbia necessità di adottare misure specifiche..
Il rispetto all'insegnante è quindi dovuto ma non necessariamente necessario, se perdonate il bisticcio. Ma è dovuto innanzitutto il rispetto verso gli altri praticanti, quelli che si trovano ancora nella fase della mera ripetizione di quanto loro proposto, quelli che rimarrebbero sicuramente sconcertati nell'osservare un praticante di alto lignaggio, se non addirittura un maestro, se non addirittura un discepolo di chi sta impartendo lezione, che non ne segue le istruzioni e fa cose vistosamente diverse se non addirittura in contraddizione. E avere rispetto di ogni praticante è un dovere imprescindibile per chiunque sia un punto di riferimento nella via o ambisca ad esserlo.
Mostrare senza alcun timore la propria personalità rimane invece, secondo me, non solamente lecito ma addirittura doveroso. E' necessario però saperlo fare, e anche questa è una prova della raggiunta padronanza che si richiede a un maestro.
Il tutto, confermando ancora una volta che mi sono lasciato abbandonare a considerazioni di ordine generale, quasi filosofiche, quasi astratte, senza voler asolutamente entrare nel merito dell'episodio.
E, come si diceva una volta: "Stretta la foglia, larga la via, dite la vostra che ho detto la mia".