Jidai
Akira Kurosawa: 1950 - Rashomon
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Akira Kurosawa: Rashomon
1950
Takashi Shimura, Minoru Chiaki, Kichijiro Ueda, Daisuke Kato, Toshiro Mifune, Masayuki Mori, Machiko Kyo, Noriko Honma
Tratto dalla fusione dei due racconti di Ryunosuke Akutagawa Rashomon e Nel bosco, pubblicati nell'omonima raccolta Rashomon, narra la sconcertante vicenda di un misterioso delitto: un samurai viene trovato ucciso nel bosco, e la ricostruzione dei fatti effettuata attraverso interrogatori dei protagonisti porta a diverse versioni non solo contraddittorie ma anche inquietanti.
Ognuna infatti comprende sia indubitabili verità che elementi inspiegabili e inaccettabili.
Anche le versioni della vittima, che parla attraverso una veggente, e di un testimone estraneo ai fatti piuttosto che chiarire portano ulteriori elementi di confusione.
E' la prima opera con cui Kurosawa venne conosciuto all'estero, ed è impreziosita da una grande interpretazione di Toshiro Mifune nella parte del brigante Tajomaru.
Come spesso in altre occasioni Kurosawa, che non esitava ad attingere all'occidente per le sue trame, fu a sua volta fonte di ispirazione.
A Rashomon si ispirano nel 1960 Ingmar Bergman con La fontana della vergine, che definì una miserabile imitazione di Rashomon tuttavia riprende una leggenda svedese del XIV secolo, Töre's dotter i wänge.
E nel 1964 Martin Ritt in L'oltraggio, con Paul Newman, Lawrence Harvey, Claire Bloom ed Edward G. Robinson, che si spinge fino a riprendere non solo la sceneggiatura di Kurosawa ma anche le ambientazioni e gran parte delle scelte registiche.
La straordinaria tensione della vicenda tende a non lasciar notare la grande semplicità dell'impianto scenico. Solamente otto interpreti appaiono sullo schermo, e ognuno di loro fornisce una prova superba, su cui quella di Mifune spicca ma senza sovrastare le altre.
Fatta menzione del protagonista principale, è difficile stabilire tra gli altri delle priorità o attribuire maggiori o minori meritl, verranno quindi citati in ordine di apparizione.
Takashi Shimura (1905-1982)
Apparso per la prima volta sullo schermo nel 1936, fu l'interprete favorito di Akira Kurosawa, ricoprendo già un ruolo in Sugata Sanshiro (1943), sua opera prima.
A 74 anni, poco prima della morte, fu il generale Taguchi in Kagemusha nella sua ultima apparizione sullo schermo. Discendente di una famiglia samurai del clan Tosa, di lui Kurosawa diceva: "Era un leader, e la sua forza consisteva nel non sembrarlo".
Interpreta il ruolo di un boscaiolo che recandosi al lavoro scopre nella foresta il cadavere di un samurai, ucciso da una ferita di spada. Da lì inizia la vicenda, attraverso il racconto che il boscaiolo ed un altro testimone fanno ad una terza persona, che si è rifugiata per ripararsi dalla pioggia torrenziale all'interno delle rovine della porta Rashomon, dove li ha trovati immersi nei loro pensieri.
Minoru Chiaki (1917-1999)
La sua interpretazione più conosciuta è quella del samurai Heihachi (I sette samurai) ma apparve in totale in sette opere di Kurosawa.
In Rashomon interpreta la parte del monaco errante con cui il boscaiolo condividue i suoi dubbi sul delitto.
Turbato dalla constatazione che nessuna delle persone coinvolte nella vicenda può dirsi esente da vizi e colpe, viene tuttavia da lui al termine del film un invito all'ottimismo.
Kichijiro Ueda (1904-1972)
Appare, ma in ruoli di contorno, anche in altre
opere di Kurosawa (Il trono di sangue e La fortezza nascosta).
Qui è l'uomo che riparandosi dalla pioggia si imbatte per caso nel boscaiolo e nel monaco, e li convince a narrargli la vicenda.
Il suo cinismo e il suo scetticismo lo portano ad intuire un brandello di verità - sfuggito fino ad allora ad ogni indagine - ma anche a commettere atti spregevoli.
Daisuke Kato (1910-1975)
Presenza costante nei film di Kurosawa, ove appare qui per la prima volta, il suo ruolo più conosciuto è certamente, pochi anni dopo, quello dell'allegro lanciere Shichiroji (I sette samurai); appare anche in Yojimbo come lo sciocco fratello dell'antagonista Unosuke.
Fu tra gli attori più ricercati del cinema giapponese, nella sua carriera si contano oltre 170 film.
Qui riveste i panni di un poliziotto, che credendo di soccorrere la vittima di un incidente di viaggio si trova invece al cospetto del brigante Tajomaru, ridotto all'impotenza da un avvelenamento, e lo arresta.
Toshiro Mifune (1920-1997)
L'attore più noto del cinema giapponese, che appare quasi sempre come protagonista in circa 200 film, fu anche l'attore prediletto di Akira Kurosawa. Il sodalizio si ruppe al termine delle riprese di Akahige, nel 1965, per insanabili contrasti sorti durante la lavorazione.
Interpreta con animalesca ed incontrollata energia il brigante Tajomaru, capace di ogni nefandezza eppure stranamente trasparente - non possiamo dire certamente innocente - in ogni suo atteggiamento. Un ruolo che ricorda, ma con una luce sinistra, quello interpretato in chiave comica pochi anni dopo nei panni dello stravagante Kikuchiyo (I sette samurai)
Invaghitosi dopo una sola occhiata rubata sotto al velo della moglie di un samurai di passaggio, ammette anzi rivendica di avere ucciso lui in duello e violentato lei, che tuttavia, nonostante le apparenze, non era del tutto riluttante.
