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Akira Kurosawa: 1961 - La sfida del samurai (Yojimbo)
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Akira Kurosawa: La sfida del samurai
Yojimbo), 1961
Toshiro Mifune, Tatsuya Nakadai, Takashi Shimura, Daisuke Kato, Susumu Fujita
Un silenzioso enigmatico samurai senza padrone e senza nome vagabondando privo di meta giunge in un piccolo villaggio dove è in corso una feroce guerra tra due bande rivali, capeggiate dal grossista di seta e da quello di sake. In realtà quando gli viene chiesto il nome il ronin inventa lì per lì uno pseudonimo ispirandosi a quello che gli si trova davanti: Kuwabatake Sanjuro (Gelseto Trentenne). Ma nella sbrigativa edizione italiana - che non ebbe successo - questa scena venne tagliata. Tuttavia l'espediente piacque a Kurosawa che citò se stesso nell'opera successiva ove il protagonista si attribuisce il nome di Tsubaki (Camelia) Sanjuro che è anche il titolo del film.
Enigmatico e cinico il ronin passa con disinvoltura da una parte all'altra lasciando lievitare le offerte per avere a servizio la sua spada come guardia del corpo (yojimbo), ma in realtà il suo scopo, dichiarato fin dall'inizio al gestore della locanda, scettico ma fedele alleato, è di annientare entrambe le bande per restituire la pace al paese.
La storia - plot per rispettare il termine tecnico utilizzato nel mondo del cinema - è debitrice a Red harvest, un romanzo giallo del 1929 recentemente ripubblicato in Italia da Mondadori col titolo Raccolto rosso, dello scrittore americano Dashiell Hammet, maestro del genere che venne definito hard boiled per il suo crudo realismo.
E una ennesima prova dell'attenzione con cui Kurosawa guardava al mondo occidentale, prendendo spunti sia dalla letteratura "alta" (Shakespeare, Gorkij) sia da quella più popolare come dimostra questo secondo caso di ispirazione alla letteratura statunitense contemporanea di intrattenimento. L'altro esempio come è noto è Anatomia di un rapimento, ripreso da uno dei gialli della serie dell' 87. distretto scritti dall'italo-americano Ed McBain (nato come Salvatore Lombino) e pubblicati in Italia nella collana Giallo Mondadori.
Il soggetto venne quasi subito ripreso a sua volta da Sergio Leone che ne ricavò Per un pugno di dollari. Non il primo western all'italiana ma certamente il primo che nonostante la pochezza dei mezzi impiegati abbia riscosso un vero successo internazionale, dando inizio alla luminosa carriera di un artista che aveva dato finora prova di sé soprattutto come negro ossia mero esecutore senza diritto di firma, direttore di seconde unità di ripresa. .
La famosa scena della corsa delle bighe in Ben Hur fu infatti girata non da William Wyler che firmò l'opera ma da Leone. Eppure come autore vantava prima della cosidetta trilogia del dollaro solamente un non memorabile Il colosso di Rodi, opera tarda del genere peplum fiorente in Italia tra gli anni 50 ed i 60. Dopo il successo di Per un pugno di dollari una lunga controversia tra Kurosawa e Leone, che non aveva chiesto alcuna autorizzazione per il riutilizzo del soggetto, venne risolta affidando a Leone la distribuzione dei film di Kurosawa in occidente (ma che si sappia non ci fu seguito) e a Kurosawa quelli di Leone in oriente.
L'incipit dell'opera - e sappiamo che Kurosawa prestava grande attenzione alle sequenze iniziali - ci mostra un samurai , chiaramente riconoscibile come randagio dall'acconciatura del capo ma le cui non oscure origini sono evidenziate dagli stemmi di famiglia impressi sugli abiti. Trovandosi ad un bivio getta per aria con infantile allegria un bastone: la direzione ove si poserà la punta del bastone sarà anche la sua. Ed è così che arriva in un sinistro villaggio, apparentemente privo di abitanti (sono tutti rinchiusi dalla paura nelle loro case) ove una inquietante apparizione gli fa immediatamente capire che qualcosa - e qualcosa di molto grosso - non va: un cane che trotterella per la via principale, deserta e battuta dal vento, portando in bocca una mano umana, evidentemente tagliata di fresco da un colpo di spada. Ancora un cane, dopo quello di Nora Inu del 1949, dodici anni prima, che introduce lo spettatore alla sinistra atmosfera di questo film.
