Pionieri

Personaggi in cerca di lettore

Dietro ogni arte c'è un maestro, e a volte ce ne sono tanti. Certamente ci sono anche artisti, allievi, estimatori, ammiratori. Ma nessuno può percorrere la strade dell'arte senza che altri abbiano aperto la via.

Vorremmo qui raccontare le vite e le opere appunto dei pionieri, di coloro che hanno aperto la via, rendendo possibili e proficui i rapporti tra Giappone ed Occidente; vogliamo rendere omaggio a questi uomini e a queste donne, raccontando le loro vite e riportando i loro pensieri.

Ci sembra una necessità impellente, poiché la memoria di questi personaggi chiave eppure spesso semisconosciuti sembra affievolirsi ancora di più, e in maniera inspiegabile: rileggendo le loro testimonianze ci rendiamo conto non solo di avere avuto bisogno di loro, ma che ne abbiamo ancora e ne avremo sempre bisogno.

 

Yoshiiku: Makoto no tsuki hana no sugata-e (La vera luna con l'ombra di un fiore). Ritratto dell'attore Nakamura Icho - autore della poesia che dà il titolo all'opera - intento a prepararsi per andare in scena (1875 circa

Williams Adams, il pilota

Pubblicato nel 1975 il romanzo Shogun di James Clavell divenne in brevissimo tempo un successo mondiale, amplificato dalla riduzione per lo schermo con protagonisti di assoluto rilievo. Diffondeva per la prima volta tra il grande pubblico nozioni che ora sono pressoché di dominio pubblico (chi aveva all'epoca sentito parlare dell'esistenza dei ninja?) ma diffuse la sensazione forse ingiusticata di avere pienamente approfondito e compreso quel tormentato periodo della storia del Giappone e la vicenda personale del pilota inglese che ebbe agli inizi del 1600 la ventura di divenire consigliere dello shogun. Tentiamo di separare la realtà dalla attraente novella.

 

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Matthew Perry: forzò le porte del Giappone

Ritratto del commodoro Matthew Perry, eseguito nel 1854 da un artista giapponese rimasto sconosciuto

Peruri zô Kita-Amerika jimbutsu

(Ritratto di Perry, un Nord Americano)


Esistono diverse copie di questa stampa su legno.

Quella qui presentata venne acquisita alla collezione Perry nel 1961.

 

Poco dopo la metà del secolo XIX, una nave mercantile americana naufragò presso le coste del Giappone, paese che da secoli (1633, con l'editto sakoku di Iemitsu Tokugawa) aveva decretato il bando agli stranieri tranne per l’enclave dell'isola di Deshima a Nagasaki, riservata ai mercanti olandesi e cinesi.

Era prevista la pena di morte per ogni straniero che violasse il blocco e nonostante la causa di forza maggiore l’equipaggio della nave venne messo agli arresti dalle autorità locali, condannato a morte e giustiziato.

Le conseguenze pratiche di quest’atto furono praticamente immediate ma a distanza di secoli sono ancora ben lungi dall’essere pienamente concluse, né possiamo dire di conoscerle appieno, o di essere in grado perlomeno di valutarle in maniera definitiva

Durante il lungo e volontario isolamento iniziato agli albori del XVII secolo il Giappone aveva conosciuto un periodo di pace e prosperità che non aveva avuto l’eguale da molto tempo: il periodo della cosiddetta pax Tokugawa, meglio conosciuto in Giappone come periodo di Edo. Un'epoca veramente d’oro, in cui la cultura giapponese fiorì in ogni sua manifestazione, ma poggiata su basi estremamente fragili che si volevano preservare da ogni influenza esterna, limitando al massimo e infine addirittura proibendo ogni contatto con l’esterno.

Nel luglio del 1853 l’ammiraglio Matthew Perry gettava le ancore nella baia di Uraga, al comando di quattro navi da guerra della marina statunitense, chiedendo formalmente l’apertura dei porti del Giappone, la stesura di accordi per i soccorsi in caso di naufragio e la stipula di trattati commerciali.

Missioni analoghe non avevano ricevuto alcuna risposta nel 1804 (guidata dall’ambasciatore russo Rezanov) nel 1846 e nel 1848 (al comando dell’ammiraglio statunitense James Bidle). Ma i tempi erano ormai definitivamente cambiati.

La scelta del luogo dello sbarco indica lo scarso livello delle conoscenze occidentali dell'epoca sul Giappone: Uraga si trova all'interno della grande baia che porta ad Edo (attualmente Tokyo), capitale amministrativa e residenza dello shogûn, che possiamo considerare equivalente grossomodo ad un primo ministro ma era una carica ereditaria appannaggio fin dal 1600 della famiglia Tokugawa. Ma la vera capitale del Giappone era ancora Kyoto, ove risiedeva la suprema autorità: il tennô, l'imperatore. La missione Perry presumibilmente non era in grado di valutare appieno questa situazione, non poteva quindi prevedere cosa sarebbe successo negli anni seguenti.

Eppure Perry aveva cercato di documentarsi scrupolosamente, intervistando di persona lo studioso Von Siebold che aveva soggiornato a lungo a Deshima ed esaminando tutta la documentazione allora disponibile sul Giappone.