Masayuki Mori (1911-1973)
Aveva già lavorato agli ordini del maestro in Zoku Sugata Sanshiro e in Tora no ofumu otokotachi, nelle vesti dell'arrogante ufficiale di collegamento che intende arrestare il principe Yoshitsune.
Ora è il samurai vittima dell'assassinio. Evocato attraverso una veggente, il suo spirito espone una versione dei fatti che smentisce totalmente quella dei confessi assassini.
Machiko Kyo (1924)
Fu utilizzata, come anche Masayuki Mori, dal grande Kenji Mizoguchi, scomparso prematuramente.
Proprio assieme a Mori è protagonista dell'ultima opera di Mizoguchi, Ugetsu monogatari.
Appare nella parte di una donna esposta come un fuscello alla volontà prevaricatrice degli uomini, che dispongono di lei come un oggetto, eppure capace di ribellarsi e diventare la padrona della situazione, nel bene e nel male.
Noriko Honma (1910)
Più conosciuta come Furiko Honma, apparve per la prima volta in un film di Kurosawa con Cane randagio, continuando poi una proficua carriera durante la quale collaborò ancora col maestro: I sette samurai, Akahige, ed infine Sogni, nel 1990. La sua ultima interpretazione è del 2006.
E' qui una veggente, che il tribunale ha deciso di convocare per ascoltare, attraverso lei, la testimonianza del samurai assassinato.
Il tribunale
E' un importante protagonista di Rashomon, ma non lo vedremo mai.
In realtà non ascolteremo mai nemmeno la voce dei magistrati, per quanto la camera mostri i testimoni dal loro punto di vista, senza quasi mai modificare l'inquadratura (una delle tante innovazioni anticonformiste che Kurosawa adottò nell'opera).
Le loro domande vengono solamente intuite attraverso le risposte dell'imputato Tajomaru e dei cinque testimoni che si susseguono.
La vicenda è ambientata in una località imprecisata nei pressi di Kyoto, e si svolge durante l'epoca Heian (VIII-XII secolo).
Nel mezzo di un temporale che sembra non voler mai cessare, tra le rovine della porta Rashomon si sono rifugiati come detto tre uomini. Un boscaiolo ed un bonzo, testimoni del delitto ed ancora turbati da quanto hanno visto ed ascoltato, ed un uomo di passaggio che incuriosito li invita a narrare quanto successo.
Della porta Rajomon (questo il nome originario) nulla era rimasto e Kurosawa la fece ricostruire negli studi di posa, ma senza avere alcun elemento concreto cui ispirarsi.
Aveva dichiarato ailla casa di produzione, la Daiei, che gli sarebbero serviti solamente due set, quello ed il cortile del tribunale, mentre il resto delle riprese sarebbe stato effettuato nei boschi.
Ci si aspettava quindi un'opera girata in economia, considerato anche il ridotto numero degli attori, ma al termine del film i produttori constatarono sconsolati che la porta Rashomon era costata da sola quanto un centinaio di set normali.
Kurosawa si giustificava alcuni anni dopo, con una punta di ironia, dicendo di non aver avuto all'inizio intenzione di farne qualcosa di tanto monumentale.
E' il boscaiolo ad iniziare il racconto. Con la sua ascia in spalla, era in cammino in mezzo alla foresta.
Per la prima volta una macchina da presa si addentrava deliberatamente all'interno di un bosco, sfidandone le difficilissime condizioni di luce.
Kurosawa aveva già tentato l'esperimento nel corso di Tora no ofumu otokotachii, la sua terza opera (1945) e la prima di ambientazione jidai. Ora lo riprende e lo estende: le riprese non sono più da un punto fisso, le cinecamere si muovono, ricreando nella mente dello spettatore l'impressione di camminare o correre nel fitto di una foresta.
Altra innovazione tecnica, che va al di là di ogni schema di ripresa precedente, è l'inquadratura del sole che filtra tra i rami.
Nessuno prima di allora aveva ripreso il sole, si diceva addirittura, come racconta Kurosawa nel suo libro Something like an autobiography, che i raggi del sole fossero in grado di danneggiare la pellicole, le apparecchiature e perfino gli spettatori.
Concentrato nel suo lavoro, aveva perso in comunicativa, finché un giorno Takashi Shimura gli comunicò le preoccupazioni dell'operatore, Kazuo Miyagawa, che temeva di non essere riuscito ad effettuare le riprese come richiestogli.
Kurosawa, che dentro di sé esclamava spesso "Meraviglioso! e aveva in qualche modo la sensazione di averlo detto a tutti, finalmente esclamò enfaticamente: "Al cento per cento! Al cento per cento! Al cento per cento e più!".
Al Festival di Venezia, dove l'opera fu presentata vincendo il Leone d'oro, queste scene destarono sensazione.
Per le riprese nel bosco si girò prima nella foresta di Nara e poi in un bosco di montagna nelle vicinanze del tempio Komyogi,
Il taglialegna (Takashi Shimura), in cammino per andare ad abbattere dei cipressi, sembra avvertire qualcosa di inquietante nell'atmosfera del bosco.
Il sottofondo musicale curato da Fumio Hayasaka, ritmato da un tamburo, già insiste sul tema del Bolero, composto dal compositore francese Maurice Ravel nel 1928: una ossessionante cantilena in continuo crescendo.
Ad un tratto si imbatte in una serie di oggetti abbandonati per terra o impigliati tra i rami che destano la sua curiosità.
Tra gli altri un cappello da donna, e una corda tagliata, che ha l'aria di essere stata usata prima per legare qualcosa o qualcuno.
