Jidai
Akira Kurosawa: 1950 - Rashomon - Il giudice
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Ci troviamo ora di fronte al giudice; non lo vedremo mai, né mai ascolteremo la sua voce, ma le sue domande vengono immediatamente intuite attraverso le risposte dei testimoni e dell'imputato.
Sappiamo che si tratta di un giudice monocratico e non di un collegio solamente dalla lettura del racconto originale di Akutagawa, che si apre con le parole "Racconto di un boscaiolo che risponde al giudice".
Ci troviamo non dentro un'aula, ma in un cortile assolutamente spoglio, chiuso da un alto muro.
La testimonianza del boscaiolo non può chiarire molto. Tutto quello che può dire è di avere trovato il cadavere per caso, in un posto solitario ad una certa distanza dalla strada.
Aveva una sola ferita, mortale, al cuore e nei suoi dintorni non c'era alcun oggetto, tranne una corda ed un pettine femminile.
Nemmeno il bonzo (Minoru Chiaki) può dire molto. Durante il suo percorso senza meta aveva incrociato lungo la strada un samurai, armato della spada e di un arco, con venti frecce.
Era quindi anche lui un viandante, diretto chissà dove.
Conduceva per la briglia un cavallo su cui era una donna completamente velata, di cui quindi era impossibile scorgere le fattezze, nemmeno comprendere l'età.
Il monaco è scosso dalla caducità dell'essere umano.
Quel samurai così orgoglioso e fiero d'aspetto, poco dopo era nulla più che una misera spoglia.
Sappiamo, sempre dal testo di Akutagawa, che si sarebbe trattato di un giovane samurai della provincia di Wakasa: Takehiro Kanazawa.
Sua moglie, era lei la donna sul cavallo, si chiamava Masako ed aveva solamente 19 anni.
La successiva testimonianza conduce ad una drammatica svolta nelle indagini.
Un informatore di polizia (Daisuke kato), visibilmente compiaciuto, conduce con sé un uomo saldamente legato.
Come in tutti paesi del mondo l'informatore è solo un piccolo delinquente implicato in lievi reati, rilasciato a condizione di collaborare e tenere informate le autorità di quanto succede nel sottobosco della criminalità.
L'uomo legato è invece un famigerato e fino ad allora inafferrabile brigante: Tajomaru (Toshiro Mifune).
Kurosawa ce lo presenta assorto ad osservare le nuvole, completamente dimentico della situazione in cui si trova: destinato ad una inevitabile condanna a morte per decine di gravi reati.
Mifune dé per la prima volta in questo film (un accenno era in L'angelo ubriaco) piena dimostrazione della sua recitazione provocatoria, in cui alterna momenti di assenza dal mondo ad esplosioni di improvvise reazioni, violente ed incontrollate, a fatti di scarsa rilevanza.
I suoi sentimenti non vengono manifestati solamente dalle espressioni del volto o dalle tonalità della voce.
E' con tutto il corpo, attraverso movimenti improvvisi e rabbiosi o minimalistici gesti abitudinari, potremmo dire con tutta la sua personalità, che Mifune contribuisce a rendere manifesto ogni stato d'animo dei personaggi che interpreta.
Quando Tajomaru ha uno scatto d'ira è per contestare la deposizione dell'informatore.
Non è per negare di essere un malvivente: ma per sfuggire all'onta di essersi lasciato catturare da un imbelle.
Uno strano avvelenamento, aveva bevuto avidamente da una sorgente, lo aveva fatto cadere preda di un malore.
Solamente per questa ragione era caduto da cavallo, sul bordo del fiume, e non aveva potuto opporre resistenza quando l'informatore l'aveva legato ed arrestato.
Aveva ancora con sé le stesse frecce che il bonzo ha testimonato di avere visto nella faretra del samurai ucciso, ed anche il cavallo che era con lui sembra lo stesso su cui viaggiava la donna sconosciuta.
E' evidente che abbia avuto in qualche modo a che fare col delitto, è il primo indiziato per l'assassinio.
Tajomaru dichiara sprezzantemente di essere a conoscenza del suo destino: di lì a poco sarà sicuramente impiccato, non ha quindi alcun interesse a mentire per alleviare la sua posizione in quell'ultimo irrilevante delitto.
Ma vuole almeno dire la sua. E la dirà.