La lettera del presidente Fillmore alle autorità giapponesi, di cui era latore Perry, non venne accettata: le 4 navi da guerra della squadra, il Mississippi, il Plimouth, il Susquehanna ed il Saratoga, iniziarono allora un pesante bombardamento della costa. La missiva venne infine ritirata, in cambio della cessazione delle ostilità, e Perry ripartì con l'intesa di ritornare a tempo debito per avere una risposta.

Per la prima volta nella storia giapponese fu chiamato a decidere le linee di condotta di fronte alle richieste del governo degli Stati Uniti un largo comitato esteso a tutte le personalità del paese. Che si era però diviso irreparabilmente in due fazioni appostate su posizioni inconciliabili. I tradizionalisti (jôi) chiedevano di respingere gli stranieri e restaurare il potere imperiale di Kyoto, ridotto ormai da quasi 1000 anni a funzioni quasi puramente simboliche. I riformatori continuavano a sostenere il regime Tokugawa di Edo ed erano favorevoli all’apertura del Giappone al mondo esterno.


Il tempo di decidere era ormai arrivato. Veniva avvistata al largo di Kanagawa nel febbraio del 1854 una nuova flotta americana, composta ora da otto vascelli da guerra: l'ammiraglio Perry stava tornando, per ritirare la risposta alle sue richieste.

Dopo lunghe trattative, tagliando corto infine con le discussioni, venne firmato in marzo a nome dello shogûn un trattato di amicizia con gli Stati Uniti. Seguivano a breve termine altri trattati analoghi con la Gran Bretagna, la Russia, l’Olanda.

Conoscere maggiori dettagli di quel primo incontro – scontro tra il sol levante e la “civiltà occidentale” è essenziale per cercare di capire cosa gli uni abbiano capito degli altri, ed attraverso quali sentieri.

Ci aiuterà, in modo molto più sottile di quanto possa sembrare a prima vista, un’esposizione unica nel suo genere: i reperti della spedizione Perry: quello che l’ammiraglio e i consulenti scientifici della sua spedizione ritennero importante, memorabile, necessario. Quello che acquistarono, quello che fu loro donato, quello che richiesero espressamente di avere per riportarlo in patria, classificarlo, studiarlo. O semplicemente come ricordo.

Ma iniziamo prima da una testimonianza diretta: il diario del commodoro Matthew Galbraith Perry (When We Landed in Japan, 1854, da Eva March Tappan, ed., The World's Story: A History of the World in Story, Song and Art, (Boston: Houghton Mifflin, 1914), Vol. I: China, Japan, and the Islands of the Pacific, pp. 427-437.)

Quando l’aria si schiarì e la riva si aprì alla visuale, l’industrioso lavoro dei giapponesi durante la notte venne rivelato, nello scenario maestoso della costa di Uraga. Schermi ornamentali di tessuto erano stati sistemati per donare un aspetto più dignitoso e anche dimensioni apparentemente maggiori ai bastioni ed al forte; e due tende si allargavano tra gli alberi.

Gli schermi erano tenuti ben tesi nella maniera usuale da pali di legno, e ogni intervallo tra loro era così distintamente marcato da dare in lontananza l’aspetto di una pannellatura. Su questi finti pannelli appariva il blasone delle armi imperiali, alternato con il motivo di un fiore scarlatto circondato da larghe foglie a forma di cuore.

Perry incorreva probabilmente in un significativo equivoco: è da escludere che apparisse sugli stendardi lo stemma imperiale (il kikumon, un crisantemo stilizzato), il tennô si asteneva scrupolosamente da ogni attività "politica" o semplice contatto e la delegazione giapponese era composta invece da rappresentanti dello shogûn.

Forse tradito dalla memoria nella descrizione, è probabile che Perry intendesse riferirsi con il "fiore scarlatto" allo stemma della famiglia Tokugawa, rappresentante 3 foglie di aoi (malva), a forma di cuore, racchiuse in un cerchio. L'altro simbolo era verosimilmente la foglia di kiri (pawlonia), emblema del potere governativo e che in epoca successiva divenne quello delle forze armate e ritroviamo quindi sulle spade usate ancora dagli ufficiali nipponici nella seconda guerra mondiale (shingunto).

Nella illustrazione: il mon dei Tokugawa, chiamato mitsuba aoi, accanto ad una tsuba della scuola Shoami in cui appaiono contemporaneamente il kikumon simbolo del tennô , il kiri simbolo dello shogûn ed il sol levante simbolo del Giappone.

Bandiere e stendardi, sopra i quali vari emblemi erano dipinti a vivaci colori, erano fissati su diversi punti delle schermature, mentre al didietro si addensavano fitte masse di soldati, schierati in costumi che non erano stati notati in precedenza, e che si supponeva riservati ad eventi eccezionali.

La parte principale della loro uniforme consisteva in una specie di tunica dai colori scuri, accompagnata da una corta gonna al di sotto della quale apparivano delle fasciature, priva di maniche e con le armi del loro signore in piena vista.