Il villaggio è conteso tra due bande di trafficanti, che significativamente si occupano di commercio di seta e di sake: una chiara accusa alla brama di potere del capitalismo moderno, che in altre opere di Kurosawa assume i toni di una vera e propria denuncia ma che rimane in sottofondo in Yojimbo.
Un'opera caricata all'estremo su ogni registro, come certe fotografie che andavano di moda all'avvento del colore, dalle tonalità talmente contrastate ed esagerate da diventare surreali; ma il registro dominante è senza ombra di dubbio quello comico, rivolto contro quel genere di miserie umane che fanno più spesso indignare che sorridere.
E Yojimbo ride apertamente, al vedere la commedia umana di cui tiene le fila scatenando le due bande l'una contro l'altra, mentre prima le loro sopraffazioni erano rivolte agli inermi abitanti del villaggio.
Tutto sembra dunque andare secondo i piani del misterioso samurai, ma non tarderanno a sorgere complicazioni, che lo costringeranno perfino a mostrare il suo volto umano, ben celato dietro un comportamento brusco, sfrontato e cinico.
Sono presenti in Yojimbo, per la prima e per l'ultima volta contemporaneamente assieme, tutti gli attori icona di Kurosawa.
Susumu Fujita, protagonista già della prima opera di Kurosawa (Sugata Sanshiro) è qui invece alla sua ultima apparizione, nelle vesti di uno scontroso samurai che abbandona la banda di cui era al servizio, apparentemente ingelosito della paga favolosa che viene accordata al ronin sconosciuto appena arrivato ma soprattutto contento di sfruttare la prima occasione per sottrarsi ad un vassallaggio che avverte non appropriato al suo sentire.
E' invece una novità assoluta Tatsuya Nakadai - perlomeno nei panni di protagonista di rilievo dato che in una intervista ricorda di avere avuto un insignificante ruolo in I sette samurai. Sarà ancora antagonista di Mifune in Sanjuro ed infine protagonista assoluto dei grandi affreschi storici dell'ultimo Kurosawa: Kagemusha e infine Ran.
Nakadai recita in Yojimbo in un ruolo che in quegli anni gli veniva spesso richiesto, quello dell'antagonista. Unosuke è nevrotico e irresistibilmente attratto dal male ed in possesso di un oggetto "magico", una pistola a ripetizione, che lo rende invincibile e infallibilmente sicuro di sé. Qui lo vediamo mentre incrocia per la prima volta il ronin misterioso. Al suo fianco Daisuke Kato, l'allegro lanciere dei Sette samurai, onnipresente nei film di Kurosawa e qui nel ruolo divertente dello sventatissimo fratello del capobanda. Non manca Takashi Shimura, altra icona del cinema di Kurosawa, in uno dei suoi rarissimi personaggi negativi.
Nel remake di Sergio Leone sarà Gian Maria Volonté a ridisegnare la figura dell'antagonista, aggiungendovi se possibile un ulteriore tocco di inquietante ambiguità.Come è noto la parte dell'eroe solitario e silenzioso toccò invece a Clint Eastwood.
Tra i personaggi di contorno le recensioni non mancano mai di segnalare la vistosa presenza di un gigante armato di una gigantesca mazza, per descrivere il quale si ricorre frequentemente alla frase "immaginatevi un tipo alla Richard Kiel". Si tratta dell'attore americano divenuto famoso nella interpretazione di Jaws, avversario e poi alleato di James Bond in alcuni film della saga di 007. Sembra però che la verità sia come spesso accade molto più semplice e che la parte sia stata interpretata veramente da Richard Kiel, anche se nessuna fonte ufficiale lo conferma
Difficile spiegare il perché, ma nel mondo del cinema abbondano i piccoli ed i grandi misteri. In fondo se il remake di Leone non avesse avuto il successo che ha avuto crederemmo ancora che il regista si chiamasse Bob Robertson e fosse statunitense, mentre Gian Maria Volonté venne ribattezzato John Wells. Forse una sorta di pudore analogo probì a Kurosawa di rendere noto il ricorso ad un attore americano per un film giapponese, probabilmente reso necessario dalla impossibilità di reperire in Giappone un attore di statura paragonabile ai 217cm di Kiel; che per la verità confessa di avere rubacchiato un po' nella sua scheda ufficiale, arrotondando a 7 piedi e 2 pollici (218,5 cm) perché quando diceva di essere alto 7 piedi, un pollice e mezzo (217cm appunto) gli interlocutori si perdevano nei calcoli.
