Haiku

Matsu-Kaze: riflessioni sull'arte dello haiku - Aki: autunno

Indice articoli

Aki: autunno


Ryûho

(1594-1669)

Tsukikage wo

kumi-koboshikeri

chôzubachi


Attingo e travaso
limpida luce di luna
dal lavatoio

 

kigo:

tsuki-kage: lett., “luce (kage) di luna (tsuki)”

 

Il chiarore della luna autunnale empie la vasca del lavatoio ed il secchio con cui l’acqua è attinta e versata. E l’acqua non è più acqua, ma liquida luce di luna. E la luna è la mente, è il cuore.

 

 

 

 

 

 

 

Bashô

(1644-1694)

Hasu-ike ya

orade sono mama

tama-matsuri


Laghetto dei loti
come sono non colti
per la festa dei morti

kigo:

tama-matsuri, lett. “festa (matsuri) degli spiriti (tama)”; tama-matsuri: indica il compimento dei doveri rituali (matsuri) nei confronti degli spiriti (tama) degli antenati; sono mama: “proprio così”

 

In occasione della festa dei morti, sul piccolo altare domestico, il tama-dana, si offrono fiori ai morti fra lampade votive. Il poeta vede la natura cogli occhi del risveglio e preferisce non cogliere i fiori di loto del laghetto. Sono essi stessi l’offerta che l’uomo non ha creato e che non occorre cogliere. Il laghetto, l’intera natura sono l’altare d’offerta che la natura, attraverso il poeta, ha dedicato loro. Gli spiriti degli antenati sono lì, fra i loti, a riceverla.

 

 

 

 

Bashô

Tsuki hayashi
kozue wa ame wo

mochinagara


Tra i rami
bagnati di pioggia
fuggevole luna

kigo:

tsuki hayashi, “luna veloce”;

lett.: “luna (tsuki) veloce (hayashi) mentre (nagara) i rami (kozue) trattengono (mochi) la pioggia (ame)”

 

Immagine fugace e luminosa che evoca la compassione per le cose percepite quasi attraverso un velo sereno di lacrime.

 

 

 

 

 

 

 

 

Bashô

Yo no naka wa
inekaru koro ka

kusa no io


Là fuori
è già tempo di mietere il riso?
capanna di fronde

kigo:

inekaru, “mietitura del riso”; yo no naka ni: lett. “nel mondo”

 

Nel riparo precario dalle pareti di rami e dal tetto di fronde, dove il poeta si è ritirato per meditare in solitudine, le leggi del tempo sono sospese. Fuori, “nel mondo”, fervono i ritmi della vita e delle stagioni. Forse un canto lontano di mietitori ricorda al poeta che è giunto il tempo della raccolta del riso e gli rammenta che il lavoro è parte del dharma, come lo è la sua solitaria meditazione. Un giorno anch’egli, per vivere, dovrà mangiare di quel riso e chi glielo offrirà chiederà, forse, in cambio una sua preghiera, o una sua poesia.

 

 

 

 

 

Ransetsu

(1653-1707)

Hito ha chiru

totsu hito ha chiru

kaze no ue


Una foglia cade
totsu! solo una foglia
sulle ali del vento

lett.: “sul vento (kaze no ue)”

 

totsu! è un’esclamazione zen volutamente priva di senso, come kwatz! E per questo non l’abbiamo resa in altro modo. Questo haiku è il poema di commiato dalla vita composto da Ransetsu poco prima della sua morte: una foglia si distacca dall’albero della vita, quand’è giunta la sua stagione, e il vento la porta con sé. Da dove viene e dove va il vento? Silenzio, yû-gen, “oscuro mistero”.

 

 

 

 

 

 

 

Kyoroku

(1655-1715)

 

Imo wo niru

nabe no naka made

tsukiyo kana


Pur nella pentola
dove bollo patate
la notte di luna!

kigo:

tsuki-yo, "notte di luna"

 

Tutti (o quasi) sanno apprezzare la bellezza della luna che splende alta nel cielo ma soltanto il poeta è capace di vederla, intatta nella sua bellezza, nell’acqua di una pentola, in una cucina oscura in cui la luna entra dalla finestra. La distanza concreta e la differenza qualitativa, apparentemente infinita, fra la lucente regina della notte e il povero recipiente domestico sporco di fuliggine è abolita. La luna è dovunque, è sostanza immateriale e luminosa. E’ qui ed ora: è l’anima della notte d’autunno. Il tono aulico della poesia che canta la luna nel cielo è stato smesso dal poeta come una veste consunta.