Prima che suonassero gli otto tocchi del mattino, il Susquehanna ed il Mississippi mossero lentamente attraverso la baia. Simultaneamente al movimento delle nostre navi, si videro sei battelli giapponesi navigare nella stessa direzione, ma tenendosi maggiormente a riva. I vessilli con bande del governatorato distinguevano due dei battelli, mostrando la presenza a bordo di qualche alto ufficiale, mentre gli altri portavano bandiere rosse e probabilmente imbarcavano un seguito o scorta di soldati. Doppiando il promontorio che separava il primo ancoraggio dalla parte inferiore della baia, i preparativi dei giapponesi nel porto vennero immediatamente in vista.

La parte della baia che costeggiava il promontorio era decorata da una lunga cortina di schermi dipinti di tessuto sopra i quali apparivano le armi dell’Imperatore. Nove alti stendardi si ergevano al centro di un numero immenso di bandiere dai differenti vivaci colori, sistemati sull’uno e sull’altro lato in modo che l’assieme formasse un cumulo crescente di bandiere dai vari colori, che sventolavano vigorosamente tra i raggi del sole nascente. Agli alti stendardi erano sospesi larghi pennoni di un ricco scarlatto che sfioravano il suolo ondeggiando nella loro lunghezza. Sulla spiaggia di fronte a quest’apparato erano schierati reggimenti di soldati, immobili in ordine serrato, chiaramente sistemati in modo da fornire una dimostrazione di forza marziale, in modo che gli americani rimanessero profondamente impressionati dalla potenza militare dei giapponesi.

In realtà gran parte di questa messa in scena non avrebbe retto ad un esame approfondito.

In previsione del ritorno di Perry ad esempio le coste delle baia di Uraga erano state fortificate e pezzi di artiglieria erano stati piazzati ovunque.

Si trattava infatti di cannoni posticci, eseguiti affrettatamente quanto rozzamente in legno ma che potevano apparire del tutto credibili vedendoli da una nave. (foto: da Wikipedia)

 

 

 

 

 

 

 

All’arrivo del commodoro, la sua scorta di ufficiali formò una doppia linea sulla spiaggia, e non appena lui fu passato tra di loro si schierarono in ordine dietro di lui, seguendolo.

La processione era così formata e prese a marciare in direzione del palazzo di ricevimento seguendo la via indicata da Kayama Yezaiman e dal suo interprete, che precedevano il gruppo.

I marines aprivano la marcia e i marinai subito dopo, il commodoro venne degnamente scortato lungo la riva. La bandiera degli Stati Uniti e il largo pennone erano portati da due atletici uomini di mare, che erano stati selezionati tra l’equipaggio della flotta in virtù del loro aspetto impressionante.

Due ragazzi, acconciati per la cerimonia, precedevano il commodoro, portando in un rivestimento di tessuto scarlatto lo scrigno di legno che conteneva le sue credenziali e la lettera del Presidente.

Questi documenti, di formato in folio, erano scritti con arte su pergamena, non arrotolati ma avvolti in velluto di seta blu. Ogni sigillo, attaccato a cordoni di seta ed oro con pendenti d’oro, era incastonato in scrigni circolari di sei pollici di diametro e tre di profondità, rivestiti d’oro puro. Ognuno dei documenti, assieme al suo sigillo, era contenuto in uno scrigno di legno di rosa lungo circa un piede con serratura, cerniere e montature in oro. A ogni lato del commodoro marciava un negro alto e ben proporzionato armato fino ai denti che fungeva da guardia del corpo personale. Questi neri, selezionati per l’occasione, erano i due ragazzi di migliore aspetto che la flotta potesse fornire.

Tutto questo, naturalmente, era studiato per l’effetto.

...

Per qualche tempo dopo che il commodoro ed il suo seguito avevano preso posto ci fu una pausa che durò qualche minuto, senza che venisse pronunciata una parola né da una parte né dall’altra. Tatznoske, l’interprete ufficiale, fu il primo a rompere il silenzio, chiedendo a Mr. Portman, l’interprete olandese, se le lettere fossero pronte per la consegna, e assicurando che il Principe Toda era preparato a riceverle; e che lo scrigno scarlatto all’estremità superiore della stanza era pronto ad accoglierle. Il commodoro dopo che quanto sopra gli fu comunicato fece cenno ai suoi ragazzi che erano rimasti nella hall da basso di avanzare, e loro immediatamente eseguirono i suoi ordini e vennero avanti, recando nelle mani gli scrigni contenenti la lettera del Presidente e gli altri documenti.

 

Il memoriale della spedizione Perry comprendeva inizialmente delle statue del commodoro e di un dignitario giapponese, a grandezza maggiore del naturale.

Nella foto, scattata nel giorno dell'inaugurazione alla presenza delle autorità giapponesi e di una delegazione statunitense, appare a sinistra, con il grande ombrello, Sukeshichi Hirai, che aveva allora 91 anni ed era probabilmente l'ultimo testimone oculare dell'incontro di Uraga.

Fu lui a permettere di identificare correttamente i luoghi dell'evento. Le due statue andarono in seguito disperse.

 

I due impressionanti negri seguivano immediatamente dietro i ragazzi, marciando fino al ricettacolo scarlatto dove ricevettero gli scrigni dalle mani dei portatori, li aprirono prendendo le lettere e, mostrando gli scritti ed i sigilli, li depositarono all’interno dello scrigno giapponese, il tutto in perfetto silenzio.

