Kyosaku
L'alto castello
La serie The man in the high castle (L'uomo nell'alto castello), prodotta da Amazon e distribuita a quanto ne so esclusivamente on line sul canale Prime Video, inizia con la pratica in un dojo di aikido, cui si dedica la principale protagonista. E' un tema che ritornerà periodicamente nel corso della lunga narrazione, di cui al momento è terminata la terza stagione - ognuna di 10 puntate - ed è annnunciata la quarta e ultima. La protagonista è infatti una praticante di aikido.
E' il caso di informare il lettore sia pure sommariamente della trama di quello che è a tuti gli effetti uno sceneggiato, come si sarebbe chiamato in Italia negli anni 50 e 60, o un saiga, come si definisce tuttora in Giappone ove è un genere di grande successo. Il filo conduttore proviene dal romanzo La svastica sul sole dello scrittore di fantascienza Philip K. Dik (1928-1982) ed appartiene al genere ucronico, in cui si immagina quale potrebbe essere stata la storia dell'umanità, o parte di essa, ove gli eventi avessero seguito un corso diverso e distopico (non utopico, pessimistico sul futuro del genere umano). L'autore ipotizzava un esito differente della seconda guerra mondiale, terminata con la vittoria di quello che dagli italiani, forse con un dissacrante pessimistico presagio in dissonanza con la roboante propaganda che lo accompagnava veniva chiamato il Roberto: l'asse Roma - Berlino - Tokyo.
Non vengono menzionate nel romanzo se non di sfuggita (il camionista Joe qui viene presentato come italiano) e sembrano aver avuto ancor meno risonanza nello sceneggiato le sorti dell'Italia, dichiarata comunque tra le potenze vincitrici ma senza averne tratto vantaggi materiali. Giappone e Germania hanno invece occupato rispettivamente la zona costiera occidentale degli Stati Uniti che guarda sul Pacifico e quella orientale che dà invece sull'Atlantico. Tra questi due stati fantoccio ove gli occupanti esercitano un brutale potere, anche grazie a elementi indigeni che hanno aderito per ideologia o per convenienza alla loro causa, esiste una fascia neutrale, che si comprende verrà presto contesa dalle potenze occupanti, tra cui sotto l'apparente collaborazione cresce l'ostilità, preludio di un futuro nuovo conflitto. In questo ambiente opera la resistenza, che combatte gli uni e gli altri.
Nel romanzo (pubblicato nel 1962 ed edito in Italia da Fanucci) la protagonista, Juliana Frink, è una insegnante di judo che dapprima per circostanze fortuite e poi per scelta deliberata entra nella resistenza. Non sarà inutile proporre alcune considerazioni sulle motivazioni che hanno portato gli sceneggiatori a trasformarla in praticante di aikido. Certamente non si tratta di una scelta casuale, la trasposizione del romanzo è stata lunga, la preparazione ha richiesto diversi anni e la produzione è stata via via affidata a diverse case per poi finalmente essere definitivamente presa in carico da Amazon Studios e come produttore esecutivo dal regista Ridley Scott, che aveva già portato sullo schermo con grande successo un altro romanzo di Dick: Il cacciatore di androidi, che divenne il celeberrimo Blade runner.
Non mancano quelle che sono le consuete incongruenze di ogni trasposizione al grande pubblico, o per meglio dire le concessioni agli stilemi che nelle intenzioni degli autori rendono più immediata e maggiormente comprensibile agli spettatori l'ambientazione. Il dojochô veste infatti incomprensibilmente abiti da cerimonia, quelli che siamo abituati a vedere nei ritratti officiali del fondatore o al limite durante una dimostrazione al pubblico, ma che indossati da un semplice insegnante nel corso derlla pratica quotidiana potrebbero casomai essere indizio della sua presunzione e relativa mancata comprensione dei principi dell'arte. Ma queste immagini aiutano - o si presume che aiutino - lo spettatore oltre che a focalizzare l'ambiente umano cui ci si riferisce - un po' come il gruppo di fascisti che nei film invariabilmente è intento a cantare Giovinezza - anche a comprendere che ci si trova di fronte a qualcosa di particolarmente elevato. Nobile.
