Jidai
Masaki Kobayashi: 1962 - Harakiri
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Masaki Kobayashi: Harakiri
1962
Tatsuya Nakadai, Rentaro Mikuni, Tetsuro Tamba, Akira Ishihama, Shima Iwashita, Masao Mishima
Se la lunga collaborazione tra Akira Kurosawa e Toshiro Mifune ha fatto sì che i due grandi artisti venissero automaticamente associati nella immaginazione degli spettatori, altrettanto proficua fu la collaborazione tra Masaki Kobayashi e Tatsuya Nakadai.
Anche Kurosawa si avvalse delle straordinarie doti di interprete di Nakadai. Era già presente come antagonista di Toshiro Mifune in Yojimbo (quasi sempre trascritto Yoshimbo nelle edizioni occidentali) e poi in Sanjuro, nonché protagonista nell’opera di ambientazione gendai (moderna) Anatomia di un rapimento. In seguito lavorò soprattutto con Kobayashi prima di tornare sotto la direzione di Kurosawa prima in Kagemusha e infine in Ran, i due ultimi capolavori jidai, ossia d'epoca (la parola chambara si riferisce invece ad un genere più avventuroso e disimpegnato che potremmo rendere con il nostro "cappa e spada).
Harakiri fu diretto nel 1962 e se non fu la prima opera in cui collaborarono Kobayashi e Nakadai, basti ricordare il celebre ciclo di film gendai La condizione umana, fu la prima con cui varcarono i confini del Giappone riscuotendo un successo internazionale.
Il film arrivò anche in Italia in quanto il successo di critica e di pubblico riscosso da molte (non tutte) opere di Kurosawa autorizzava grandi speranze per il cinema giapponese. Ma circolò invece quasi clandestinamente, scomparendo in breve dalla circolazione: troppo cruda la trama, troppo cruente le rappresentazioni per la sensibilità dell’epoca. Forse la cultura che dava origine e credibilità a questo genere di opere era ancora troppo lontana dalla nostra conoscenza e quindi dalla possibilità di pieno apprezzamento da parte nostra.
Paradossalmente, in una società che si considera più avanzata e più sensibile rispetto a quei tempi, fino al punto di eliminare dal suo vocabolario termini utilizzati per millenni o di coniare definizioni grottesche come “diversamente abili” per timore di rinfacciare a persone innocenti le loro debolezze e le loro sfortune, le cruente scene di Harakiri sembrano ormai banalmente ordinarie. Ai giorni nostri vediamo ben di peggio, quotidianamente, non solo al cinema ma anche ad ogni fascia oraria della tv, e quel che è peggio senza alcuna apparente ragione, senza alcuna giustificazione fornita dalla trama: violenza pura e semplice fornita come intrattenimento.
Naturalmente il pubblico benpensante si scandalizza per i barbari costumi delle società rappresentate sullo schermo, che siano quelli della antica Roma o del Giappone feudale, ma poi si affolla davanti a schermi e teleschermi per vedere la morte che si fa spettacolo.
Non stupiamoci allora che anche in Gohatto (2001) e Mibugishiden (2003) si rappresenti sullo schermo il seppuku, sia pure in contesti, epoche e trame diverse; ma nemmeno che la macchina da presa invece di arrestarsi al momento fatale ci mostri platealmente due decapitazioni, ugualmente raccapriccianti eppure - ormai - terribilmente banali. E sono, si badi bene, opere di registi di vaglia e che hanno riscosso unanimi consensi di critica,
Ma è il momento di iniziare a parlare di “Harakiri”.
Il termine harakiri (taglio del ventre, (腹 切り) viene considerato scorretto e da evitare in Giappone, ma è il più noto in occidente e probabilmente per questo il film è conosciuto col titolo Harakiri. Il titolo originale che viene riportato nei titoli di testa e nella locandina originale è invece Seppuku (切 腹, scritto con gli stessi ideogrammi ma invertiti), quello più appropriato
L’azione si svolge nel 1630 quindi agli inizi dell’epoca Tokugawa, circa una generazione dopo la battaglia di Sekigahara che ponendo fine alla lunga guerra di successione segnava l’inizio dell’epoca Edo, che venne definita anche l’era della “pax Tokugawa”.
Un periodo ininterrotto senza guerre durato circa 200 anni, che paradossalmente creò non poche e non lievi crisi di assestamento nel sistema sociale giapponese poiché furono gettati di colpo nella povertà più assoluta, e con l’interdizione rigorosa di dedicarsi ad attività di lucro, le centinaia di migliaia di samurai che erano stati reclutati nel torbido periodo precedente, quando si richiedevano grandi masse di guerrieri libere da ogni vincolo economico e sociale, che si dedicassero completamente alla formazione prima e alla battaglia poi.
Nel 1630 ci troviamo nel periodo più critico di questo processo di assestamento, quando ancora non sono concluse le sanguinose guerre con cui Tokugawa e i suoi alleati consolidarono il potere eliminando le ultime sacche di resistenza o liberandosi di alleati infidi e allo stesso tempo numerosi clan vengono sciolti perché legati al feudatari sconfitti o perché non più considerati necessari nel crudele gioco politico. Assieme ai daimyo e samurai ritrovatisi di colpo senza terra e senza rendite, ma ancora soggetti alla interdizione di lavorare, precipitarono nella miseria le loro famiglie.
Nel registro del clan Iyi, che è sopravvissuto alle tempeste epocali anzi ne esce rafforzato predando le ricchezze dei clan disciolti, in quella giornata del tredicesimo giorno del quinto mese si segnala che non è successo nulla di particolare.
Si ricorda solamente che la giornata è stata torrida e che in mattinata il feudatario Bennosuke ha portato in omaggio al signore di Doi delle trote fresche pescate nel fiume Shirakawa, nel dominio del clan. Tra le annotazioni minori si segnala tuttavia l'arrivo nel pomeriggio di un samurai già alle dipendenze della casata dei Fukushima in Hiroshima.
