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Il cinema giapponese: il genere jidai

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L’avvento dei dischi video dvd e più recentemente dei blue ray ha eliminato i problemi tecnici del vecchio sistema vhs, che ne aveva fortemente limitato l’utilizzo intensivo da parte delle case di produzione e distribuzione. Il nastro magnetico era inadatto a realizzare grandi quantità di copie in tempi brevi e il degrado delle prestazioni rispetto agli originali impressionante. I dischi invece vengono prodotto con stampaggio laser, abbattendo i costi di produzione e permettendo sia le grandi tirature che quelle limitate per amatori.

Di conseguenza arrivano sul mercato titoli che erano rimasti per decenni inediti, e per il cultore della cultura giapponese si è aperto da alcuni anni un nuovo canale di accesso. Naturalmente sono arrivati per primi i titoli e gli autori più famosi, ma già fin d’ora sono reperibili anche numerose opere “minori” o di autori meno celebrati, e anche se rimangono inspiegabili diverse lacune quello dei film giapponesi è un nuovo portale di ingresso alla cultura giapponese sia tradizionale che moderna, che si può consigliare senza controindicazioni e che sicuramente ha ancora molto da dare.

Ovviamente la precedenza va data alle opere del genere conosciuto in Giappone come chambara nel caso si tratti di film d'azione o jidai geki che trattano della lunga epopea del dominio samurai ma puntando sull'approfondimento più che sull'azione. In termini pratici il cinema jidai copre un periodo di circa 900 anni che va dall’XI al XIX secolo, ma con una forte concentrazione nel cosidetto periodo di Edo, ossia il quello dal XVII al XIX secolo in cui gli shogun Tokugawa, dopo la conquista del potere, trasportarono la capitale da Kyoto ad Edo e il suo picco nell'epoca Meiji (1868-1911) in cui si innescarono i processi che portarono al Giappone moderno.

Storicamente dobbiamo distinguere due ulteriori fasi all’interno del periodo Edo. La lunga e sanguinosa guerra per la conquista dello shogunato, che inizia in realtà circa 50 anni prima del periodo Edo vero e proprio, che convenzionalmente si data dal 1603. Questa fase vide protagonisti dapprima personaggi come Takeda Shingen e Uesugi Kenshin, destinati a sfiancarsi l'un l'altro, e poi i tre grandi pretendenti che arrivarono l'uno dopo l'altro al potere assoluto: in ordine cronologico Oda Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi e Yeyasu Tokugawa che dopo la grande battaglia di Sekigahara (1600) assunse il titolo di shogun iniziando una nuova dinastia e quella epoca durata  circa 250 anni definita "pax Tokugawa", semplicemente "Tokugawa" o "Edo", un periodo che seppur privo di guerre vere e proprie rimase torbido e denso di mutamenti e rivolgimenti.

L'epoca Meiji che abbiamo menzionato insanguinò il Giappone durante un altro breve quanto intenso periodo di guerre civili, quelle tra i seguaci dello shogun e quelli dell’imperatore prima, e dal 1868, data che segna il termine dell’era Tokugawa e l'inizio con la restaurazione del potere imperiale dell'era Meiji , quelle tra progressisti e conservatori, concentrati nei feudi del sud e soprattutto in Satsuma.

Queste sono le ambientazioni predilette dagli artisti giapponesi, che ricostruiscano grandi avvenimenti storici o rappresentino le vicende personali di oscuri personaggi, tentando quasi sempre anche se con alterna fortuna una lettura simbolica degli avvenimenti che aiuti a trarne una morale trascendente, anche nelle opere più attente ai gusti del pubblico o più dichiaratamente commerciali. Permane un certo gusto giapponese nel lasciare un poco in ombra, tra le righe, il “messaggio”, nel richiedere al fruitore una certa attenzione nel trovarlo e decifrarlo mediante l'ausilio di "segnali" convenzionali di cui i grandi artisti fanno uso oculato e misurato mentre i mestieranti vi attingono a piene mani.