Sia come sia, lasciamo giudicare al lettore: pur tenendo presente che la foto a colori di Kiel risale a circa quaranta anni dopo, è legittimo il sospetto che le due immagini siano riconducibili alla stessa persona. Ancora un altro piccolo mistero si cela in Yojimbo: i titoli di testa della recente edizione italiana attribuiscono le "scene di kendo" ad un personaggio ignoto al recensore. E' risaputo invece, e lo provano le foto di scena (vedi la relativa pagina nella recensione dei Sette samurai) che il maestro d'armi era Yoshio Sugino, celeberrimo insegnante di spada e di aikido.
Chirurgicamente efficiente quando cinico e pragmatico, il samurai cade nella rete tesa dai suoi avversari solo quando si rivela capace di umanità: il suo sanguinoso intervento per liberare la donna ostaggio di una banda e instradarla sulla via della fuga assieme al marito e al figlioletto, lo tradisce.
E' proprio una lettera di ringraziamento inviatagli dalla coppia che viene in possesso di Unosuke e svela il suo doppio gioco.
Imprudentemente lasciata sul tavolo, viene notata ed aperta dal trionfante malfattore, che fin dall'inizio si era dimostrato diffidente ed ostile nei confronti del samurai.
La catarsi finale verrà preceduta, come di consueto nelle opere che in qualche modo si ispirano al genere western, da una sanguinosa sconfitta che non sembra lasciare spazio per una rivalsa.
Ormai prigioniero della banda di Unosuke, il samurai viene lasciato nelle mani del gigante - senza nome anche lui - e ridotto a tal punto che ormai non sembra più costituire alcun pericolo.
Anche la lotta tra le due bande rivali arriva ad una conclusione: Unosuke rompe gli indugi ed incendia il magazzino di seta dei rivali, attendendoli al varco quando sono costretti ad uscire per sfuggire ad una morte orribile, dopo essere stati assicurati che avranno salva la vita.
Ma Unosuke non esita a scaricare su di loro il suo revolver, giustificandosi infantilmente con l'eterno pretesto di non essere stato lui a cominciare con i trucchi. Kurosawa nell'istruire i suoi attori aveva prescritto loro dei comportamenti animali e a Nakadai toccò la parte del serpente, sostenuta alla grande. Sembra il momento del trionfo definitivo della malvagità umana.
Sanjuro - o comunque si chiami - pur ridotto in condizioni pietose è tuttavia riuscito ad evadere dalla sua prigione. Si rifugia in una minuscola capanna accanto al cimitero, e riprende lentamente le forze; la sua unica arma è ormai un coltellaccio da cucina lasciatogli dall'oste, con cui si allena metodicamente lanciandolo contro le foglie portate dal vento che penetra attraverso le fessure del tavolato.
Si è molto favoleggiato su questo effetto scenico di Kurosawa: l'effetto di precisione matematica con cui il coltello colpisce la foglia svolazzante sarebbe stato ottenuto montando al contrario la pellicola, girata estraendo il coltello dalla foglia invece che tirandoglielo contro. Questa fantasiosa ricostruzione cade miseramente ad una semplice verifica: fate girare il filmato al contrario, cosa ormai possibile su ogni copia in dvd e se la storia fosse vera dovreste vedere la sequenza originaria come è stata girata.
Come sempre la verità è molto banale, e coglibile da chiunque abbia un minimo di spirito di osservazione e non ami fermarsi alle apparenze; è stata prima ripresa la foglia sballottata dal vento - o più probabilmente da un apposito ventilatore - poi è stata fermata la macchina da presa e sistemato convenientemente l'assieme foglia/coltello. A quel punto si è dato di nuovo il segnale di azione, e per lo spettatore si è raggiunto perfettamente l'effetto voluto: la foglia svolazzante si arresta di colpo trafitta dal coltello, che arresta la sua corsa configgendosi nel pavimento.