E' divenuto un ronin, un “uomo onda”, un samurai senza più padrone; ridotto allo stato di indigenza dopo lo scioglimento della casata cui prestava obbedienza, senza più alcuna speranza di riscatto sociale. Chiede che gli venga concesso l'uso della corte della dimora per compiervi seppuku, terminando il suo percorso su questa terra con un onorevole suicidio per mezzo della sua lama più fidata: il wakizashi , che il samurai non abbandona mai, mentre la lunga katana viene lasciata all’ingresso delle case private e dei luoghi pubblici. L'uomo si presenta infatti con il daito, la spada lunga, già impugnata con la mano destra in posizione neutrale e non portata alla cintura.
Il wakizashi (脇差:わきざし) ossia “arma da lato” è una lama compresa tra 1 e 2 shaku di lunghezza utile (30-60 cm), portata in coppia con la katana con cui costituisce il dai-sho (grande-piccola, sottintendendo il termine spada). Il porto di questo tipo di daisho, obbligatorio per la classe samurai, si afferma a partire dal XVII secolo. Continuò ad essere utilizzato ai soli fini cerimoniali il daisho precedente, costituito dal lungo tachi (di solito oltre 2 shaku e 5 sun, circa 75 cm) e dal tanto (sotto 1 shaku, ossia 30 cm).
Come detto prima lo scioglimento di numerose casate aveva di colpo precipitato in una situazione drammatica decine di migliaia di samurai assieme alle loro famiglie. Di conseguenza questo genere di richieste si era talmente diffuso da creare un notevole allarme in tutte le casate privilegiate, scosse anche emotivamente dal vedere uomini d’onore abbattuti dallo stesso destino che sarebbe potuto toccare da un momento all’altro anche a loro, e divise tra due tendenze contrastanti e inconciliabili.
Mossi da pietà alcuni daimyo avevano offerto ai ronin disperati l’assunzione nei loro ranghi. Moltiplicandosi a dismisura questi casi non fu più possibile provvedere a tutti; si iniziò a elargire somme di denaro che permettessero ai disederati di rimandare per qualche tempo la decisione estrema, per poi tuttavia congedarli senza acconsentire alla richiesta. Ma questo aveva causato una ulteriore esasperazione del fenomeno: molti disperati si presentavano senza alcuna intenzione di compiere veramente seppuku ma solo per la speranza di essere assunti o perlomeno di ricevere l’offerta in denaro.
Alcune casate decisero allora una linea di fermezza, obbligando i seppukusha ad eseguire immediatamente, e con le più rigide modalità tradizionali, quanto da loro richiesto. Tra queste, nella trama dell'opera, la casata di Iyi.
Il samurai presentatosi alla dimora degli Iyi (Tatsuya Nakadai) si presenta formalmente: è un ronin, già legato alla casata Fukushima di Hiroshima, e si chiama Hanshiro Tsugumo, “tsu come porto e gumo come nuvola”.
Presentarsi indicando con quali ideogrammi andava scritto il proprio nome era una pratica necessaria: venivano frequentemente sostituiti con altri ideogrammi dallo stesso suono ma con diverso significato, per rimarcare un nuovo momento nella vita nella persona.
Ma anche senza questa usanza la ricchezza di omofoni della lingua giapponese rende impossibile risalire alla scrittura del nome semplicemente ascoltandolo.
Tsugumo chiede con un atteggiamento rispettoso quanto fiero che gli venga concesso l’estremo favore, e qualcosa in lui induce l’intendente di palazzo a non liquidarlo in qualche modo ma a chiamare in prima persona il gokarô (御家老=dignitario) Kageyu Saito, sovrintendente della tenuta. E' interpretato da Rentaro Mikuni, indimenticabile protagonista anche in L'arpa birmana di Kon Ichikawa).
Sarà questultimo che turbato accennerà al ronin di un precedente episodio: la stessa richiesta era stata avanzata poco tempo prima da un giovane samurai, anche lui appartenente in passato alla casata di Fukushima. C’è forse qualcosa in comune tra i due?
Tsugumo nega. Ma lo svolgersi successivo degli eventi dimostrerà che non solo un legame esisteva, ma era anche stretto, indissolubile, e che rappresenta la ragione stessa della presenza di Tsugumo proprio in quel luogo e non in un altro, e della sua estrema decisione.
Il mistero del legame tra i due samurai non verrà sciolto immediatamente: come di consueto in molte rappresentazioni artistiche giapponesi la verità viene svelata gradualmente, in modo quasi insopportabilmente lento ed ambiguo eppure avvincente e coinvolgente, fino alla esplosione della catarsi finale che giunge quasi come liberatoria, per quanto cruenta.
Il lungo racconto di Tsugumo, già in posizione di seppuku nel cortile, di fronte ai dignitari in abito ed atteggiamento formale, esplicita l’esigenza di porre un termine onorevole al suo cammino, ormai giunto irrevocabilmente al tramonto, ma anche e soprattutto quella di rivendicare il proprio onore e la propria dignità, protestare contro l’ingiustizia patita e chiedere, con l’autorità ed il distacco di chi sta abbandonando tutto, che la casata di Iyi prenda atto dei suoi errori.
Tsugumo non verrà ascoltato. Eppure aveva offerto spontaneamente la soluzione più facile e dignitosa al grande problema che aveva posto di fronte alla coscienza dei seguaci di Iyi: il suo seppuku. L’ira di Saito prenderà il sopravvento e si rivolgerà, come spesso succede, contro l’incolpevole ambasciatore di un messaggio che non gli appartiene. Ma l’infausta decisione gli si rivolgerà contro, la conseguente ira di Tsugumo, ferito in quanto di più caro e sacro ha un essere umano, provocata dall'ira di chi avrebbe dovuto comprenderlo, travolgerà tutto e tutti.