Sarà bene fare alcuni esempi. In Joiuchi (Samurai rebellion), diretto da Masaki Kobayashi e interpretato da Toshiro Mifune - che ne curò anche la produzione - e Tatsuya Nakadai il finale rimane apparentemente ambiguo: l’estremo tentativo del protagonista di rivendicare il proprio onore e le proprie ragioni di fronte alle autorità sembra tragicamente fallito, quando una giovane balia fino allora sballottata qua e là da eventi troppo grandi per lei raccoglie da terra l’innocente bambina unica superstite della famiglia Sasahara e si dirige su un sentiero di montagna; sta tornando al suo villaggio, per sfuggire ad altre rappresaglie dei potenti, o sta riprendendo il sentiero che porta ad Edo, per denunciare allo Shogun l’ingiustizia di cui è stata testimone? Sono ricorso al maestro Hideki Hosokawa per sciogliere il dubbio. Avendo una certa conoscenza della località dove si svolgono gli eventi, si sente di poter affermare che la donna ha oltrepassato il posto di frontiera e nella inquadratura finale si sta dirigendo ad Edo, per chiedere giustizia.

In quanto agli stilemi più ricorrenti: l’agguato al corteo di dignitari in mezzo ad una tempesta di neve, è a sua volta derivato da uno stilema narrativo: la triste sorte dei samurai conservatori che si ribellano sanguinosamente ed inutilmente contro il progresso a metà ottocento. Il duello in una landa deserta battuta dal vento o la battaglia finale in condizioni impervie (ad esempio la resa dei conti con i predoni di Sichinin no samurai, sotto una pioggia battente ed implacabile) concludono quasi sempre catarticamente i confllitti. L’auto presentazione formale dei personaggi, che indicano invariabilmente assieme al nome ed alla casata la scuola di arti marziali di cui sono discepoli, gli stili rinunciatari ed apparentemente facili da penetrare di alcune misteriose scuole di spada, che attirano come una falena i loro avversari.

Ed ancora, l’attrazione fatale verso il sake e le donne che distoglie il samurai dal suo cammino e lo porta alla rovina, l’altra attrazione, non meno fatale, verso l’azione ad ogni costo che porta spesso i protagonisti a diventare esempi negativi scontando scelte di campo non meditate. Scomposti e ricomposti in varie combinazioni e vari dosaggi questi ingredienti danno la misura di un “mestiere”che raramente viene meno, anche nei prodotti di onesti artigiani che non hanno il soffio dell’arte vera e propria. Che si avverte sempre quando c’è, e fa la differenza.

Notiamo spesso che pur se gli antagonisti sono spesso consapevoli delle ragioni della loro controparte, se buon senso ed umanità albergano sovente anche nei loro cuori, tuttavia non sempre riescono a tradurre in azione i loro pensieri, prigionieri delle loro convenzioni e rispettosi di un ordine costituito che sia pur avendo una propria ragione di essere raramente assicura la giustizia su questa terra e a volte nemmeno benessere e serenità, aspirazioni minime ed irrinunciabili di ogni essere umano.

Il periodo storico in cui si svolgono le azioni, che abbiamo detto coincidere quasi sempre con alcune epoche storiche ben delimitate, è in realtà un luogo dell’anima, un paesaggio immaginario nel quale qualunque racconto potrebbe trovare la sua ambientazione. Lo dimostra anche il continuo passaggio di temi da una cultura all’altra, da un’epoca all’altra. Significativa al riguardo soprattutto la produzione di Akira Kurosawa. Tra sue opere più note, citiamo Rashomon (1950) che diede ispirazione al film western L’oltraggio (1964), diretto da Martin Ritt e interpretato da Paul Newman, e poi I sette samurai (1954), che diede vita a I magnifici sette (1960) di John Sturges, concludendo con Yojimbo (1961) da cui il nostro Sergio Leone ricavò l’archetipo dei western all’italiana, Per un pugno di dollari (1964).