Yezaiman e Tatznoske allora si inchinarono e, camminando sulle loro ginocchia, chiusero i legacci attorno allo scrigno scarlatto e, informando il commodoro che non c’era altro da fare, uscirono dalla sala inchinandosi di fronte ad ognuno cui passavano davanti, ai due lati della sala. Il commodoro allora si alzò per uscire e, appena lui fu partito, i due principi, sempre rimanendo in assoluto silenzio, si alzarono a loro volta rimanendo in piedi finché gli stranieri non scomparvero dalla loro vista.

 

Va notato ancora una volta che le autorità statunitensi erano rimaste convinte a questo punto di avere concluso un accordo con l'imperatore del Giappone, mentre avevano trattato con una delegazione dello shogûn ed erano in possesso di un documento non avente alcuna efficacia in caso di contestazione o mancata ratifica da parte dell'imperatore.

La storia di Matthew Perry ebbe fine poco dopo. Ritornato negli Stati Uniti nel 1855, gli venne elargita una gratifica di 20.000$ per il complesso del suo lavoro in estremo oriente che comprendeva anche una esplorazione dell'isola di Formosa, di cui aveva suggerito l'occupazione militare. Dedicò gran parte di questa somma alla preparazione di un resoconto in tre volumi della sua missione, che apparve col titolo di Narrative of the Expedition of an American Squadron to the China Seas and Japan.

Venne collocato poco dopo nella riserva, soffrendo di una grave forma di artrite, e scomparve il 4 marzo 1858 in seguito ad una cirrosi epatica dovuta a problemi di alcolismo.


Nel 1858 venivano richieste da Gran Bretagna, Russia, Olanda e Francia, diverse estensioni ai trattati firmati dopo la seconda spedizione Perry. Nonostante il parere sfavorevole della corte imperiale che le riteneva estremamente nocive per gli interessi del Giappone e cariche di clausole vessatorie e infide, le richieste vennero accolte. Ma l’mperatore Komei nel 1864 rifiutò definitivamente di ratificarle, dopo avere a lungo tergiversato negli anni precedenti.

I sentimenti di rancore verso gli stranieri erano largamente condivisi dalla popolazione: nessuno dei vantaggi promessi si era concretizzato, le disinvolte abitudini commerciali degli stranieri seminavano disagio, e numerosi incidenti avevano turbato la nazione. L’assassinio del plenipotenziario Naosuke che conduceva le trattative e quello di un commerciante britannico causarono spietate rappresaglie occidentali. Il bombardamento di Kagoshima da parte della flotta inglese, il cannoneggiamento ripetuto di Shimonoseki per rappresaglia contro le dimostrazioni xenofobe autorizzate dall’Imperatore per evitare sommosse popolari, altri bombardamenti ancora nell’agosto e settembre del 1863. Questi atti di guerra vera e propria causarono gravi perdite nella popolazione civile e gravi turbamenti sociali e politici.

Lo shogûn venne ufficialmente convocato a corte, una procedura ormai inusitata, dove l’imperatore gli comunicò ufficialmente tutta la sua avversione per gli stranieri. Ma lo shogunato era ancora abbastanza forte per resistere. Anche in armi se necessario. Dopo oltre due secoli di pax Tokugawa, le truppe dello Shogûn scesero in campo, riportando una vittoria sanguinosa ma non duratura contro i restauratori, un assemblamento disomogeneo di milizie irregolari reclutate tra i feudi del sud e di truppe imperiali prive di reale efficacia bellica in quanto abituate da secoli a meri compiti di rappresentanza.

Nel 1867 il destino sembrò scendere definitivamente in campo dalla parte dello shogûn: decedeva nel 1866 lo shogun Iemochi.

Gli succedeva al potere l’energico Yoshinobu Tokugawa detto Keiki, cultore delle arti marziali e già comandante delle truppe che avevano respinto l'attacco dei ribelli di Satsuma e Soshu.

Aveva all'epoca 30 anni.

 

 

 

 

 

 

 

 

Poco dopo, nel gennaio 1867, scompariva improvvisamente a soli 36 anni l'imperatore Komei. Saliva al trono imperiale il sedicenne Mutsuhito, che sembrava destinato ad essere una facile preda del suo antagonista.

E fu invece proprio questo ragazzo, passato poi alla storia col nome di Meiji (che caratterizzò secondo l’usanza giapponese anche l'epoca del suo regno), a far pendere il piatto della bilancia dalla sua parte ed in seguito a governare l'inevitabile per quanto traumatico cambiamento radicale della nazione giapponese.

Qui lo vediamo in una litografia di autore anonimo ma probabilmente ripresa da un ritratto ufficiale di Edoardo Chiossone, pubblicata nel 1893 da Kumazawa Kitarō III; raffigura l'imperatore Meiji e la sua consorte in abiti occidentali. Una doppia sconvolgente novità per la società giapponese, nella quale non era consueto diffondere immagini dell'imperatore, nessun occhio profano poteva guardarlo, e meno che mai in abbigliamento non convenzionale.