Tutte le persone e istituzioni coinvolte finiranno per pagare un prezzo ben più caro di quello, sia pure elevato, che Tsugumo aveva intenzione di chiedere inizialmente.
Per la morale occidentale media forse il finale è eccessivamente amaro.
Della tragica missione portata fino in fondo da Tsugumo Hanshiro, non rimarrà traccia.
La verità ufficiale sarà scritta dai suoi antagonisti, che celeranno per sempre quanto accaduto non facendone alcuna menzione nel registro della casata, che chiude la pagina di quella torrida giornata del quinto mese accennando solo di sfuggita all'atto di pietà avuto verso un oscuro ronin.
Ma sarà evidente, per quanti avranno seguito fino in fondo avvinti davanti allo schermo l’odissea del ronin solitario che lui ha fatto quanto riteneva giusto ed inevitabile fare.
Ha accettato le conseguenze delle azioni e delle opinioni altrui senza darsene peso, senza consentire che influissero sulla linea di condotta da lui ritenuta giusta e sacrosanta.
E nemmeno si è lasciato condizionare dalla conoscenza e dall’apprezzamento delle sue azioni che potessero avere o non avere i posteri: ha fatto quanto doveva fare, e può abbandonare sereno la sua vita mortale.
Che la verità venga celata ha rilevanza solo per chi non è stato protagonista o spettatore della vicenda: smascherando l'ipocrisia della casata di Iyi e profanandone materialmente il simbolo, la rossa armatura della casata custodita nel sacrario, Hanshiro Tsugumo non solo vince la sua battaglia ma obbliga gli avversari a riconoscere con se stessi la loro sconfitta, che riescano o meno a celarla all'esterno.
Da una società e da una cultura che il nostro apprezzamento e il nostro studio non riescono ancora tutto sommato a svelare e apprezzare completamente, arriva nonostante tutto un messaggio chiaro ed universale.
Il sovrintendente Saito è visibilmente turbato dalla visita di Tsugumo e dalla sua richiesta.
Che gli ricorda un altro triste episodio.
Ha forse Tsugumo conosciuto o sentito parlare di Motome Chijiiwa? Era anche lui un ronin proveniente dal feudo dei Fukushima.
Tsugumo afferma che il nome non gli ricorda nulla, e che era impossibile conoscere tutti in un feudo avente al suo servizio nei giorni di prosperità 12.000 samurai.
Saito inizia il suo racconto: pochi mesi prima, in gennaio, questo ronin si era presentato alla tenuta degli Iyi, e per fare la medesima richiesta.
Motome Chijiiwa era poco più di una ragazzo.
Anchegli aveva spiegato che la rovina del signore Masanori Fukushima lo aveva travolto, e che invano aveva cercato un nuovo impiego: in tempi di pace non vi era più posto per molti samurai.
Richiedeva quindi l'uso della corte per porre onorevolmente fine ai suoi giorni, al riparo dello sguardo dei curiosi.
In assenza del signore Iyi che si trova nelle terre di campagna, Saito aveva immediatamente radunato il consiglio per esaminare la richiesta, che non era inedita: sia nel feudo degli Iyi che in quelli vicini ne pervenivano in continuazione.
Nel feudo di Sengoku il consiglio, ammirato dal sangue freddo e dalla dignità di uno dei richiedenti, aveva deciso di assumerlo al proprio servizio risparmiandogli un inutile sacrificio.
Altri feudi avevano seguito l'esempio, ma limitandosi a congedare i richiedenti con una somma di denaro che potesse essere loro sufficiente per qualche tempo.
Naturalmente questo aveva causato un continuo andivirivieni di ronin presso ogni dimora signorile, senza alcuna intenzione di compiere veramente seppuku ma sicuri di essere congedati con il pagamento di una somma. Il consiglio si sta orientando ad adeguarsi all'uso corrente, per congedare il giovane con qualche parola di conforto ed un regalo in moneta liquida.
Si oppone fermamente il consigliere Hikokuro Omodaka (Tetsuro Tanba). Sarebbe l'inizio di una processione inarrestabile, che infangherebbe il nome della casata. Ma soprattutto non è lecito comportarsi disonorevolmente per ottenere del denaro come è uso di questi ronin mendicanti, e la casata non deve trasgredire il codice di onore.
L'unico mezzo per porre fine a queste incessanti richieste è di esercitare fermezza.
Il giovane Chijiiwa viene trattato con estrema cortesia, e invitato dalla guardia del corpo Kawabe a fare un bagno, poi fornito di vesti nuove più adatte ad un incontro formale col signore Bennosuke, figlio del feudatario, che esaminerà il suo caso.
Quando viene convocato dopo una lunga attesa incontra però Omodaka, che lo invita a cambiare nuovamente abito, presentandogli un completo bianco: quello indossato durante la cerimonia del seppuku.
Il ragazzo, già convinto che sarà assunto dalla casata o perlomeno che riceverà una somma adeguata alla importanza del feudo, è terrorizzato, e chiede che ne è del previsto incontro col signore Bennosuke.
Omodaka gli riferisce che si è dovuto mettere improvvisamente in viaggio, ma ha esaminato il caso. Il suo parere è che sarebbe vano distogliere un samurai da una decisione così grave, evidentemente presa dopo matura riflessione.
Quindi, per quanto avrebbe gradito prenderlo al suo servizio, si adegua al suo volere e desidera che la cerimonia abbia luogo nel più breve tempo possibile.
Invano il ragazzo chiede un rinvio, Omodaka è irremovibile e gli ricorda che tutto è pronto, e per sua esplicita richiesta, e che la parola di un samurai deve essere sacra.