Kurosawa, ed è forse un caso isolato, è stato fonte di ispirazione per l’occidente, ma ha contemporaneamente attinto più volte alla cultura occidentale: non solo alla letteratura nobile - Macbeth per Il trono di sangue (Kumo no su jo, 1957) o Re Lear per Ran (1985), entrambi da opere di Shakespeare, ma anche a quella considerata minore come i libri “gialli” della serie dell’87° distretto di Ed Mac Bain per Anatomia di un rapimento (1963). E attinse non solo alla letteratura, poiché la colonna sonora di Barbarossa (Akahige, 1965) utilizza motivi di Haydn e Beethoven o quella di Madadayo(1993) di Vivaldi, mentre le grandi battaglie di massa di Kagemusha sembrano a molti - ma qui forse bisognerebbe essere più cauti - aver trovato ispirazione nei grandi affreschi storici di Paolo Uccello.

Abbiamo detto che la mano del grande artista si avverte sempre. Ad esempio nell’opera prima di Akira Kurosawa, Sugata Sanshiro (1943) non mancano ingenuità e imperfezioni, stilistiche o tecniche, ma l’unghiata del maestro si avverte anche in questa opera immatura. Il film inizia con una agguato teso al maestro Shogoro Yano (nella realtà Jigoro Kano, fondatore del kodokan judo) da esponenti di un ryu rivale. Vengono facilmente sconfitti, uno addirittura gettato in un fosso con un pregevole kotegaeshi¸ gli altri messi in fuga malconci. Ma anche il jinrikisha della carrozzella su cui era arrivato Yano è fuggito; si offre Sugata, che ha assistito esterefatto alla scena e vuole asolutamente essere ammesso come allievo di Yano; ma al momento di mettersi alle stanghe si rende conto che i suoi zoccoli non gli permettono di correre, e li lascia lì con noncuranza; le inquadrature successive ci mostrano quegli zoccoli portati via dal vento estivo, in mezzo al turbinare delle foglie autunnali, poi sommersi dalla neve d’inverno, infine trascinati via dalle piogge primaverili. Un modo estremamente poetico ma altrettanto efficace di creare uno stacco temporale: lo spettatore si rende immediatamente conto, quando viene inquadrato di nuovo Sugata, che indossa un keikogi consunto dall’uso e si trova sul tatami da allenamento, che diversi anni sono passati ed è diventato il primo allievo del maestro Yano.

Per comprendere appieno le trame è tuttavia spesso necessaria una certa conoscenza delle storia e della cultura giapponese, perlomeno per grandi linee. Non mancheranno i momenti in cui sarà necessario conoscerne qualcosa di più. Ad esempio è difficile per il profano cogliere nel già citato Joiuchi diverse sfumature della vicenda.

Quando il protagonista Isaburo Sasahara si ritira dal suo incarico alla corte del daimyo locale il suo modo di rivolgersi formalmente ad altre persone cambia: portando maggior rispetto agli interlocutori in quanto non più parte in causa nella vita sociale. Logico essere perplessi quando improvvisamente si ribaltano le parti, ed è lui ad essere ossequiato per primo e trattato con maggior rispetto.

Il maestro Hosokawa, di nuovo interpellato, conferma la chiave di lettura ipotizzata: la scena si svolge nella casa di Sasahara, e per quanto sia ormai a riposo come indica il capo non rasato, per quanto gli interlocutori siano suoi superiori nella scala sociale, in quella situazione è a lui che è dovuto formale rispetto.

Nei due recenti film Gohatto (1999), girato da Nagisa Oshima, e Mibu gish iden (When the last sword is drwan, 2003) di Yojiro Takita, entrambi ambientati all’interno della milizia Shinsengumi molti spettatori occidentali difficilmente comprendono al volo in quale epoca si colloca l’azione, e cosa fosse la Shinsengumi. Verrebbe istintivamente da pensare - nell'assistere alle loro vicende - che si sia trattato di un gruppo di estremisti reazionari. Ma pur essendo indubbiamente estremisti e altrettanto indubbiamente tradizionalisti, in quanto fedeli allo shogunato morente, i miliziani della Shinsengumi erano allo stesso tempo progressisti in quanto tale era la politica dello shogun cui avevano giurato fedetài.