E' evidente che qualcosa di strano deve essere accaduto.
E continuando nelle sue ricerche, seguendo il filo degli oggetti sparsi qua e là, si imbatte infine in una orrenda visione.
Il corpo senza vita di un samurai, seminascosto tra le foglie, immobilizzato in una posa atroce nel momento della morte.
Riesce appena a notare che ha una ferita sul corpo, che ne ha evidentemente causato il decesso.
Il boscaiolo fugge a perdifiato.
Ci troviamo ora di fronte al giudice; non lo vedremo mai, né mai ascolteremo la sua voce, ma le sue domande vengono immediatamente intuite attraverso le risposte dei testimoni e dell'imputato.
Sappiamo che si tratta di un giudice monocratico e non di un collegio solamente dalla lettura del racconto originale di Akutagawa, che si apre con le parole "Racconto di un boscaiolo che risponde al giudice".
Ci troviamo non dentro un'aula, ma in un cortile assolutamente spoglio, chiuso da un alto muro.
La testimonianza del boscaiolo non può chiarire molto. Tutto quello che può dire è di avere trovato il cadavere per caso, in un posto solitario ad una certa distanza dalla strada.
Aveva una sola ferita, mortale, al cuore e nei suoi dintorni non c'era alcun oggetto, tranne una corda ed un pettine femminile.
Nemmeno il bonzo (Minoru Chiaki) può dire molto. Durante il suo percorso senza meta aveva incrociato lungo la strada un samurai, armato della spada e di un arco, con venti frecce.
Era quindi anche lui un viandante, diretto chissà dove.
Conduceva per la briglia un cavallo su cui era una donna completamente velata, di cui quindi era impossibile scorgere le fattezze, nemmeno comprendere l'età.
Il monaco è scosso dalla caducità dell'essere umano.
Quel samurai così orgoglioso e fiero d'aspetto, poco dopo era nulla più che una misera spoglia.
Sappiamo, sempre dal testo di Akutagawa, che si sarebbe trattato di un giovane samurai della provincia di Wakasa: Takehiro Kanazawa.
Sua moglie, era lei la donna sul cavallo, si chiamava Masako ed aveva solamente 19 anni.
La successiva testimonianza conduce ad una drammatica svolta nelle indagini.
Un informatore di polizia (Daisuke kato), visibilmente compiaciuto, conduce con sé un uomo saldamente legato.
Come in tutti paesi del mondo l'informatore è solo un piccolo delinquente implicato in lievi reati, rilasciato a condizione di collaborare e tenere informate le autorità di quanto succede nel sottobosco della criminalità.
L'uomo legato è invece un famigerato e fino ad allora inafferrabile brigante: Tajomaru (Toshiro Mifune).
Kurosawa ce lo presenta assorto ad osservare le nuvole, completamente dimentico della situazione in cui si trova: destinato ad una inevitabile condanna a morte per decine di gravi reati.
Mifune dé per la prima volta in questo film (un accenno era in L'angelo ubriaco) piena dimostrazione della sua recitazione provocatoria, in cui alterna momenti di assenza dal mondo ad esplosioni di improvvise reazioni, violente ed incontrollate, a fatti di scarsa rilevanza.
I suoi sentimenti non vengono manifestati solamente dalle espressioni del volto o dalle tonalità della voce.
E' con tutto il corpo, attraverso movimenti improvvisi e rabbiosi o minimalistici gesti abitudinari, potremmo dire con tutta la sua personalità, che Mifune contribuisce a rendere manifesto ogni stato d'animo dei personaggi che interpreta.
Quando Tajomaru ha uno scatto d'ira è per contestare la deposizione dell'informatore.
Non è per negare di essere un malvivente: ma per sfuggire all'onta di essersi lasciato catturare da un imbelle.
Uno strano avvelenamento, aveva bevuto avidamente da una sorgente, lo aveva fatto cadere preda di un malore.
Solamente per questa ragione era caduto da cavallo, sul bordo del fiume, e non aveva potuto opporre resistenza quando l'informatore l'aveva legato ed arrestato.
Aveva ancora con sé le stesse frecce che il bonzo ha testimonato di avere visto nella faretra del samurai ucciso, ed anche il cavallo che era con lui sembra lo stesso su cui viaggiava la donna sconosciuta.
E' evidente che abbia avuto in qualche modo a che fare col delitto, è il primo indiziato per l'assassinio.
Tajomaru dichiara sprezzantemente di essere a conoscenza del suo destino: di lì a poco sarà sicuramente impiccato, non ha quindi alcun interesse a mentire per alleviare la sua posizione in quell'ultimo irrilevante delitto.
Ma vuole almeno dire la sua. E la dirà.
Il brigante stava oziando ai piedi di un grande albero, nei pressi del sentiero.
Kurosawa ce lo presenta con un aspetto picaresco, vestito di pochi cenci che non celano il corpo, muscoloso e minaccioso.
Nel racconto di Akutagawa si diceva invece che era vestito di un kimono blu (viene ripetuto anche nel film, dalla moglie del samurai: evidentemente una piccola svista in un'opera altrimenti praticamente perfetta).
Tajomaru è la versione drammatica di quello che sarà poi, il buffo Kikuchiyo (I sette samurai); il loro aspetto esteriore è praticamente identico, fatta eccezione per l'arma: Kikuchiyo avrà con sé un gigantesco nodachi (spadone a due mani). Gli straccioni si assomigliano tutti, anche a distanza di secoli.
L'arma di Tajomaru è invece uno tsurugi, una spada a doppio taglio con lama diritta, utilizzata arcaicamente prima dell'avvento del nihonto, la lama giapponese lunga e arcuata, col tagliente nella parte convessa.
Tajomaru si ridesta all'improvviso dal suo torpore.