Sommerso dalle contestazioni, soprattutto da parte degli aristocratici e delle classi dirigenti, lo shogûn Yoshinobu con gesto teatrale rassegnava nel 1868 le dimissioni dalle sue cariche e funzioni nelle mani dell'adolescente imperatore Meiji.

Secondo la complessa procedura giapponese quest’atto non diminuiva minimamente il suo potere effettivo, ma nessuno aveva previsto che Meiji accettasse queste generiche dimissioni, il 3 gennaio del 1868, precisando minuziosamente caso per caso a quali poteri lo shogûn aveva rinunciato definitivamente. Nonostante la loro ostinata resistenza protratta fino al 1869 inoltrato, i seguaci dello shogûn avevano ormai perduto la loro battaglia.

L’Imperatore proclamava nello stesso 1868 la Carta dei cinque articoli che poneva fine al sistema di divisione per classi, incoraggiava lo studio delle scienze occidentali e iniziava lo smantellamento delle strutture di potere del clan Tokugawa e del sistema feudale stesso. Era forte dell’appoggio dei daimyo del sud, soprattutto Satsuma e Soshu, che spontaneamente rimettevano nelle sue mani tutti i loro feudi. Ormai anche i più fieri oppositori dell’apertura si rendevano conto che non era possibile chiudere di nuovo le porte del Giappone, ma erano ben decisi a non permettere colonizzazioni selvagge come quelle che stavano subendo la Cina ed altre nazioni dell’est asiatico. Il Giappone si sarebbe aperto al mondo, ma alle sue condizioni, cambiando radicalmente la propria struttura sociale ma senza rinunciare alle sue tradizioni.

Dopo una breve ma cruenta guerra, le truppe imperiali appoggiate dai feudatari del sud ebbero ragione di quelle shogunali. Al termine di una difficile trattativa condotta dal maestro Yamaoka Tesshu, lo shogun si arrese, ottenendo salva la vita. Yoshinobu Tokugawa si ritrò a vita privata, scomparendo nel 1913.

E’ facile vedere che la reazione giapponese al trauma causato dall’arrivo in armi praticamente indisturbato dei “barbari” sul sacro suolo del Giappone era allo stesso tempo di attrazione fatale e istintiva repulsione. Furono sicuramente molti i giapponesi che si erano resi immediatamente conto che nulla sarebbe mai più stato come prima, ma molto variegate, di segno addirittura completamente opposto, le loro reazioni pratiche.

A livello politico sconvolgimenti inimmaginabili di stati di fatto ormai quasi millenari scuotevano la coscienza delle classi dirigenti: il governo dello Shogun arrivava al termine della sua parabola. L’Imperatore riprendeva la guida materiale del paese: tramontava l’epoca Tokugawa, nasceva l’era Meiji.

Ci fu chi sposò immediatamente la causa del cambiamento, ci fu invece, e tra loro molti adepti delle arti marziali, tentòestreme quanto disperate ribellioni. Ma invano.

Come più o meno negli stessi anni si tramanda abbia detto il principe Salinas nella sua Sicilia sconvolta dalla spedizione di Garibaldi, “tutto doveva cambiare perché nulla cambiasse”.

Nella stampa a fianco, di Tsukioka Yoshitoshi: ritratto di Komagine Hachibei; stampa della serie
Cento guerrieri scelti da Yoshitoshi.

In questa serie che avrebbe dovuto rappresentare leggendari eroi della storia giapponese, erano in realtà raffigurati gli sfortunati protagonisti della ribellione di Satsuma.

 

 

 

Nel 1871 venivano definitivamente aboliti i privilegi della classe militare. La classe dei samurai, punta di lancia e nucleo allo stesso tempo del sistema feudale dei Daimyo, veniva soppressa.

Veniva proibito nel 1876 il porto delle due spade da parte dei samurai, causando enormi reazioni emotive che sfociarono un anno più tardi nella ribellione armata condotta da Saigo Takamori, che era stato negli anni precedenti uno dei più validi generali della fazione imperiale, nella bellicosa terra di Satsuma.

Accorsero samurai da ogni parte del Giappone, per opporsi in armi alla forzata modernizzazione del Giappone, ma l'esercito imperiale che nel frattempo si era inquadrato ed equipaggiato modernamente, ed era assistito da numerosi consiglieri militari, ebbe ragione di loro. Quando ogni resistenza fu vana Takamori, assieme al suo stato maggiore, si tolse la vita.

Nella stampa di Tsukioka Yoshitoshi: Saigo Takamori e il suo luogotenente Kirino Toshiaki vergano il loro poema di addio, in attesa dell'assalto finale delle truppe imperiali. Stampa pubblicata nell'ottobre 1877 da Matsumura Jinbei.

Ma se Meiji sembrava avere bruscamente invertito la sua politica, accettando il processo di modernizzazione ed apertura delle frontiere che aveva solo pochi anni prima combattuto con le armi, era per poter pilotare l'ormai non procrastinabile processo innovativo, preservando al tempo stesso la tradizione millenaria della cultura giapponese.