Queste informazioni non si ricavano dal contesto, è necessario approfondire o meglio avere approfondito in precedenza per conto proprio. E' giustificabile che gli accenni non siano espliciti, non si possono appesantire le trame con eccessi di spiegazioni didascaliche. Anche nei film sul nostro risorgimento, ambientati quindi grossomodo nella stessa epoca, spesso mancano riferimento utili a far comprendere chi siano e cosa stiano facendo i personaggi.

Quando irrompe sullo schermo in Viva l'Italia di Roberto Rossellini (1961) un uomo di mezza età, con una gran barba bionda ed una camicia rossa lo spettatore comprende immediatamente.

Perlomeno se appartiene alla generazione non più verdissima che ha vissuto il momento di emozione collettiva coincidente con il decennio successivo al centenario dell'unità di'Italia (1961 appunto). Sa che si tratta di Giuseppe Garibaldi e che l'azione si svolgerà nel periodo del cosidetto Risorgimento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel prosieguo dell'opera decifra automaticamente gli indizi e colloca correttamente l'azione a Calatafimi o a Teano, si prepara a sentir pronunciare il famoso “Qui si fa l’Italia o si muore!” o l’altrettanto celebre “Saluto il re d'Italia”.

Ovviamente i giapponesi - ma anche i francesi o tedeschi - anche se di cultura superiore alla media rimarrebbero facilmente disorientati e avrebbero difficoltà a seguire la trama.

 

 

 

 

 

 

Esattamente come succede a noi non appena siamo alle prese con le loro vicende storiche.

In Okami yo rakujitsu o kire (The last samurai) di Kenji Misumi appare in alcune sequenze il celebre personaggio storico Saigo Takamori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma non solo è difficile per noi identificarlo, sebbene l'attore che l'impersona gli assomigli in modo impressionante e sull'haori che indossa sia ben visibile il mon dei Saigo, ma troviamo anche problematico ricostruire le ragioni delle sue azioni e della sua stessa presenza nella vicenda.

Per il giapponese medio, che conosce Saigo come noi conosciamo Garibaldi, il problema non si pone.

Purtroppo la lettura delle opere è troppo spesso ostacolata da edizioni italiane sconciate da un pessimo doppiaggio, che non si limita a stravolgere il senso di parole o frasi ma ne altera perfino il tono, trasformando ad esempio - in Gohatto - i militareschi Ha! (sì) dei protagonisti in espressioni di educato e timido assenso assolutamente inappropriate in quel contesto.

Quando non esiste un termine adeguato nella nostra lingua tanto varrebbe lasciare quello originale, perlomeno quando il significato è perfettamente comprensibile dalle espressioni degli attori e dalla intonazione della voce. Consigliabile quando possibile (lo è quasi sempre con i dvd) seguire la versione originale aiutandosi con i sottotitoli.


Tra gli stilemi ricorrenti nelle opere chambara e jidai oltre quelli già ricordati dobbiamo menzionare le sfilate dei rivoltosi o dei miliziani tra gli osanna della folla, la prova di ammissione nella milizia (o, altrove, nel feudo o nel dojo) mediante un combattimento, quasi sempre affrontato orgogliosamente non con gli shinai di bambu ma con i bokken di legno o addirittura con armi vere e proprie, spade o lance; o ancora il precipitare sempre più in fondo del ronin caduto in disgrazia e costretto dopo avere abbandonato il suo signore, fino all'immancabile tragica fine, o al contrario la indomabile dignità del ronin che ha saputo mantenere i suoi principi e la sua disciplina. Ricorre anche il tema del combattente invincibile in quanto impassibile, che non lascia alcun riferimento all'avversario.

Ame Agaru: Il maestro Tsuji Gettan (Tatsuya Nakadai) affronta il giovane Ihei Isawa (Akira Terao) che ha chiesto di essere ammesso al suo dojo. Isawa, nel suo peregrinare di dojo in dojo (musha-shugyo) è solito presentarsi chiedendo un confronto col caposcuola.