Ha sicuramente sentito qualcuno avvicinarsi lungo il sentiero, e quando riapre gli occhi vede qualcosa che non dimenticherà mai.
Il samurai appiedato che conduce il cavallo per le briglie riveste per lui solamente un interesse professionale.
E' riccamente vestito e le sue armi sono di indubbio valore: potrebbe essere una ricca preda, per quanto difficile: è un uomo non solo armato, ma anche addestrato alle armi.
E' dopo che Tajomaru viene colpito, quando meno se lo sarebbe aspettato.
La donna che si trova sul cavallo è completamente nascosta agli sguardi, come d'uso all'epoca per le donne del suo lignaggio si nasconde agli estranei sotto un largo cappello da cui pendono dei veli.
Ma un colpo di vento allontana per un attimo i veli.
In quell'attimo, anche se riesce più ad intuirne il volto che a scorgerlo realmente, Tajomaru sa che non avrà più pace finché non avrà avuto quella donna.
E' la moglie del samurai, come si intuisce dalle sopracciglia rasate che indicano il suo stato di donna sposata.
Affascinato Tajomaru continua a seguire con lo sguardo la coppia che si allontana lungo il sentiero.
Li seguirà, e cercherà in tutti i modi di raggiungere il suo scopo: depredarli, ma soprattutto avere la donna.
In una sequenza durata lo spazio di pochi secondi Kurosawa è riuscito a trasmettere una incredibile quantità di messaggi, e ad alzare la tensione emotiva a livelli quasi insopportabili.
Questa fase della vicenda è leggibile nei volti dei protagonisti, e bisogna rendere merito ai magnifici attori che si sono prestati ad essere gli strumenti del maestro.
La voce narrante, in questo caso quella stessa del brigante Tajomaru, potrebbe anche essere soppressa: ogni spettatore sarebbe ugualmente in grado di comprendere.
Non solo quello che sta succedendo ma anche quello che succederà, non solo quali saranno le azioni di ogni singolo protagonista, ma perfino quelli che saranno i loro pensieri, desideri, timori, dubbi.
Tajomaru segue a lungo la coppia. Giunti al luogo che ha in mente, esce d'improvviso davanti a loro, sbucando dal bosco.
Il suo aspetto è selvaggio, i suoi modi provocatori e con una punta di follia.
Anche questi modi comportamentali sono un'anticipazione di quelli che Mifune adotterà poi nel ruolo di Kikuchiyo e dopo ancora in quello del giovane Miyamoto Musashi nella trilogia dedicata al grande samurai da Hiroshi Hinagaki.
E' strano pensare che si adattino perfettamente ad un brigante incallito, ad un grezzo fanfarone dal cuore tenero, ed infine ad un invincibile guerriero ancora alla ricerca di sé stesso.
Quando Tajomaru estrae la spada il samurai è già sull'avviso.
Ma una risata derisoria lo accoglie: proprio questa spada sarà lo strumento del tranello ordito dal brigante.
La mostra con orgoglio, la offre per un esame. Quella spada, di antica fattura, proviene da un tumulo che ha scoperto, là nella foresta. Ne ha trovate altre, assieme a degli specchi, ed è pronto a venderle a buon prezzo.
La spada e lo specchio - assieme ad un magico gioiello - sono come sapranno molti i simboli divini del Giappone. Quelli appartenuti secondo la leggenda alla dea Amaterasu, come narrato nel Kojiki, fanno parte del tesoro imperiale e lla loro visione è riservata alla famgilia regnante.
Quindi tutto indicherebbe che quei tumuli contenevano i tesori di una famgilia di nobili.
Il samurai (Masayuki Mori) non riesce a resistere alla tentazione, forse nemmeno tenta.
Seguirà Tajomaru nel bosco, là dove si troverebbe il tesoro sotterrato. La sua donna attenderà là, il cavallo non può avventurarsi nel fitto della boscaglia.
Là giunti cade facilmente nel tranello. Tajomaru l'assale alle spalle quando si deconcentra credendo di essere arrivato sul luogo del tesoro, riesce a sopraffarlo e lo immobilizza con una corda.
Quella stessa corda, tagliata di netto, che il boscaiolo avrebbe ritrovato poi.
Kurosawa non precisa lo stacco temporale che passa tra i fatti ed il processo, Akutagawa nel suo raccontro era invece stato esplicito: tutto si sussegue in uno spazio di tempo molto breve.
Il giorno dopo l'assassinio Tajomaru già si trova davanti al giudice, e questa volta sarà lui ad essere saldamente legato.
La donna è rimasta sola in mezzo ad una radura, accanto al suo cavallo, ancora ammantata e celata dai veli.
Tajomaru ha già immobilizzato il samurai, sta già correndo a perdifiato nella foresta per poi gettarsi su di lei.
La sequenza è analoga a quella iniziale del boscaiolo che fugge dall'orrore della morte.
Due sequenze simili per illustrare due situazioni opposte.
Una fuga, ed una corsa affannosa verso un obiettivo ferocemente voluto.
Il tentativo di dimenticare, o perlomeno di allontanare da sé, e l'attesa frenetica di un momento di voluttà.
Al termine della folle corsa, Tajomaru non è ancora pronto a cogliere il frutto della sua attesa, del suo complotto, della sua lotta.
Si attarda ancora celato dietro ai cespugli a guardare la donna, non visto.
Per la prima volta vediamo in volto Masako (Machiko Kyo): è giovanissima, terrorizzata.
Ma l'apparente fragilità della donna cela una grande forza di volontà
Tajomaru è comparso all'improvviso, dicendole che il marito è stato morso da un serpe velenosa, occorre andarlo a soccorrere.