Armato di una spada di fortuna, coltellaccio alla cintura, il samurai si dirige verso la strada principale del villaggio, per affrontarvi il duello finale che riprende tutti gli stilemi del film western: il vento impietoso, la strada deserta, l'apparire dei contendenti da un lato e dall'altro, il loro lento avvicinarsi, mentre sale la tensione.
L'archetipo a cui si è ispirato Kurosawa per la scena finale è chiaramente derivato come abbiamo detto dall'epopea western. Non necessariamente quello che proponiamo, per quanto sia molto compatibile e plausibile. Nella immagine vediamo lo sceriffo solitario di High noon (Mezzogiorno di fuoco), impersonato da Gary Cooper, che si diirige verso il suo destino. Solo contro una banda di malfattori, nella via principale del villaggio deserto, sotto la sferza del sole implacabile.
Kurosawa ricorrerà invece per rappresentare il raccapriccio della natura stessa di fronte alla barbarie umana, al vento: un forte vento ricreato da enormi ventilatori, che sollevavano la polvere scaricata in continuazione da una carovana di camion. Nakadai ebbe bisogno di qualche giorno per riprendersi dalla seria irritazione agli occhi causata dalla polvere.
Con passo sicuro e determinato il sedicente Sanjuro si avvicina ai gruppetto ormai sparuto dei pochi malviventi sopravvissuti alla sua violenta scrematura. Con uno degli espedienti retorici cui frequentemente ricorre - spesso da lui introdotti per la prima volta nel mondo della settima arte - gli avversari si avvicinano lentamente, titubanti, come desiderosi di sottrarsi ad un appuntamento mortale tuttavia non rimandabile.
Nonostante il loro numero, nonostante la forza del gigante, nonostante la pistola di Unosuke, sanno o comunque presagiscono quanto inesorabilmente avverrà: è l'ora della resa dei conti.
Kurosawa porta la tensione fin quasi ad un livello intollerabile, poi improvvisamente la spezza:. giunto a distanza di combattimento, appare infatti un sorriso sarcastico sul volto del samurai.
Un sorriso sarcastico eppure anche infantilmente divertito, che disorienta gli avversari ma anche e soprattutto gli spettatori.
Continuando a sorridere il samurai affretta il passo, e si esibisce in quel caratteristico scrollare delle spalle che Mifune rese leggendario - e che strappa ogni volta allo spettatore un sorriso divertito - che vuole ricordare il gesto di un cane che si scuote gli insetti di dosso.
La parte assegnata da Akira Kurosawa a Toshiro Mifune era infatti quella del cane. Ancora un cane come fonte di ispirazione del maestro....
Lo sparuto eppure ancora agguerrito gruppetto di malviventi non sa più cosa pensare: si rendono conto di avere di fronte a loro qualcuno che non possono capire, che non possono prevedere e di conseguenza non possono pensare di sconfiggere.
Quell'attimo di indecisione, questa imprevista crepa nel loro ki, sarà fatale: in pochi attimi il samurai sarà già in mezzo a loro, con la spada sguainata che traccia intorno cerchi mortali.
Il destino si è compiuto: a Unosuke, falciato dalla lama del samurai, rimangono ormai pochi istanti di vita, che impiega chiedendo di poter stringere un'ultima volta in pugno la pistola. L'ennesimo tranello, vano quanto gli altri.
Il samurai commenterà con una percepibile punta di rispetto che Unosuke ha lasciato la vita coerentemente a come l'aveva vissuta.
E' finita: il samurai misterioso lancia un addio ai suoi compagni ed alleati di pochi giorni, e scrollando le spalle come un cane se ne va, non sappiamo dove. Questo divertissement di Kurosawa, interludio tra opere che trattavano temi ben più impegnativi, è terminato.
Ma ci lascia con un dubbio: ha voluto veramente scherzare e prendersi un po' di vacanza? Siamo sicuri che il messaggio che ha tentato di lanciare non sia importante ed essenziale quanto gli altri?