Infatti sono frequenti nel corso della pratica le sue interruzioni per avvicinare questa o quella tecnica a grandi quanto vaghi e inafferrabili principi universali. Da un punto di vista tecnico, per quanto non sia rilevante, ci sarebbe da osservare che le sequenze proposte sembrano provenire da una pratica di tipo Yoshinkan (la scuola del maestro Gozo Shioda) o siano in qualche modo imparentate con il Daitô ryu, quindi legate a metodi non particolarmente "esoterici" ma piuttosto mirati verso l'efficacia pratica. Ma tant'è.
Torna l'aikido nei successivi episodi? Non vengono definiti puntate in quanto si cerca di dare vita autonoma ad ognuno di essi, per quanto ogni finale lasci in sospeso una circostanza drammatica in modo da invogliare a seguire l'episodio seguente, Sì, Juliana Frink ha modo di applicare quanto appreso nel dojo. Aggredita da un uomo corpulento che tenta di gettarla in un baratro, si sottrae alla presa con uno shihonage riuscendo a sfruttare lo stesso slancio e la forza dell'avversario per far cadere lui nell'abisso.
Non chiedeteci la pazienza di scandagliare tutti i 30 episodi rilasciati finora. Limitiamoci all'episodio 5 dove dopo lunghe peripezie Juliana torna al dojo. Ma ne viene allontanata dall'insegnante: si è lasciata coinvolgere da eventi esterni cui l'aikido deve rimanere estraneo, isola felice in un mondo perverso. E' sufficiente fermarsi qui per poter affrontare - o iniziare ad affrontare - una disamina di queste proposte di visione dell'aikido.
Veramente il praticante di aikido entra in un mondo diverso quando entra nel dojo? Potrebbe anche essere, ma non è così automatico e scontato. Certamente chi vi entra è la stessa persona che agiva nel mondo esterno o ne subiva le regole astenendosi dall'agire. Se entra in un dojo è però per prepararsi a qualcosa di diverso. A cosa deve prepararsi il praticante di una disciplina marziale? Ad avere la capacità e la volontà di intervenire quando il suo intervento è necessario, nonché ad avere il discernimento necessario a distinguere tra una buona causa e una malvagia. Non ad astenersi dall'azione e dal giudizio.
Per quale ragione in tempi remoti si volle rendere il samurai immediatamente riconoscibile da ognuno, in modo che fosse sempre disponibile quando gli venisse richiesto un intervento, regolando meticolosamente il suo vestiario, interdetto agli altri, e prescrivendogli il porto delle due spade? Non certamente per astenersi, per richiamarlo anzi perennemente, in ogni cicostanza della vita, al suo dovere.
Al giorno d'oggi naturalmente non ci si rende riconoscibili abbigliandosi da samurai, e se fosse il caso non lo sarebbe naturalmente all'interno del dojo: casomai fuori. Come ci si può allora rendere immediatamente riconoscibili e dichiarare la propria disponibilità ad agire per il bene? Attraverso il proprio comportamento: chiaro, onesto, coraggioso. E pronto all'azione quando necessario. Non alla fuga dal mondo.
Nell'immaginario degli autori l'aikido è stato preferito al judo perché immediatamente associabile a questi concetti, che praticanti e insegnanti di aikido hanno infatti sempre sulle labbra, per non parlare di quanto cercano di inserirli nelle loro comunicazioni al pubblico. Nello svolgimento della trama dello sceneggiato questi principi vengono però di fatto incompresi, stravolti e traditi.
Ma anche questo messaggio fondamentalmente negativo potrebbe risolversi positivamente. Trasformandosi in monito per accertarci che la nostra trama non si discosti da quei nobili principi che ostentiamo quotidianamente e di cui troppo spesso ci dichiariamo detentori esclusivi.