La donna, nei ricordi del bandito, appariva come una statua di ghiaccio, pallida per l'angoscia.
Tajomaru era stato colto da una folle invidia, da una assurda gelosia, e l'aveva trascinata di corsa fino al luogo dove aveva lasciato saldamente legato il samurai.
Qui, di fronte a lui, dove ha voluto andare in segno di spregio, diventano finalmente manifeste le sue intenzioni
Masako estrae il kwaiken, il pugnale che ogni donna samurai porta con sé, celato nelle vesti, e si difende strenuamente.
Tajomaru inizialmente è in difficoltà: la donna sa maneggiare l'arma, lo ferisce.
Questo paradossalmente non ha altro effetto che aumentare la sua determinazione ed il suo desiderio.
La lotta non è solo fisica, è soprattutto psicologica, e alla lunga non può che avere un esito scontato.
Dapprima le parti imprevedibilmente si capovolgono: è Masako che dà la caccia al bandito, tentando di ucciderlo.
Ma Tajomaru si sottrae facilmente agli attacchi rinunciando all'assalto frontale.
Logorerà la sua vittima sia fisicamente che mentalmente, lasciandole comprendere che nulla e nessuno potrà sottrarla al suo detino, che ogni resistenza è inutile.
Giocando in definitiva con lei come il gatto col topo.
Durante i suoi disperati assalti Masako piange ininterrrottamente.
Alla fine dovrà desistere, spossata, senza più alcuna energia, capacità o volontà di resistere, lasciandosi cadere al suolo.
Tajomaru è su di lei.
La macchina da presa inquadra ancora una volta il disco solare, che appare tra il fogliame.
Masako ha un ultimo disperato guizzo di resistenza.
Non ha abbandonato il pugnale, ha continuato a tenerlo spasmodicamente stretto nella mano.
Ora lo alza, sta per vibrare un colpo mortale. Ma la mano di Tajomaru le afferra il polso, lo blocca, lo stringe con forza.
Lentamente, il pugnale scivola dalla mano e cade al suolo.
La mano di Masako, oramai priva di ogni arma, simbolo della sua mente oramai incapace di opporsi alla violenza, avvinghia la schiena di Tajomaru.
Tutto si è compiuto.
Il bandito sta per andarsene, soddisfatto di sé, dopo aver portato a termine con pieno successo tutto quello che si era prefisso.
Masako si aggrappa ancora a lui: non può andar via così, lasciandola nel disonore.
La sua richiesta è terribile, ma terribilmente logica, e non è nemmeno lei ad avanzare la richiesta, ma il destino.
Uno dei due uomini deve morire.
Morirà il bandito, unico testimone oltre che autore dell'oltraggio, o morirà il samurai.
Masako seguirà allora le sorti del bandito, diventando la sua donna.
Tajomaru esita a lungo.
Il samurai, impotente, legato, si limita ad osservare, impenetrabile. Anche lui sembra tramutato in una statua di ghiaccio.
Dopo una lunga esitazine, Tajomaru gli si avvicina, estraendo lo tsurugi.
Senza dire nulla, taglia i legami e rende al samurai il suo lungo tachi.
Lo scontro è violento, inzialmente senza alcuna tattica, senza alcun tentativo di dilazionarne l'esito, senza riguardo per la propria vita.
I due uomini vogliono ferocemente uccidersi l'un l'altro, ed in questo momento è una loro faccenda che nulla ha più a che fare con la donna.
E' solo la volontà selvaggia di due animali che lottano per la supremazia.
Gradualmente la personalità selvaggia ed imprevedibile di Tajomaru, come già successo nei confronti della donna, prevale sulla fredda tecnica e sulla dissennata rabbia del samura.
Entrando in un insanabile conflitto interno, renderà sé stesso una facile preda.
Al termine della cruenta lotta, Tajomaru infine lo abbatte, là dove poi lo troverà il boscaiolo.
La rappresentazione del duello appare realistica alla stragrande maggioranza degli spettatori, ma glli esperti di spada la troveranno poco verosimile.
Agli effetti artistici non ha eccessiva importanza, sulla scena è sufficiente apparire realistici allo spettatore medio, e già questa scena è molto più attendibile di quelle visibili nelle opere coeve. Inoltre va ricordato che l'azione si svolge intorno al XIII secolo, almeno 300 anni prima delle scuole di spada che si sono tramandate fino ad oggi.
Non poteva però ugualmente essere del tutto soddisfatto Akira Kuroswawa. Sappiamo dalla sua biografia che era stato un appassionato praticante di kendo, arte che lo stesso Mifune ha continuato a praticare per tutta la vita.
Nella sua successiva opera jidai, I sette samurai, Kurosawa chiese al Ministero della Pubblica istruzione che gli fossero indicati dei consulenti in grado di guidare sceneggiatori ed attori nelle scene di combattimento. Vennero designati come tateshi i maestri Yunzo Sasamori (Hana ha Itto ryu) e Yoshio Sugino (Katori Shinto ryu ed Aikido). Questultimo continuò poi per molti anni la collaborazione con Kurosawa.
Concludendo il suo racconto Tajomaru rivendica con orgoglio l'epicità del combattimento.
Solo dopo 23 assalti è riuscito ad avere ragione del suo avversario: non aveva mai rovato alcuno in vita sua che riuscisse ad opporgli tanta ostinata resistenza.
Quanto alla donna, poco gliene importa.
Terminato il duello, si era improvvisamente reso conto che lei non era più là. Era come scomparsa nel nulla.
Ma quell'insano e folle desiderio che lo aveva portato al delitto, così improvvisamente come era venuto, improvvisamente era scomparso.
Scomparso nel nulla come era scomparsa la donna.