Chijiiwa tenta la fuga, ma invano: la casa è presidiata da numerosi uomini armati e pronti e tutto.
Il consiglio che gli dà Omodaka è di rassegnarsi al suo destino e morire con onore, piuttosto che essere tagliato in due come un pesce mentre tenta inutilmente di sottrarsi alla morte, perdendo allo stesso tempo la vita e la dignità.
I protagonisti della vicenda si preparano alla sua conclusione, ognuno a suo modo. Saito si è recato nel santuario degli Iyi per interrrogarvi i simboli della casata: l'armatura e la spada utilizzati in battaglia dal capostipite.
Rivendica l'onestà del suo operato, pur non potendo garantirne la saggezza.
Ha inteso salvaguardare con la sua decisione, fredda ma necessaria, allo stesso tempo l'onore della casata e quello dei samurai.
La maschera dell'armatura sembra fissarlo, impenetrabile. Ma non gli può dare alcuna risposta.
Chijiiwa è stato invece lasciato solo in una stanza, che è comunque sorvegliata da uomini armati, rivestito della bianca tenuta del seppukusha, solo con i suoi pensieri.
I samurai di servizio si sono radunati per preparare gli ultimi dettagli della cerimonia, ma faranno una scoperta che renderà ancora più tragica la vicenda.
I foderi delle armi di Motome Chijiiwa non contengono in realtà alcuna lama, ma solamente gli tsunagi: le false lame di legno o bambu utilizzate per montare assieme le varie componenti della fornitura mentre la lama non vi viene utilizzata.
E' evidente che Chijiiwa ha venduto le sue spade, mantenendo la fornitura perché per i samurai era obbligatorio indossarle in pubblico. E' una delle più gravi violazioni dell'etica samurai che si possa immaginare, tutti i presenti ne rimangono indignati.
Oltretutto la scoperta rende ancora più palese l'assoluto disinteresse di Chijiiwa verso il seppuku. Era veramente ed incontestabilmente venuto solamente per mendicare.
Probabilmente all'insaputa del sovrintendente Saito, Omodaka ha deciso di punire atrocemente il giovane indegno samurai.
Ricorda che col tempo la cerimonia si è andata evolvendo ed è divenuta a volte quasi simbolica, con l'assistente pronto a dare il colpo di grazia non appena il seppukusha allungherà la mano verso la lama, talvolta rappresentata anchessa simbolicamente da un semplice ventaglio.
Storicamente il particolare è inesatto, solamente nel periodo Yempo ossia circa due generazioni dopo si affermarono queste consuetudini (Mitford, Tales of Ancient Japan, 1871), ma questa infedeltà è necessaria ai fini della trama.
Per rispetto della casata e delle tradizioni Omodaka intende però procedere seguendo le rigide regole originarie: il seppukusha dovrà aprirsi il ventre con la lama prima di ricevere finalmente il colpo di grazia, che sarà lo stesso Omodaka a vibrare.
Solo allora Motome Chijiwa apprende con orrore che dovrà affrontare la prova con il proprio wakizashi, la cui lama di bambu, secondo il colorito commento di un samurai, non riuscirebbe a tagliare il tofu (formaggio di soia).
Solo facendo appello ad ogni estrema risorsa e dopo lunghi tentativi infruttuosi quanto oscenamente tragici Motome riesce ad immergere la lama nel ventre.
Non è ancora abbastanza per l'inflessibile Omodaka: esige che il giovane esegua anche i due tagli previsti, il primo orizzontalmente ed il secondo verso l'alto.
Solo a quel punto interviene, ponendo fine alle sofferenze di Motome Chijiiwa.
Durante il lungo racconto Hanshiro Tsugumo è rimasto imperturbabile, come del resto sempre in ogni suo momento.
Anche quando educatamente fa segno di assenso o meraviglia, e soprattutto nei rari momenti in cui sorride, il suo aspetto è inquietante.
Quando si muove, solo Nakadai e Mifune avevano questa straordinaria dote, desta l'impressione di una persona che ha il completo controllo non solo di se stesso ma anche dell'ambiente circostante e delle persone che gli stanno incontro, di un guerriero contro cui è vano pensare di poter vincere.
Rassicura il sovrintendente: la sua spada non è di bambu, ed è venuto fin lì solamente per morire.
La sua rassicurazione sembra piuttosto, per ragioni inspiegabili, una oscura minaccia.
Tsugumo sembra voler concludere presto la sua missione: rifiuta il conforto di un bagno, declina l'offerta di nuovi abiti da cerimonia, ritenenendo più coerente affrontare la morte con gli stessi abiti con cui affrontava la vita, e chiede di procedere.
E' ora lui a trovarsi in seiza nel cortile della tenuta, e di fronte a lui sono schierati tutti i dignitari.
Ed inizia qui materialmente il suo lungo duello contro la casata degli Iyi, scandito da logoranti rinvii ed improvvise accelerazioni dei tempi con cui condiziona a suo arbitrio il corso degli eventi e annienta la resistenza psicologica del clan.
Il sovrintendente Saito gli presenta il kaishaku designato, il samurai incaricato di essergli secondo nella cerimonia e dargli il colpo di grazia, che è in piedi come di consueto alle sue spalle, sulla sinistra. E' una posizione che di conseguenza andrebbe evitata, e che l'etichetta interdisce nei dojo di arti marziali.
Tsugumo lo rifiuta come suo diritto. Chiede che venga designato come kaishaku Hikokuro Omodaka, di cui ha sentito parlare come di un grande maestro della scuola di spada Shindo Munen Ichi.
Saito acconsente, ma viene a sapere con stupore che Omodaka si trova nella sua dimora, in seguito ad un malessere. Invia degli uomini a chiedere che intervenga, se le sue condizioni lo permettono.
