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Akira Kurosawa: 1990 - Sogni

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Dream (Sogni), Akira Kurosawa, 1990

Akira Terao, Mitsuko Baisho, Isashi Igawa, Martin Scorsese

Per la prima volta Kurosawa parla apertamente di se: per quanto non siano mancati isolati riferimenti autobiografici nelle altre sue opere, per quanto abbia parlato di se nel suo Qualcosa come una autobiografia, qui non attinge alla letteratura, non scrive una storia, non parla dei fatti: la sceneggiatura di questa opera è "solo" la raccolta di alcuni sogni del maestro. I più ricorrenti?.. i più importanti, i più inquietanti?

Probabilmente non ha senso porsi queste domande, cui forse nemmeno Kurosawa saprebbe dare una risposta. Sicuramente sono i sogni che riteneva necessario comunicare al mondo.

Il protagonista si chiama semplicemente Io, a fugare ogni dubbio, e lo impersona Akira Terao restituendoci una figura allampanata che ricorda molto il giovane Kurosawa: alto 181 cm, magro e presumibilmente scattante, abbastanza differente comunque dall'aspetto imponente degli anni maturi.

Ad un certo punto il protagonista inalbera perfino un informe cappelletto che è copia conforme di quelli utilizzati così frequentemente dal regista.

L'opera è divisa in otto episodi, non strettamente correlati tra di loro ma ognuno dei quali ha un suo preciso collocamento nel complesso del film.

Alcuni sembrano appartenere ad un altro mondo, come quelli dell'infanzia che potremmo tranquillamente immaginare collocati in epoca Edo se non prima ancora.

 

 

Un mondo semplice nello stile di vita ma enormemento complesso ed affascinante per austerità materiale e ricchezza interiore.

Gli altri scandiscono via via diversi momenti della intensa vita di Kurosawa.

 


Il matrimonio delle volpi.

Nella scena di apertura vediamo Io, ancora bambino e vestito negli abiti tradizionali (Toshihiko Nakano), che è uscito fuori di casa per ammirare la pioggia.

Ci sono contemporaneamente la pioggia ed il sole e la madre (Mitsuko Baissho), uscita anche lei per mettere al riparo gli oggetti, mette in guardia il bambino.

Quando piove e contemporaneamente c'è il sole avviene il matrimonio delle volpi, e bisogna stare attenti a non capitarci in mezzo per sbaglio, perché le volpi sono spiriti dispettosi e si vendicherebbero dell'incauto osservatore.

E' un antico stilema della mitologia tradizionale giapponese.

Qui vediamo il matrimonio delle volpi rappresentato da uno dei massimi artisti della tarda epoca edo: Utagawa Hiroshige (1797-1858).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La seconda opera è del grande Katsuhika Hokusai, che la eseguì nel 1844 alla età di 85 anni. Si tratta di un particolare tratto da un grande kakemono (dipinto da appendere alla parete) in seta, che si sviluppa in verticale ed ha il titolo di Kitsune no Yomeiri: Pioggia improvvisa da uno splendido cielo.

Vista l'importanza della leggenda nell'immaginario del popolo giapponese, non meravigliamoci che il piccolo Kurosawa sia naturalmente attirato proprio da quanto gli era stato vietato.

Sappiamo già che avrà l'imperiosa necessità di andare nel bosco per assistere al matrimonio delle volpi.

 

 

 

 

Il piccolo vaga incantato nel bosco, dove i raggi del sole misti alla pioggia illuminano magicamente l'ambiente, popolato da giganteschi alberi che si direbbero millenari.

 

 

 

 

 

 

Magicamente, dalla nebbia che si leva dal sottobosco, emerge la sfilata nuziale delle volpi, accompagnata dal suono di cimbali e tamburi, muovendosi lentissima, ieratica.

Io assiste incantato, nascosto dietro un albero, trattenendo il fiato per la sorpresa, per l'emozione, per il timore.

 

 

 

 

I gesti degli spiriti sono legati ad una logica che non può essere colta dagli esseri umani.

Il loro incedere solenne e ritmato lascia intendere che non si curino più di tanto di ogni cosa a loro estranea, ivi compresi gli esseri umani.

 

 

 

 

 

Preceduta da due portatori di lanterna in testa al corteo la coppia nuziale: lei indossa un immacolato abito bianco, lui un haori e il seguito il kamishino con le caratteristiche spalline, l'abito di gala della classe samurai.

Impassibile ed impermeabile ad ogni emozione, sembra essere intervenuta per officiare un mistero impenetrabile di cui è semplice esecutore.

Ogni coinvolgimento umano appare estraneo alla  natura di questi spiriti.

 

 

Eppure, ritmicamente e all'unisono, in sincronia con un apparente segnale dei suoni rituali che li accompagna, officianti e seguito si volgono di scatto e si guardano dintorno rimanendo pietrificati.

Come se qualcosa della natura sospettosa dell'animale selvatico fosse rimasto nonostante tutto in questi spiriti-volpi. Ma poi, come se nulla fosse successo, si ricompongono riprendendo ogni volta il loro misterioso cammino.

 

 

Io-Kurosawa torna a casa: nell'aria c'è quella luce particolare che viene dopo la pioggia, quando tutto sembra più pulito.

La madre lo attende, preoccupata: una volpe è venuta da lei, e le ha comunicato che Io ha violato l'incantesimo, assistendo nel bosco alla cerimonia.