Qualcosa non torna al giudice: sulla scena del delitto non è stato ritrovato il pugnale. Tajomaru ne sa qualcosa?
No. Solo in quel momento se ne ricorda. La spada l'ha prontamente venduta, ricavandone una bella cifra.
Del pugnale se ne era completamente dimenticato, lasciandolo sul posto. Eppure doveva essere anche quello un oggetto di grande valore.
Tajomaru è molto divertito di questa sua inspiegabile dimenticanza, ma non può risolvere il mistero della sparizione.
Continua a piovere ininterrottamente sulle rovine della porta Rashomon. Il racconto dei due testimoni sembra ormai terminato.
Il loro occasionale compagno è già pronto a trarre una cinica morale dalla vicenda, ma viene avvisato dagli altri due di attendere.
La storia non è ancora conclusa.
Anzi: non solo è appena agli inizi, ma la parte più complicata deve ancora arrivare
L'inquadratura successiva ancora una volta è ripresa da dove idealmente si trova il giudice incaricato di indagare ed emettere la sentenza. Non cambierà mai nel corso del film, se non per mostrare occasionali primi piani dei protagonisti, nei momenti topici.
Masako è stata rintracciata e condotta in tribunale.
Sappiamo dal racconto di Akutagawa che è stata ritrovata dentro al convento dove si era rifugiata.
E' in evidente stato di prostrazione, ma accetta di fare la sua testimonianza e di rispondere alle domande.
La prima parte del suo racconto, scandito ancora dal tema del Bolero, coincide con quello di Tajomaru, ma la donna comprensibilmente sorvola su ogni particolare. Comunque sia veramente andata, non può essere facile per lei ritornare su quell'episodio.
Dopo avere compiuto tutto quello che aveva in mente, il bandito abbandona le sue vittime senza nemmeno più degnarle di uno sguardo.
La donna giace in lagrime ai bordi del sentiero. L'uomo, ancora legato, è apparentemente impassibile.
Ma a testa bassa.
La donna gli si avvicina. Cerca conforto.
Ma trova come risposta solo un muto sguardo, pieno di rancore e di disprezzo.
Il samurai considera sua moglie responsabile o perlomeno partecipe di quanto accaduto.
La condanna senza appello.
A lungo Masako ne chiede la ragione, a lungo implora.
Poi, a lungo, minaccia.
Ha raccolto da terra il suo pugnale con l'intenzione di liberare il marito dalla fune.
Ma si ferma, dapprima esita, poi intima all'uomo di non guardarla più in quel modo.
Lui, impassibile, non muta minimamente espressione, mentre lei sempre più lentamente si avvicina.
Con il pugnale nella mano.
Da quel punto Masako dichiara di non ricordare più nulla.
E' svenuta, e quando è rinvenuta si deve essere allontanata, fino a ritrovarsi senza sapere come sulle rive di un piccolo lago tranquillo.
E' rimasta a lungo a contemplare le acque, irresistibilmente attratta. Sembravano l'unica soluzione possibile alla sua tragedia.
Ma non ha trovato il coraggio di porre fine ai suoi giorni.
Ed ora è lei a fare domande, a chiedere: cosa deve fare, cosa può fare, una donna in situazioni del genere?
E' solo un oggetto di desiderio e di preda, senza che alcuno mostri la minima pietà, la minima comprensione, senza che nessuno la difenda.
Piove ancora incessantemente alla porta di Rashomon. I tre uomini non potrebbero in ogni caso uscirne, ma non ci pensano affatto.
Sono legati al racconto come se delle catene li tenessero saldamente.
Lo sconosciuto viandante (molti dei personaggi di Kurosawa non hanno nome) ha già fatto ricorso ad una delle sue sbrigative e conformistiche morali: non si può credere alle donne, sono capaci di ingannare perfino sé stesse, e di far credere agli uomini qualunque cosa.
Il boscaiolo, in qualche modo conferma. La verità non è quella. Ma si rifiuta di dire nulla di più.
Il monaco acconsente, pensieroso: oltretutto la ricostruzione della donna non è compatibile con quella del morto.
Lo sconosciuto trasecola: la versione del morto? Come è possibile che il morto abbia parlato?
Il giudice ha convocato una veggente (Noriko Honma), per ascoltare attraverso di lei il racconto della vittima.
Il cortile giaceva fino ad allora in una calma morbosa, senza che nulla si muovesse oltre ai gesti del personaggio chiamato di volta in volta davanti allo scranno del tribunale.
Sia il boscaiolo che il monaco sullo sfondo rimangono inorriditi ma affascinati ad ascoltare, senza muoversi mai dalla loro posizione defilata.
Al termine di lunghi preparativi, finalizzati a provocare lo stato di trance, lo spirito del defunto si impossessa del corpo della veggente.
Inizia a parlare.
Con una agghiacciante voce che proviene dall'oltretomba.
Anche la versione di Takehiro inizialmente concorda con le altre.
E' solo quando il racconto sta per terminare che emergono le differenze: enormi. Incompatibili le lune con le altre.
Allo stesso tempo autolesionistiche ed orgogliose.
Masako dopo la violenza chiede a Tajomaru di portarla via con se.
Ma prima... Prima deve fare qualcosa.
Il samurai li vede parlare a lungo.
Non può ascoltare quello che si dicono, ma già è allarmato, inquieto
Ancora una volta, l'ultima nella sua vita, osserva attentamente il volto di quella che fu la sua moglie.
E la sua ombra ricorda di non averla mai trovata così bella come in quel momento.
Nel ripetere incessantemente la sua richiesta la donna si avvinghia a Tajomaru.
Si rifugia letterlamente dietro di lui, se ne fa schermo.
Come, nel racconto di Tajomaru, gli si era improvvisamente avvinghiata durante la violenza divenuta amplesso, nel momento in cui maggiormente desiderava ucciderlo.