Nella forzata attesa - da lui stesso deliberatamente provocata ma lo comprenderemo solo dopo - Tsugumo, premesso di avere in realtà qualcosa a che fare con lo sventurato giovane cui era stato imposto il seppuku in precedenza, chiede di narrare la sua storia.
Nel 1619, 11 anni prima, era un fiero samurai di alto rango al servizio dei Fukushima. Il suo migliore amico era Jinnai Chijiiwa.
Entrambi vedovi, vivevano solo per i loro figli: Motome Chijiiwa, di 15 anni, e Miho Tsugumo, di 11.
In brevissimo tempo il mondo di Tsugumo era precipitato.
Per uno scandalo legato all'appalto per la costruzione delle mura di un castello, il feudo era stato messo sotto inchiesta.
Jinnai Chijiiwa aveva commesso seppuku senza alcun cenno che lo lasciasse prevedere, assumendosi la colpa dello scandalo e incaricando Tsugumo di pensare al figlio Motome, a se stesso e alla piccola Miho.
Il sacrificio di Chijiiwa sarà vano: lo scandalo travolgerà l'intera casata.
Il signore di Fukushima abbandona a sua volta la vita compiendo seppuku. Negli attimi precedenti la cerimonia, che compie come suo diritto in qualità di nobile non nella corte ma nell'interno del palazzo, convoca Tsugumo.
Gli interdisce di compiere a sua volta seppuku: la sua missione è di vivere, resistere alla disgregazione del clan e assicurare una serena esistenza ai due ragazzi.
Ritorna in quel momento l'uomo incaricato di chiedere l'immediata presenza di Omodaka. I familiari gli hanno confermato che non è in condizioni di muoversi, e la sua richiesta di vederlo è stata rifiutata, con la motivazione che il samurai non riteneva opportuno farsi vedere mentre era in cattive condizioni.
A Tsugumo viene richiesto di designare un altro kaishaku. Richiede Hayato Yazaki, l'uomo che aveva scoperto che il fodero di Chijiiwa conteneva solamente un simulacro di spada, ed aveva proposto di obbligarlo a compiere seppuku con esso.
Sorprendentemente anche Yazaki si è dichiarato malato e non è presente. Si impone una nuova scelta e Tsugumo richiede Umenosuke Kawabe, parte attiva nell'inganno e tra i più solerti nel richiedere la linea dura nei confronti dello sventurato Chijiiwa. Anche lui non è presente.
Tsugumo si dichiara stupito della strana coincidenza. Ed insinua che una casata in cui i più valorosi samurai si ammalano così facilmente quando è richiesta la loro presenza non dia una buona immagine.
Le inquietudini di Saito di fronte al misterioso samurai cominciano a trovare le prime conferme.
Ritiratosi con i consiglieri anziani, esaminano assieme la situazione.
Non è chiaro cosa sia venuto a fare Tsugumo e perché, e Saito pur sentendo che è un personaggio degno di rispetto, pur avvertendo il rimorso della fine orribile cui è stato obbligato il giovane Chijiiwa, ritiene che il buon nome della casata degli Iyi vada preservato a qualunque costo.
Occorre ingiungere a Tsugumo di compiere al più presto quello che è venuto a fare, senza ulteriori indugi.
In caso di resistenza gli uomini di guardia dovranno lanciarsi contro di lui e finirlo immediatamente.
Tsugumo rifiuta sdegnosamente: ha dirittto di scegliere il suo kaishaku, richiede di darsi la morte volontariamente, per non lasciare alcuna macchia sul suo onore: non è un volgare malvivente.
Un nugolo di samurai si getta allora su di lui, con le armi sguainate, ad un ordine del sovrintendente.
Tsugumo, furente ma senza opporre resistenza, ordina loro di fermarsi. Misteriosamente gli uomini sentono di doversi fermare, e attendono a debita distanza.
Tsugumo ammonisce Saito: se insisterà a voler ricorrere alle armi scorrerà molto sangue di valorosi samurai, di nulla colpevoli.
Non sarebbe più saggio attendere semplicemente che si dia la morte da solo, visto che è esattamente quello che è venuto a fare? Saito sente che deve acconsentire.
Hanshiro Tsugumo continuerà il suo racconto.
Hanshiro Tsugumo tenta in qualche modo di tirare avanti fabbricando ombrelli di carta, che probabilmente rivende in nero ad un distributore: non gli sarebbe consentito avere una attività commerciale.
Nessuna possibilità di trovare un altro impiego come samurai. Edo, dove si è trasferito nel frattempo, è piena di ronin nelle sue stesse condizioni.
Il giovane Chijiiwa sopravvive a stento insegnando ai bambini i classici cinesi.
La situazione è tuttaltro che rosea, e la sola proposta concreta che arriva a Tsugumo lo lascia sconcertato ed indignato: accettare che Miho diventi una delle concubine di un importante daimyo, e rientrare così semi clandestinamente nel mondo che è stato costretto traumaticamente a lasciare.
Scoprendosi improvvisamente imbarazzato ed incapace di affrontare serenamente un argomento così delicato, avendo sempre in vita sua dedicato ogni pensiero al mestiere delle armi, convoca Motome.
Burberamente, sudando copiosamente, gli propone di prendere in sposa Miho, sottraendola alla vergognosa proposta.
Non ignora certamente il sentimento che corre tra i due giovani, e pur rendendosi conto che la loro situazione è estremamente difficile non intende chiudere gli occhi di fronte alla speranza che le cose migliorino.
Il matrimonio viene celebrato poco dopo.
Due anni dopo nacque un bimbo, a cui lo stesso Tsugumo impose il nome di Kingo.
La piccola famiglia potrebbe cominciare a sperare veramente in un futuro migliore.
Ma la situazione economica e sociale non migliora affatto.