Il cielo e la luna sono anche nella cucina dove il poeta ne contempla la luce, “persino” (made) nella pentola dove cuociono patate per la sua povera cena. La luna splende nella sua anima: è la sua anima ed essa coglie la Realtà “così com’è” (sono mama), nella sua semplice, divina interezza.

E questo è un magnifico esempio di cosa vuol dire haikai, fare haiku. Ma, prima ancora, di cosa significhi vedere il mondo cogli occhi del Risveglio.

Buson

(1715-1783)

 

Akikaze no
ugokashite yuku

kakashi kana

Vento d'autunno
scuote lo spaventapasseri
e va

kigo:

akikaze, “vento d’autunno”

 

Il sussulto dello spaventapasseri svela la presenza del vento. Prima e dopo di quel breve sussulto: immobile quiete. Il vuoto del cielo autunnale. Un soffio di vento, per un attimo solo, infonde vita a quello scheletro inerte coperto di stracci. Poi passa oltre e lo spaventapasseri rimane un patetico oggetto abbandonato nei campi. In poche sillabe il poeta coglie nella vita -in ogni vita- il proteiforme gioco della Vita che, per un attimo solo, animando le forme appare e scompare come un riflesso cangiante di luci nel cuore sereno del Vuoto.

 

 

 

 

Ryôkan

(1756-1831)

Nusubito ni

torinokosareshi

mado no tsuki


Il ladro
ha lasciato la luna
nella finestra

lett. “di ciò che è stato preso (tori no) dal ladro (nusu-hito ni) è rimasta (kosareshi) la luna nella finestra"

 

Una notte, tornando nella sua capanna, forse dopo aver girato nel villaggio per mendicare un po’ di riso bollito, il monaco zen Ryôkan s’accorge che un ladro gli ha portato via l’unica cosa di un certo valore: la coperta imbottita. Pensa al ladro: un poveraccio ancor più disgraziato di lui, che forse, con l’anima fra i denti, sta ancora correndo col misero bottino su per i monti e sente compassione per lui.

Nella finestra, chiara, splende la luna. La stessa luna illumina il monaco Ryôkan e l’anonimo ladro. Questi non ha potuto portarsela via e non ha potuto neppure rubare dall’anima del monaco il prezioso tesoro della sua illuminazione - di cui la luna è simbolo - lo stesso che gli permette di sorridere della buona e dell’avversa fortuna.

 

Issa

(1763-1827)

 

Shiratsuyu no

tama fungaku na
kirigirisu


Grillo
non calpestare le gocce
di bianca rugiada

kigo:

kirigirisu, “grillo”;

shira ... tama: “bianche … gocce”, forse perché illuminate dal plenilunio

 

Il poeta ammira commosso le goccioline lucenti che il plenilunio trasforma in fragili perle e percepisce tutta la bellezza della loro fugace esistenza, del lucente candore, della chiara verginità. Le gocce di rugiada si trasformano, così, in simbolo di bellezza ed esprimono l’impermanenza di ogni cosa esistente. Nella loro bellezza, che dura una sola notte, il poeta coglie la presenza dell’eterno e prega quindi il grillo di non turbare quell’attimo.

 

 

 

 

Shiki

(1866-1902)

Nashi muku ya

amaki shizuku no

ha wo taruru


Sbuccio una pera
dalla lama dolce
stilla una goccia

kigo:

nashi, “pera”

 

Una situazione comune, forse banale, che il poeta rappresenta “così com’è”, ma anche la situazione più comune è specchio del profondo. Coglierne il senso è prerogativa del poeta e del saggio. La dolcezza del frutto bagna la lama che lo taglia, una goccia di dolcezza è il suo ultimo dono. Allo stesso modo, prima di divenire Buddha, nella precedente esistenza il Bodhisattwa offrì il suo giovane corpo a una vecchia tigre ormai incapace di cacciare. Allo stesso modo, in una poesia di Tagore, l’albero del sandalo profuma la lama dell’ascia che lo abbatte.

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