Ora, dice a Tajomaru, deve uccidere Takehiro.
Solo così lei potrà essere libera.
Libera da un rapporto che già da tempo le pesava, libera dall'infamia di avere abbandonato il legittimo consorte per seguire un brigante.
Prima che lei possa seguire Tajomaru, l'unico testimone di quanto è successo deve morire.
La reazione del bandito è per lei assolutamente imprevedibile.
Se la scrolla di dosso, la getta per terra e le pone un piede sopra, come ad un preda abbattuta.
E senza più nemmeno rivolgerle la parola chiede direttamente al samurai cosa farne, se "devono" ucciderla immediatamente o lasciarla vivere.
Solamente per queste sue parole, commenta lo spirito di Takehiro con la sua voce cavernosa, in cui appare tuttavia un rimpianto di umanità, posso perdonare al brigante.
Mentre i due discutevano la donna è fuggita a perdifiato. Tajomaru l'ha a lungo inseguita, ma invano: è scomparsa nella foresta.
Takehiro è rimasto ancora a lungo immobilizzato, legato alla fune e a i suoi pensieri. Tajomaru quando torna a mani vuote lo fissa a lungo.
I prolungati primi piani, apparentemente simili, mostrano sentimenti opposti dei personaggi, soprattutto nelle differenti ricostruzioni ma perfino nei diferenti momenti di ognuna di esse: rabbia, orgoglio, tristezza...
Tajomaru taglia con la spada i legami del suo prigioniero, e si allontana.
Restato finalmente solo, Takehiro rimane per lunghissimo tempo immobile, senza nemmeno muoversi dalla posizione in cui l'aveva immobilizzato il brigante.
Sente qualcuno che piange, e solo lentamente, incredulo, capisce che quel pianto è il suo.
Ora Takehiro ritorna in piedi. Alza gli occhi al cielo.
Vede per l'ultima volta il cielo, e la luce del sole.
Ha raccolto il pugnale. Con quello pone fine ai suoi giorni.
E' terminato il racconto.
La veggente, spossata, si accascia al suolo, come poco prima si era accasciata al termine della sua sofferta deposizione anche Masako.
Ma si rialza: lo spirito di Takehiro ha ancora qualcosa da aggiungere.
Nell'agonia, mentre scendeva un grande silenzio e le ombre si allungavano, qualcuno, non si sa chi, si è avvicinato con passo leggero e ha sfilato il pugnale dal suo petto sanguinante, per poi allontanarsi con quello.
Siamo ancora alla porta di Rashomon. Ed ancora piove: sembra non debba smettere mai.
Il boscaiolo è inquieto: ha chiaramente qualcosa da dire, ma non trova il coraggio.
Infine, non riesce più a trattenersi: nemmeno il racconto della vittima può essere creduto: il cadavere aveva una ferita da spada, non da pugnale.
Lo sconosciuto gli si avvicina, insinuante, insistente. Ha intuito che c'è ancora qualcosa, che il boscaiolo nasconde un segreto.
Ebbene: il boscaiolo confessa.
Ha assistito, non visto, a tutta la sequenza dei fatti. Ha taciuto perché non voleva essere coinvolto, sia con la polizia che con il giudice.
Ma ora acconsente a rivelare ai due occasionali compagni quello che ha visto. E' un segreto troppo pesante per continuare a tenerlo dentro.
Attratto da un pianto di donna che sentiva provenire da poco vicino, il boscaiolo si era avvicinato con cautela, mantenendosi non visto al riparo della boscaglia, e aveva potuto osservare tutto quanto.
Tajomaru, in ginocchio, stava chiedendo perdono alla donna, che singhiozzava sdraiata al suolo.
La stava rassicurando che le sue intenzioni erano serie, le chiedeva di diventare la sua sposa.
Sullo sfondo, l'orgoglioso samurai legato e ridotto all'impotenza.
Tajomaru è disposto a qualunque cosa pur di averla: rinunciare al brigantaggio, ha ormai messo da parte abbastanza per garantire il benessere a sé e a chi gli è vicino, perfino lavorare se necessario.
Ma ogni sua insistenza è vana: la donna continua a piangere ininterrottamente, senza alcun cenno di risposta e nemmeno di reazione.
Infine Masako ha un sussulto di orgoglio, si drizza sul busto e finalmente risponde: cosa mai può contare lei, misera donna sballottata qua e là dal volere e dalla forza bruta degli uomini?
Si getta addosso al marito, e prima che Tajomaru se ne renda conto, col pugnale lo libera dalle corde.
E' evidente che il suo volere è che siano loro, gli uomini, a decidere.
Ma Takehiro non è d'accordo: non intende rischiare la vita per una donna che per lui non rappresenta più niente.
Una donna disonorata, che farebbe meglio ad uccidersi! E' peggio pedere un cavallo che una donna come lei.
Trascorrono lunghi, interminabili attimi prima che qualcuno parli di nuovo.
Tajomaru volge le spalle, sembra volersene andare, e Masako gli grida di aspettare.
Tajomaru la scaccia. Non la vuole più nessuno, come sarcasticamente fa osservare Takehiro.
Una osservazione apparentemente benevola di Tajomaru, che invita l'altro a non maltrattare la donna, le donne sono come dei bambini, ha il potere di far ribellare Masako.
Il suo pianto isterico si tramuta in una risata altrettanto isterica, interminabile.
Sono loro i bambini: non sono dei veri uomini. Un marito che rifiuta di vendicare l'onore oltraggiato della moglie. Ed il famoso bandito Tajomaru, terrore dei luoghi, è in realtà un imbelle incapace.