Ma invariabilmente dopo pochi preliminari si arrende dichiarandosi soggiogato dalla personalità del maestro.

E' un trucco per carpirne la benevolenza ed avere ospitalità gratuita. Ma questa volta è il grande maestro che si arrende: sconcertato dalla mancanza di aggressività del suo contendente, non trovando un modo per capirne o intuirne le intenzioni, rinuncia al combattimento e si dichiara vinto.

Tsuji Gettan Sukemochi (1648-1728), fondatore del Mugai ryu.

Passò numerosi anni in meditazione sulle montagne, dopo avere evidentemente giudicato insufficiente il percorso del pellegrinaggio marziale musha shugyo.

Si stabilì infine ad Edo ove fondò la sua scuola, ove però sembra non aver voluto allievi interni.

E' evidente che i direttori del cinema giapponese si ispirano nelle loro opere, perlomeno quelle più meditate, ad una iconografia consolidata nei secoli ma fruibile con facilità solo dal pubblico giapponese più colto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mibu gishi den: prova di ammissione alla Shinsengumi: un duello nel cortile d'armi, di fronte agli ufficiali che giudicano e a tutti i miliziani.

La milizia Shinsengumi nacque dalla preesistente Roshigumi, fondata dal morente regime Tokugawa nel 1863 per raccogliere sotto le sue bandiere gli irrequieti ronin che erano acccorsi in gran numero a Kyoto desiderosi di prendere parte al conflitto tra shogunato e forze imperiali, non importa da quale parte, e per questo venne chiamata Shinsengumi (nuovo gruppo scelto).

Arrivò ad avere circa 300 samurai tra le sue file, capeggiati da Kondo Isami, Serizawa Kamo e Niimi Nishiki. Divenuta famosa per la cruenta e vittoriosa battaglia notturna conosciuta come Ikedaya Jiken, in cui difese Kyoto dalle bande di shishi (leoni, ronin tradizionalisti legati alla fazione imperiale) che tentavano di incendiarla, la Shinsengumi scomparve nel giro di pochi anni soprattutto per le guerre intestine che ne avevano fatto scomparire i capi storici.

E' curioso notare che i membri della Shinsengumi fossero circa trecento. E' immediato il collegamento con altri famosi eventi della storia, come la disperata resistenza dei trecento spartani di Leonida alle Termopili nel V secolo a.C. o i "trecento giovani e forti", tragico episodio risorgimentale di una fallita rivolta nel Regno delle Due Sicilie, cantato nella Spigolatrice di Sapri da Luigi Mercantini nel 1857

Mibu gishi den: la Shinsengumi sfila nelle strade di Kyoto, acclamata dalla folla.

Al centro l'ufficiale Yoshimura, l'incompreso eroe protagonista del film, interpretato di Kiichi Nakai.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mibu gishi den: L'uniforme della milizia è celebre in Giappone più o meno come in Italia le camice rosse dei garibaldini.

L'haori della Shinsengumi era di colore asagiiro, che può corrispondere sia al blu che al giallo pallido.

Qui vediamo la versione gialla, indossata durante un attacco notturno.

 

 

 

 

 

 

Le uniformi della Shinsengumi, indossate da due manichini esposti nella stazione di Tokyo (da Wikipedia).

A quanto sembra introdotta da Serizawa, l'uniforme consisteva in una hakama ed una giacca (haori) indossata sopra il kimono. Una corda bianca, il tasuki, teneva raccolto l'haori avvolgendosi a croce dietro la schiena.

Quando non era disponibile il tasuki il samurai si preparava al combattimento o al duello raccogliendo i vestiti con il sageuchi, la fettuccia che assicura il fodero della spada alla cintura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gohatto: L'ennesima sfilata della milizia Shinsengumi per le vie di Kyoto.

Questa volta i costumisti hanno scelto per gli haori un colore marrone scuro meno aderente alla realtà storica, ma ha hanno riportato sui baveri il profilo montagnoso stilizzato che realmente contrassegnava le divise della milizia.

Alla sinistra del comandante il giovane Kano (Matsuda Rihei), inquietante protagonista dell'opera.

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