Dopo avere smantellato i clan rivali e quelli che tentavano di mantenersi neutrali lo shogunato Tokugawa ne sta chiudendo anche diversi che erano fedeli alleati da decine di anni.
Tsugumo confessa di non riuscire a comprendere la politica delle autorità, che in questo modo riuscirà solo ad accrescere ancora il numero già esorbitante dei ronin senza meta e senza scopo nella vita.
E' in questa circostanza che Tsugumo e Chijiiwa discutono dell'episodio di Sengoku, il potente clan che aveva offerto un impiego al ronin venuto per compiere seppuku, e della ondata di altre richieste calmierate con offerte in denaro.
Chijiiwa aveva commentato che per quanto dure potessero essere le loro condizioni mendicare denaro rimaneva tuttavia azione non degna di un samurai.
Purtroppo il destino lo fece ricredere.
Nonostante tutto i tre vivevano felici, e senza dover rendere conto a nessuno della loro vita, mentre il piccolo Kingo era al centro della loro esistenza.
Ma proprio da lì iniziò la disastrosa caduta.
Per la prima volta, e sarà l'ultima, mentre lo stuolo di samurai che era poco prima pronto a gettarsi contro di lui ascolta attonito e ammutolito, Tsugumo sembra accusare la stanchezza di un colpo troppo duro da sopportare.
La felicità umana non dura mai a lungo...
Un giorno durante le estenuanti giornate di lavoro, in una casa umida ed esposta alle intemperie, Miho si sentì male, tossendo incessantemente e gettando sangue dalla bocca.
Nei giorni successivi le sue condizioni peggiorarono: non aveva una forte costituzione, ed aveva messo a dura prova il suo fisico per troppo tempo.
Motome, caduto nel panico, tentò invano di trovare un altro lavoro meglio ricompensato per pagare le cure.
Nessuno era disposto ad accettarlo, nemmeno per i lavori più pesanti ed umili, esposti alle intemperie.
Ad un samurai non era concessi che alcuni lavori intellettuali di ripiego, veniva quindi cacciato, spesso in malo modo, ovunque si presentasse in cerca di una occupazione.
Dargli lavoro avrebbe significato sicuramente avere delle noie da parte delle autorità.
All'inizio di quell'anno, Tsugumo non potrà mai dimenticarlo, uno stravolto Motome si presentò alla sua porta.
Temette subito il peggio per Miho, ma il colpo doveva essere ancora più duro: Kingo aveva la febbre, alta come se fosse divorato dal fuoco.
I due giovani non hanno nemmeno il coraggio di rispondere alle frenetiche domande di Tsugumo, che vuole sapere cosa ha detto il dottore.
Non hanno interpellato alcun dottore: non saprebbero come pagarlo.
Lo stesso Tsugumo non sa più cosa fare: ogni oggetto di valore è stato venduto da tempo, non possono fare assolutamente nulla per Kingo.
La sua disperazione lo porta a scongiurare il piccolo, che non è nemmeno in grado di sentirlo, di essere degno del nome di samurai e combattere per vincere, da solo, il male.
Fu allora che Motome gli confidò di avere una idea, pur rifiutandosi di rivelarla, e chiamandolo padre lo pregò di badare al bambino, per poi uscire di casa con fare risoluto. Non tornò mai più.
Una lunga attesa in cui ogni attimo sembrò interminabile.
Le sue spoglie tornarono alle 9 della sera, portate da alcuni samurai della casata di Iyi. Formalmente inappuntabili, fornirono tuttavia una versione di comodo completamente falsa, dichiarando che Motome Chijiiwa aveva insistito sulla serietà ed irrevocabilità della sua richiesta.
Mentre Hanshiro e Miho Tsugumo ascoltano, annientati, nella camera accanto il piccolo Kingo agonizza febbricitante.
I tre uomini responsabili dell'ambasciata, dopo essersi congratulati con lui per il comportamento esemplare di Chijiiwa, gli chiedono di esaminare le armi con cui egli si è tolto la vita, notando che le lame sono di bambu, in modo che nessuno possa accusare in seguito la casata di Iyi di averle sostituite per predarle. Tsugumo, che era all'oscuro di tutto, deve subire l'estremo oltraggio di una risata derisoria da parte di Kawabe, che fa notare che un vero samurai avrebbe meritato delle vere lame per porre fine alla sua vita, e getta con disprezzo il simulacro di spada sul cadavere di Chijiiwa.
Non rimane più molto da dire ad Hanshiro Tsugumo.
Lungi dal rimproverare il povero Motome per avere venduto il simbolo della sua casta e del suo onore, l'ha considerato un supremo atto di amore verso Miho, e ha rimproverato piuttosto se stesso per non averci pensato per primo.
Miho pianse ininterrottamente.
Il piccolo Kingo spirò due giorni dopo, senza mai riprendersi dal coma.
Tre giorni dopo ancora morì anche Miho.
Saito per quanto scosso dalla vicenda del ronin ha deciso che il suo dovere è di salvaguardare soprattutto l'onore della casata.
Chiede se questa era la fine del racconto di Tsugumo. Questi risponde che pensa di sì.
Ma lo ferma ancora, con un cenno imperioso, quando Saito sta per segnalare che si può continuare con la cerimonia.
Ha un'ultima cosa da dire.
Saito ha di fronte a se un avversario non superabile, che sa esporre le sue ragioni e difenderle, e sa renderle micidiali come il tagliente di una spada. Perché di tanti testimoni presenti nessuno ha avuto l'istinto di chiedere a Chijiiwa cosa lo spingeva a quell'estremo gesto? Perché nessuno ha nemmeno tentato di capire?
Saito difendendo le decisioni degli Iyi risponde che Chijiiwa ha ottenuto quanto era venuto a chiedere, non era possibile conoscere quanto celava invece nell'animo.