Avrebbe fatto qualunque cosa per un vero uomo, ma si accorge di avere a che fare con degli inetti.
Le parti si sono imprevedibilmente quanto improvvisamente rovesciate: è ora Masako a dominare la situazione. Afferra per la gola Tajomaru, lo strattona, gli sputa sul volto in segno di disprezzo.
Mentre continuano alternandosi alle crisi di pianto le allucinate risate di Masako, i due uomini sguainano le spade e decidono d affrontarsi pur di sottrarsi a quella vergognosa situazione.
Il loro duello è una tragica parodia. Sono entrambi in preda al terrore della morte, solo il caso e non il merito od il valore può decidere il vincitore.
Cadutagli al suolo la spada, Tajomaru sembra in balia dell'avversario, e si dibatte come un animale selvaggio per sfuggire al colpo fatale, che non arriva: Takehiro non è più lucido né più coraggioso.
Infine, la spada di Takehiro si pianta sul troncone di un albero, senza che lui riesca a recuperarla. E' ora il samurai ad essere in balia dell'avversario, che nel frattempo ha recuperato la sua arma.
E' incapace perfino di fuggire.
Continua a guardare ammaiato la lama che gli toglie la vita.
Riesce solo a chiedere invano di non essere ucciso: non vuole morire.
A questo punto Tajomaru torna dalla donna, ma piuttosto si trascina perché è uscito annientato dalla animalesca contesa, e tenta di condurla con sé.
Ma lei gli sfugge.
Tajomaru allora svelle dal tronco la spada di Takehiro, e tenta con quella di ucciderla: di uccidere quella stessa donna per cui pochi minuti prima si dichiarava disposto a tutto.
La donna riesce a sfuggirgli, correndo a perdifiato fino a riuscire ad imboccare il sentiero, lungo il quale sparisce.
Anche Tajomaru, incerto sulle gambe, ancora in preda ad un terrore inspiegabile, abbandona il luogo del delitto.
Il cadavere di Takehiro rimane abbandonato là dove la spada di Tajomaru gli ha tolto la vita.
E' terminato anche il racconto del boscaiolo. Sembra che non ci sia, non ci possa essere, nullaltro da sapere.
Ma ancora non riescono a liberarsi da quella storia. Il terzo uomo non crede che tutta la verità sia ancora uscita fuori. Il suo pessimismo nei confronti della natura umana non glielo consente.
Sappiamo da Akutagawa che il terzo uomo è un servo, reso amaro dagli eventi:
L'autore poco fa ha scritto «un servo aspettava che la pioggia cessasse», ma il servo non aveva un'idea precisa di cosa fare dopo che la pioggia fosse cessata. In una situazione normale certamente sarebbe tornato nella casa del padrone. Ma dal suo padrone era stato mandato via quattro o cinque giorni prima. In quell'epoca, dunque, la città di Kyoto era caduta molto in basso. Adesso questo servo, che aveva lavorato per lungo tempo presso il suo padrone, in verità era stato licenziato anche per colpa di questa decadenza generale.
Il monaco si rifiuta di adeguarsi a questa filosofia realistica quanto cinica: vuole continuare a credere negli esseri umani.
La discussione continua tra il servo ed il boscaiolo. Il cinismo del primo lo porta a pensare sempre male, ed il più delle volte ad indovinare.
Cosa ne è stato del prezioso pugnale di Masako? Il boscaiolo non può che confessare: sì, è stato lui a rubarlo.
Nemmeno lui ha detto la verità fino in fondo. Ogni essere umano quando vede messo in gioco il suo tornaconto è pronto ad ingannare anche se stesso.
L'alterco si interrompe quasi subito, un fatto nuovo attira l'attenzione dei tre.
All'interno dell'immenso androne di Rashomon si ode distintamente il pianto di un bambino.
Iniziano le ricerche, finché in una stanza scoprono un bimbo abbandonato dentro una culla, corredata di lussuosi panni.
Il servo è il primo a trovarlo e ad accorrere. Ma non è per portare soccorso.
E' solo per impossessarsi dei panni e fuggire col suo bottino.
I suoi occasionali compagni sono inorriditi, ma lui ribatte colpo su colpo: chi ha il diritto di rimproverarlo? Chi è esente da ogni colpa?
Forse i genitori di quel bambino, che hanno pensato solamente al loro piacere e poi l'hanno abbandonato?
Raccolto quello che voleva, affronta la pioggia battente per allontanarsi.
Il cielo stesso sembra voler infierire su lui e sugli uomini.
Partito il servo, sembra che gli elementi riescano finalmente a placarsi: la pioggia cessa.
Il monaco stringe ancora spasmodicamente tra le braccia il bimbo in fasce.
Il boscaiolo accenna a prenderglielo: il monaco arretra, inorridito.
Quale altra nefandezza gli toccherà di vedere?
No: il boscaiolo bonariamente gli dice che ha già sei figli. Non sarà un grande problema in più allevarne un settimo.
Vuole adottare il trovatello, e già lo prende amorevolmente tra le braccia.
Il monaco lo ringrazia: per merito suo è riuscito a non perdere la sua fiducia nel genere umano.
Guarda allontanarsi il boscaiolo, che forse già dimentico, con la semplicità delle persone umili, della cattiveria umana che ha visto in prima persona, sta pensando solo a come dare amore al nuovo piccolo arrivato.
Alle spalle del monaco le rovine della porta Rashomon si stagliano contro il cielo, dal lato ove sta tornando il sereno, e sembrano indicare un cammino.
Spesso le opere di Kurosawa terminano con la visione di una finestra, di una porta, di un nuovo cammino.
Talvolta verso il male, e dobbiamo accettare anche queste opere, forse addirittura più importanti delle altre seppure più sofferte, talvolta verso il bene.