Tsukioka Yoshitoshi: rappresentazione di gagaku (musica di corte) durante la festa delle bambole (Hina Matsuri) al palazzo imperiale. Pubblicato da Inoue Mohei III nel 1880. Inevitabile notare come lo stesso artista rappresenti e celebri nelle sue opere sia i ribelli di Satsuma che lo splendore della corte imperiale e dell'Imperatore stesso, qui raffigurato nel costume tradizionale assieme alla sua sposa.

Iniziava anche tra le altre cose un processo travagliato da cui dovevano poi nascere diverse generazioni più tardi le arti marziali moderne, che trovavano nuove motivazioni e nuovo slancio vitale in quello che ormai sembrava un fuoco destinato a spegnersi per sempre.

Dopo una generazione di transizione, formata da maestri di enorme spessore tecnico e spirito marziale indomabile, reduci materialmente o idealmente dalla sanguinosa ribellione di Satsuma soffocata col sangue dei samurai, che si lanciavano all’attacco sguainando le nude lame contro i fucili dell’esercito (ormai equipaggiato ed addestrato all’occidentale e arruolato mediante leva obbligatoria, non più formato di guerrieri), venne una nuova generazione di maestri che seppero trovare una nuova tensione ideale, che seppero indirizzare verso fini ben più alti le loro energie e il patrimonio di conoscenze dei loro avi.

L'imperatore Mutsuhito, conosciuto come Meiji il grande, il primo imperatore tornato ad esercitare dopo un millennio il potere temporale, scomparve nel luglio del 1912, precedendo di poco la scomparsa del suo nemico di alcuni anni prima, l'ultimo degli shogun Yoshinobu Tokugawa.


Al seguito della spedizione Perry non vi erano persone incaricate specificamente di raccogliere materiale “locale”, ma è molto probabile che vi fossero accordi informali già in precedenza con lo Smithsonian Institute. Il commodoro incaricò della maggior parte degli acquisti l’agronomo della spedizione, il dr. James Morrow, ma troviamo nel suo diario la conferma che diversi acquisti furono fatti direttamente da lui, o che acquisti fatti individualmente da vari membri della spedizione confluirono poi nella “collezione Perry”, come anche i vari doni ricevuti da delegazioni locali. La conseguenza immediata, di un’evidenza lampante, è che non si riesce ad individuare un chiaro filo conduttore nella raccolta.

Troviamo negli interminabili elenchi del materiale repertato, classificato alla buona e conservato per oltre un secolo negli archivi della Smithsonian Institute, tutto e di tutto. Ma solo recentemente è stata intrapresa l’opera di riclassificazione di tutto il materiale, pubblicato in Artifacts of Diplomacy, Chang-su Houchins, Smithsonian Collection from Commodore Matthew Perry’s Japan Expedition (1853, 1854),Smithsonian Institute Press, Washington, ISBN 1-56098-538-0

Vi troviamo oggetti di uso comune, oggetti perfino dozzinali, o presunti tali come un kasa, quell’ombrello di bambù che giureremmo uscito da uno dei tanti supermercati orientali che proliferano ormai in ogni capitale europea.

Invece rappresenta un dono ufficiale dalla città di Ido, mutuando un’antica tradizione cinese: al funzionario che lascia il distretto si fa dono di un ombrello, simbolo di rispetto, purezza, dignità e prestigio.

Questo ombrello da uomo (amagasa) è invece di fattura comune. E' fatto con un unico pezzo di bambu, tagliato a liste sottili collegate tra loro con carta, poi impermeabilizzata con olio e laccata.

Quando è chiuso la decorazione assume un tipico aspetto geometrico definito ja-no-me (ad occhio di serpente).

Non è certamente l'unico ombrello nel catalogo Perry: ne sono classificati almeno 40, nei tipi "konji ja-no-me gasa" (blue marino ad occhio di serpente) e "ja-no-me gasa" di cui molti ricevuti in dono ad Ido, oltre ad altri 57 di tipo andante.

L'uso dell'ombrello come dono di commiato a funzionari che abbiano svolto egregiamente il loro compito è di origine cinese.

 

 

 

Oggetti che oltre ad apparire comuni lo sono veramente.

Che dire di quel paio di koma-geta, sandali per donna di uso quotidiano e di fattura assolutamente ordinaria?

Forse a nobilitarli è valsa l’orgogliosa scritta che li accompagnava: Primo acquisto fatto in Giappone dagli Americani.

In realtà questo reperto venne aggiunto solo nel 1977 alla collezione Perry, dono degli eredi dell'acquirente originario.

Non mancano nella collezione oggetti il cui uso venne dimenticato e poi completamente frainteso dagli archivisti che tentarono di classificarlo.

Come un tamago-yaki, padella per banalissime frittate che, forse traditi dalla forma quadrata difficilmente associabile alle rotondità dell’uovo, venne identificata per oltre un secolo come teglia da forno per lo stufato in umido.

Oggetti che ci sembrano banali perché ormai assimilati da tempo nella nostra cultura e consideriamo “nostri”.

Come i due amma-ki, attrezzi in bambù per massaggi, che ora troviamo in ogni farmacia e dovettero sembrare invece all’epoca inediti, curiosi e degni di nota.

Oggetti molto simili erano utilizzati anche per lavare e massaggiare i capelli (hitori-amma).