Ma invece di accettare serenamente una sorte avversa e probabilmente non prevista, invece di morire con onore da samurai, ha chiesto semplicemente un immotivato e inspiegato rinvio di uno o due giorni, allontandosi così dal percorso richiesto ad un uomo d'arme.
Tsugumo ne conviene, ma ricorda che Chijiiwa per quanto samurai era un uomo composto di carne ed ossa, privato dei mezzi elementari di sussistenza, e se lui ha sbagliato, cosa dire del comportamento di chi ha deciso di gettare sul lastrico migliaia di guerrieri fedeli, e chi dei samurai presenti può garantire che al posto di Chijiiwa avrebbe avuto la forza di comportarsi in modo diverso, in modo migliore? A questo punto, sembra che l'onore del samurai sia un vuoto simulacro, solamente una facciata.
I presenti sono visibilmente colpiti, toccati nel vivo da quelle parole.
Saito rivendicava ancora il comportamente coerente della casata: per gli Iyi l'onore del samurai non è una vuota facciata.
A questo punto Tsugumo inizia a scoprire veramente le sue carte, deridendo l'interlocutore. E assieme a lui tutti i presenti.
E' il momento che sappiano che la sua vendetta è già compiuta.
Chiede a Saito se veramente dubita ancora che lui sia veramente venuto per darsi la morte. Non ha nulla che lo trattenga su questa terra, è anzi ansioso di raggiungere al più presto i suoi cari. Ma non vuole presentarsi loro a mani vuote.
Quello che chiede è in pratica di portare loro le scuse della casata. Che riconoscano che ci sono stati errori da una parte e dall'altra, che una questione così grave avrebbe potuto e dovuto essere gestita meglio. Se potesse portare con se una sola parola di questo tenore, sarebbe di conforto per Motome.
Saito è obbligato a raccogliere la sfida, a tentare un attacco alle posizioni di Tsugumo. Se veramente pensa che l'onore samurai - cui si richiama anche lui - sia solo una facciata, come pensa di poter essere convincente? Ignora di essere inesorabilmente in ritardo, qualunque cosa faccia.
Tsugumo ha già mosso tutte le sue pedine, ed in maniera letale.
Riprende la posizione formale, sembra dichiararsi vinto, e dichiara di essere pronto per finirla con tutto questo. Ma ancora una volta arresta il kaishaku che si è alzato per prendere posizione dietro di lui.
Deve prima rendere alla casata di Iyi qualcosa che gli appartiene. E' quella in realtà la sua spietata ma non crudele vendetta, che all'insaputa di tutti ha già preso, che nulla e nessuno gli potrà togliere.
Estrae dalle vesti e getta sprezzantemente a terra qualcosa che sulle prime nessuno riesce ad identificare. E spiega di averli contrassegnati con i nomi, perché non ci siano equivoci. Sono i chommage, le acconciature rituali di due samurai che ha sentito avere la fama di essere i più valorosi della casata di Iyi: Hayato Yazaki e Umenosuke Kawabe. I due uomini che avevano prima crudelmente infierito su Motome Chijiiwa e lo avevano poi deriso dopo morto.
Si rassicurino i presenti: Tsugumo ha preso solo i loro chommage, non la loro vita.
In realtà, recidendo loro il simbolo dell'onore samurai, li ha uccisi spiritualmente lasciandoli materialmente in vita a soffrire.
Qualunque sia l'esito materiale del duello, Saito conosce già in quel momento l'amaro sapore della sconfitta. L'onore degli Iyi è compromesso, e celare la verità non servirà a cambiarla.
La sua sensibilità, che non ha saputo assecondare, che non ha avuto il coraggio di assecondare, ora serve solo ad accrescere la sua sofferenza.
Hayato Yazaki è stato affrontato e vinto 6 giorni prima, Umenosuke Kawabe il giorno seguente.
Entrambi sono stati pedinati avendo l'accortezza di farsi scorgere, dando loro l'opportunità di mettersi in guardia e combattere ma anche di mettere in mostra la paura che si nascondeva dietro i loro modi arroganti.
Entrambi si sono dimostrati pavidi e sono stati vinti, disarmati, ridotti all'impotenza ed umiliati con il taglio del chommage.
Entrambi si sono nascosti da allora, per non rivelare a nessuno la loro vergogna.
Tsugumo riconosce di avere trovato difficoltà a sorprendere Hikokuro Omodaka, forse allertato dalla sorte toccata agli altri due che in qualche modo aveva conosciuto, e quindi perennemente in guardia.
Ma comunque di una statura superiore agli altri.
In realtà è stato Omodaka a recarsi spontaneamente da lui presso la sua casa ormai vuota, piena di scheletri di ombrelli che nessuno avrebbe mai portato a termine.
Tsugumo si lascia sorprendere: la sua spada è poggiata lontano e Omodaka lo avverte che se tenterà di prenderla verrà tagliato inesorabilmente dalla testa ai piedi.
Ma intende combattere lealmente. Giustificandosi col desiderio di non rovinare la sua lama rischiando di urtarla nel soffitto, non essendo quello il posto adatto per un duello, chiede a Tsugumo di seguirlo nella località chiamata Gojin Gawara e di lasciare una nota per spiegare quanto sta avvenendo, per non scomparire senza lasciare alcuna traccia o memoria di se.
I due si incamminano, silenziosi, camminando a lungo per luoghi deserti avvolti dalla nebbia del mattino, attraverso cimiteri fitti di tombe e boschetti di bambu.
La scena del duello rispetta molti degli stilemi classici del cinema giapponese: la brughiera di montagna ai margini di un cimitero abbandonato, le alte erbaglie scosse dal vento, il cielo tempestoso, l'assoluta concentrazione dei protagonisti.