Questi reperti provengono probabilmente dal gruppo di utensili in bambu ricevuti in dono da Izawa Mimasaki-no-kami.

 

 

 

 

 

 

Oggetti che ci fanno sorridere.

Simili alla paccottiglia di cui amano riempire i bagagli i viaggiator dii ogni tempoi.

Che siano giapponesi di fronte alla torre di Pisa muniti dell’immancabile macchina fotografica che spara implacabile il suo minuscolo flash a mezzogiorno, o che sia un ufficiale di marina degli S.U. che acquista nella baia di Yokohama nel marzo del 1854 un patetico sensu, un ventaglio col suo ritratto schizzato al volo da un venditore ambulante.

Nel ventaglio, in bambu e carta, appare il ritratto dell'ufficiale Thomas C. Dudley ripreso dal vivo. Nemmeno questo faceva parte in origine dei reperti della spedizione Perry, ma venne donato dagli eredi di Duddley nel 1977.

La scritta, di pugno di Dudley, dice: "Il mio ritratto a dimensione doppia del naturale, fatto da un giapponese; nella baia di Yokohama Jeddo (Edo), 31 marzo 1854". Era d'uso in Giappone regalare un ventaglio agli stranieri incontrati per la prima volta.

Ma anche oggetti dalla bellezza abbacinante e senza tempo, che ci sembrano ormai vecchi amici perché li abbiamo ammirati esposti nelle mostre di mezzo mondo.

Come questo recipiente laccato (ryhōshi-bako) offerto in dono al presidente degli Stati Uniti.

E poi porcellane di squisita fattura, sete, innumerevoli splendidi prodotti della cultura tradizionale giapponese.

Felice Beato: un fotografo italiano in Giappone

Nonostante il titolo di questo articolo è bene fare una doverosa premessa: a rigore Felice Beato non potrebbe essere definito cittadino italiano a pieno titolo. Innanzitutto perché nacque intorno al 1830 a Corfu, in un periodo quindi in cui non esisteva nemmeno uno stato italiano, e in un territorio appartenente geograficamente alla Grecia ma all'epoca protettorato britannico. L'isola di Corfu faceva parte però fino al 1797 dei domini della Repubblica di Venezia e fu quindi culturalmente legata per secoli all'Italia.

La madre era sicuramente di etnia italiana mentre il padre sembra fosse cittadino britannico, ma non è possibile escludere che fosse anchegli di origine italiana, semplicemente passato di nazionalità nel confuso periodo tra 700 ed 800 in cui Corfu appartenne a tre differenti nazioni: prima la Repubblica Veneziana, dal 1797 la Francia e a partire dal 1815 l'Inghilterra, per ritornare definitivamente alla Grecia solo nel 1864. E' di questa epoca la richiesta da parte di Beato di un passaporto britannico. Per le ragioni sopra esposte era l'unica soluzione che gli si presentava, oltre ad essere la più conveniente. Va detto però che fonti differenti lo riportano come nato a Venezia, e che aveva probabilmente ottenuto la naturalizzazione come cittadino britannico in compenso del suo reportage sulla guerra di Crimea che fu esposto a Londra nel 1856.

Felice Beato, assieme al fratello Antonio e al disegnatore l'inglese James Robertson con cui "era in ditta" si stava già affermando nella professione che chiameremmo oggi di fotoreporter. Lo vediamo qui in un autoritratto risalente al 1866. Sia come sia, Beato ottenne da quel momento una serie di commesse che lo portarono a viaggiare in diverse nazioni dell'estremo oriente. Documentò in India la rivolta dei Sepoy contro il dominio inglese, in Cina si occupò di riprendere le vicende della seconda guerra dell'Oppio, condotta dalle truppe franco-britanniche contro il goveno cinese, che voleva interdire la vendita degli stupefacenti su cui lucravano i commercianti stranieri.

Il suo successivo passaggio fu in Giappone e precisamente a Yokohama, dove si stabilì nel 1863 e volse gradatamente il suo interesse più che alle foto di attualità alla cultura, al  paesaggio ed al popolo giapponese, valendosi anche dell'aiuto di un gruppo dii illustratori locali che coloravano a mano le sue stampe e allo stesso tempo apprendevano l'arte della fotografia, come Kusakabe Kimbei che divenne poi uno dei più rinomati fotografi del Giappone, Ueno Hinoma ed altri ancora. Fu probabilmente l'esponente più prolifico ed importante della scuola fotografica di Yokohama, e pubblicò per vari anni il periodico in lingua inglese Japan Punch assieme al suo socio in affari Wirgman. Sfortunatamente il suo archivio venne distrutto da un incendio nel 1866, ma gli anni successivi lavorò instancabilmente per ricostruirlo ed accrescerlo, ispirandosi molto nelle sue opere anche alle stampe giapponesi di Hokusai ed Hiroshige.

Impegnato in numerose e non sempre fortunate attività commerciali, anche per un certo periodo console generale  di Grecia in Giappone, lascò l'attività di fotografo nel 1877 cedendo il suo archivio a Raimund von Stillfried, artista austriaco a sua volta attivo in quegli anni in Giappone e fotografo ufficiale dell'imperatore Mutsuhito (meglio conosciuto come Meiji). Beato lasciò il Giappone nel 1884 vendendo quanto era rimasto dell'archivio ad Adolfo Farsari, valido rappresentante del non numerosissimo ma estremamente agguerrito gruppetto di italiani che nella seconda metà dell'800 furono pionieri dei rapporti con il Giappone. Tra loro l'esploratore Giacomo Bove che nel 1872 partecipò come cartografo alla missione della corvetta Governolo all'esplorazione di Borneo e Giappone, Edoardo Chiossone che diresse a lungo l'Officina Carte e Valori di stato del Giappone e a cui è intitolato il prestigioso Museo di Arte Orientale di Genova, Enrico di Borbone Parma che acquisì in Giappone il nucleo di quella importante collezione ora diivisa tra il Museo di Ca' Pesaro a Venezia ed il Museo Etnografico Pigorini in Roma, ed altri ancora. Ne riparleremo.

Per ora torniamo a Felice Beato, per parlare della sua tecnica fotografica. La fotografia dell'epoca era molto distante da quella odierna; Beato lavorava infatti con la tecnica maggiormente diffusa al momento, quella dell'albumina, ancora allo stato pionieristico in quanto introdotta solo pochi decenni prima dal francese Blanquart Evrard. Dapprima era richiesta una meticolosa preparazione della gelatina fotosensibile da stendere sulle lastre fotografiche. Si otteneva comunque una sensibilità molto bassa che richiedeva lunghi tempi di esposizione, rendendo inevitabile l'uso del cavalletto e proibendo di fatto il genere fotografico conosciuto come "istantanea".

Le pose privilegiavano quindi soggetti statici, come i paesaggi, o richiedevano accurate ricostruzioni in studio utilizzando fonti di luce artificiale, ove le pose dei personaggi apparivano spesso artificiose dovendo essere sostenute a lungo in perfetta immobilità. In tempi di fotografia digitale è bene ricordare anche che sulle lastre si otteneva una immagine in negativo ossia con i toni invertiti, poiché si annerivano maggiormente le superfici più esposte alla luce. Era quindi necessario un ulteriore passaggio per riportare l'immagine al positivo.

Veniva quindi preparata e stesa su un supporto di carta una differente gelatina con fissante a base di albume d'uovo e materiale fotosensibile a base di nitrato d'argento. La stampa dal negativo avveniva per contatto, sovrapponendo la carta al negativo che veniva poi illuminato da una fonte di luce che attraverso la trasparenza della lastra negativa trasmetteva l'immagine sul supporto di stampa. Le immagini, dello stesso formato del negativo, venivano poi colorate a mano da artigiani specializzati che seguivano i metodi tradizionali giapponesi, creando una nuova espressione artistica sintesi di due diifferenti culture. In giappone infatti si colorava all'acquerello, tecnica che si rivelò decisamente più appropriata di quella all'olio utilizzata in occidente, che ricopriva l'immagine di un velo opaco, privandola di luminosità.

Accenniamo infine alla incertezza delle fonti sulle ultime vicende di Beato, che alternò l'attività di antiquario a quella di fotografo e scomparve forse in Birmania nel 1903, forse solo alcuni anni dopo (la sua compagnia venne sciolta nel 1907), per poi lasciare spazio alle sue opere.

 


Ritratto di generale.

In realtà la giovane età della persona raffigurata è incompatibile con una carica del genere, mentre l'armatura e l'equipaggiamento sono male assortiti.

Si tratta verosimilmente di  una ricostruzione in studio destinata ad illustrare agli stranieri gli aspetti "tipici" del Giappone, ma ancora priva di spessore analitico, la hakama con motivi floreali ad esempio non è congrua con l'armatura indossata nella parte superiore del corpo.

A conferma di questa ipotesi, lo stesso personaggio, sul medesimo fondale e con gli stessi elementi di contorno ma in abiti diversi, viene riproposto in altre foto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritratto di samurai.


Il personaggio, che porta sulla manica del'aori le armi degli Hosokawa, è tuttavia chiaramente occidentale.


La colorazione ad acquarello si sposa bene con le caratteristiche della fotografia all'albumina, aggiungendo e non togliendo luminosità come avrebbe fatto invece la colorazione ad olio.

 

 

 

 

 

 

 


 

Negozio di curiosità in Yokohama


Ove non è costretto a ricostruire artificialmente la realtà ed è libero di limitarsi ad una sua attenta osservazione Felice Beato dà chiaramente il meglio di sé.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La cascata di Shirabe a Dogashima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Strada di Osaka

La breve e intensa vita di Lafcadio Hearn

La prima cosa che colpisce di Lafcadio Hearn è ovviamente il nome, ma ci potremmo consolare pensando che in fondo i nomi irlandesi possono essere peggiori. In realtà il nome gli venne dall'isola greca di Lefkada dove nacque nel 1850 dal maggiore medico Charles Hearn in forza all'esercito inglese che all'epoca occupava la zona e da Rosa Kassimati, originaria di un'altra isola nei pressi dell'Attica. Questa nascita "complicata" è un presagio della vita, breve ma felicemente randagia, di Hearn.

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