Lo elevano molto al di sopra della media la consulenza di uno sconosciuto, almeno per il momento, maestro d'armi che ha voluto citare diverse posizioni di antiche scuole di spade, lo dimostrano le posizioni hanmi (in linea) dei piedi di entrambi, che nulla hanno a che vedere con la posizione usuale nel kendo moderno.
Ma soprattutto il carisma dei due attori: Tetsuro Tamba e Tatsuya Nakadai.
Tsugumo commenta, rivolto ai suoi attoniti interlocutori. Omodaka si avvalse del vento a favore per metterlo in inferiorità. Era una idea brillante, ma le brillanti strategie non bastano in battaglia.
Ed occorreve prevedere le infinite potenzialità della katana, la spada giapponese.
Con un colpo che Omodaka pensa di poter facilmente arrestare, Tsugumo spezza invece la sua lama. E' un caso più frequente di quanto si possa credere, la martensite del tagliente, ha, può tagliare l'acciaio più tenero del mune, il dorso della spada con cui si effettuano parate e bloccaggi.
Costretto a difendersi col solo wakizashi, la lama corta, Omodaka sarebbe una facile preda. Ma Tsugumo non combatteva dall'assedio di Osaka, 16 anni prima.
Gli sarebbe stato relativamente facile ucciderlo, prendergli il chommage ha richiesto uno sforzo maggiore. Ma eccolo.
E ognuno sa che farsi tagliare il ciuffo equivale a farsi tagliare la testa, è una dimostrazione di inettitudine, un disonore che nemmeno la morte potrebbe redimere.
Ma c'è di più.
Nessuno degli Iyi sarebbe disposto ad ammetterlo, ma Tsugumo li incalza con le sue parole.
Quegli uomini non hanno affrontato il disonore: si sono nascosti, sottraendosi ai loro doveri, sperando che i loro capelli ricrescessero senza che nessuno si accorgesse della loro vergogna.
Ecco la prova che anche nella casata degli Iyi l'onore samurai è solo una facciata. Tsugumo ha vinto, ed è ora il suo turno di irridere il nemico vinto.
Vinto. E disonorato.
Saito cede alla debolezza di cercare una inutile vendetta, che non cambierà nulla. Ordina di uccidere all'istante Tsugumo.
Sarebbe stato saggio seguirne il consiglio e lasciarlo morire di sua propria mano.
L'eco della sanguinosa battaglia, Tsugumo ha lasciato da parte anche i suoi ultimi scrupoli e deciso che non morirà da solo, penetrano nella dimora dove il sovrintendente Saito è in preda dei suoi dubbi e probabilmente dei suoi rimorsi.
Per quanto ripetutamente ferito ed esausto con la forza della disperazione Tsugumo si fa largo tra gli avversarsi, che si ostacolano tra di loro, e penetra nella casa.
Mietendo avversari, senza che nessuno riesca a fermarlo, sebbene le forze lo abbandonino assieme al sangue che esce dalle numerose ferite, arriverà infine fino al sacrario ove è custodito l'emblema della casata, la rossa armatura di cui abbiamo già parlato.
Sono intanto accorsi degli uomini armati di teppo (fucile) che si schierano a debita distanza davanti a lui - nessuno osa più avvicinarsi - e preparano le armi.
Lo abbatteranno senza che lui possa fare nulla.
In un ultimo disperato gesto di sfida Tsugumo getta al suolo l'armatura degli Iyi, e si trafigge con la sua spada negando al nemico la possibilità di ucciderlo.
Inutili i colpi di arma da fuoco che infieriscono oltretutto sul corpo di un uomo già morto mesi prima assieme ai suoi cari.
Dei messaggeri si recano da Saito per un resoconto: Tsugumo è stato ucciso.
Le perdite sono gravi: 4 samurai sono rimasti uccisi, altri 8 gravemente feriti.
Saito ordina di comunicare che 'il samurai di Fukushima' ha commesso seppuku dietro sua richiesta, mentre gli uomini al servizio degli Iyi sono morti di malattia. Nulla deve trapelare.
Un dignitario arriva trafelato per portare notizie di Omodaka: anche egli si è ucciso, la notte prima.
Come costume giapponese non osa nominare l'atto, lo mima con le mani, inequivocabilmente.
In quanto agli altri due, effettivamente non sono malati e si nascondono per la vergogna.
Saito non ha esitazioni: torni immediatamente da loro ed ordini di togliersi la vita, facendosi accompagnare da un drappello di uomini armati che uccidano immediatamente i due se danno mostra di esitare. Ufficialmente anche queste ultime vittime della collera di Tsugumo saranno morti per malattia.
In un modo o nell'altro tutti i protagonisti della vicenda hanno pagato con la morte i loro debiti.
Saito è invece condannato a pagare con la vita, tenendosi dentro i suoi ricordi ed i suoi rimorsi.
Vivrà per sempre col peso di una terribile verità che non potrà condividere con alcuno.
Dalla dimora vengono rimosse tutte le tracce dell'accaduto.
Il tatami riservato al seppukusha viene rimosso, l'armatura degli Iyi ricomposta nel sacrario.
Mentre viene ripulito il cortile uno degli inservienti raccoglie da terra uno dei chommage, simbolo del'onore samurai.
Lo getta con noncuranza nel secchio pieno d'acqua che avrebbe dovuto essere utilizzato prima per lubrificare la spada del kaishaku e poi per raccogliere la testa mozzata di Tsugumo.
Il giornale della casata riporta una storia completamente differente.
Vi si dice solamente che un samurai già appartenuto al feudo di Fukushima, apparso a volte confuso nelle sue affermazioni e nei suoi atteggiamenti, ha ricevuto assistenza nel compiere seppuku.
Si apprezza che la notizia del fermo atteggiamento tenuto dalla casata in questo e altri casi simili si sia già diffusa nella città, tra l'apprezzamento generale.
Si chiude così la pagina del registro, alla data del 16 maggio 1630.