Nonostante tutto, le volpi si sono veramente accorte di lui.

 

 

Il loro messaggero ha lasciato un pugnale inguainato nella shirasaya, il fodero di legno chiaro che si utilizza nella cerimonia del seppuku, per non imbrattare col sangue la montatura da battaglia.

E' per Io: dovrà darsi la morte con quell'arma, per espiare la sua colpa. Una sola possibilità gli rimane per sfuggire al castigo: cercare le volpi, che in questo giorno si riuniscono là dove nasce l'arcobaleno, e chiedere loro perdono.

 

 

Non è detto che lo accordino, è anzi estremamente raro che questo avvenga, ma è l' unica possibilità che gli rimane.

La madre non può accogliere dentro casa chi ha violato i misteri degli spiriti del bosco.

Con la morte nel cuore, deve mandarlo via e chiudere la porta alle sue spalle.

 

 

 

Io tenta invano di riaprire la pesante porta. Un' altra di quelle lugubri porte fermamente serrate che appaiono tanto spesso nelle opere di Kurosawa.

Deve allontanarsi alla ricerca dell'arcobaleno, stringendo nel pugno l'arma che in caso di insuccesso porrà fine alla sua vita.

 

 

 

 

 

Il bosco sembra aver gioito della pioggia, ed anche della cerimonia nuziale.

Io attraversa, sempre col pugnale stretto nel pugno, radure meravigliosamente fiorite di una immensità di colori.

 

 

 

 

 

Giunto al limite del bosco si ritrova in un grande altipiano circondato dai monti, anche esso cosparso di fiori per ogni dove.

In fondo, l'arcobaleno; e, ben visibili, i due estremi dell' arco, là dove esso ha origine e dove Io potrà chiedere perdono agli spiriti volpe.

E' intimorito, eppure attratto.

Sembra  l'inizio di una avventura pericolosa, eppure meravigliosa; prende il coraggio a due mani e si incammina in mezzo ai fiori, verso l'arcobaleno.


Io (Mitsunori Isaki) pochi anni dopo sta portando un vassoio alla sorella maggiore, radunata assieme ad altre bambine per l'Hina Matsuri.

E' la festa riservata alle bambine e si tiene il 3 marzo.

In quella occasione vengono esposte delle splendide bambole - per questo si parla di festa della bambole ossia hina matsuri - esposte sopra un ripiano a scalini rivestito di rosso.

 

 

Rappresentano l'imperatore e l'imperatrice, abbigliati in fastosi costumi dell' epoca Heian (794-1195).

Sono attorniati da esponenti dell'aristocrazia e soprattutto dai musicanti che nelle occasioni prestabilite eseguivano la musica di corte detta gagaku (musica elegante).

 

 

 

 

Io rimane affascinato a fissare le bambole, che venivano custodite gelosamente per tutto l'anno ed esposte solamente in questa occasione.

La sorella lo richiama all'ordine: come mai ha portato vivande per sei quando lei e le ospiti sono solamente cinque?

Eppure Io è assolutamente sicuro di avere visto un'altra persona.

 

 

 

Quando sta per andarrsene la vede all'improvviso nell'altra stanza.

Richiama su quella figura l'attenzione della sorella, ma si accorge con grande stupore di essere l'unico a vederla.

 

 

 

 

 

 

Rinunciando a tentare una spiegazione, va incontro alla bambina sconosciuta.

Ma costei si allontana ogni volta che lui si avvicina e scompare d'improvviso, salvo riapparire poco più in là come se volesse aspettarlo.

E' oramai uscita dalla casa, ed Io non riesce a trattenere l'impulso di correrle appresso, seguendola fino ad una oscura foresta di bambu.

 

 

 

Uscito dalla foresta Io si ritrova ai piedi di un pendio diviso in ripiani. La bambina scompare, come se il suo compito fosse terminato.

Gli appaiono allora, ordinatamente disposti lungo i gradoni, ma sullo sfondo verde dell'erba e non sul rosso del tappeto, gli esponenti di una Corte Imperiale.

I loro costumi sono ancora più magnificenti di quelli che Io ha appena visto, i loro atteggiamenti ancora più maestosi.

 

Ma irati. Sdegnati.

I dignitari, che recano come insegne delle loro funzioni degli strumenti agricoli, aggrediscono verbalmente Io. Loro sono gli spiriti del pesco, e nella casa di Io i peschi sono stati appena abbattuti per far posto ad altri alberi più redditizi.

 

 

 

 

Io respinge in lagrime l'accusa: non è stato certamente lui a tagliare ed estirpare i peschi sstituendoli con altri alberi, ne ha anzi sofferto molto.

Certamente ci sono frutti che rendono di più, ma cosa c'è di più bello dei fiori del pesco?

Cosa c'è di più importante al mondo di un fiore?

 

 

 

I cortigiani si rivolgono verso l'imperatore del pesco.

Attendono un suo cenno.

 

 

 

 

 

 

 

L'appassionata autodifesa di Io ha mosso il suo cuore. Sì, anche gli Imperatori del Pesco e la sua Imperatrice hanno un cuore.

Come potrebbero altrimenti dare vita e regnare sopra tanta bellezza?

L'assenso della coppia imperiale libera, sprigiona, le energie di tutti i cortigiani.

 

 

 

I musicisti afferrano i loro preziosi strumenti ed una musica antica, arcana, inizia a diffondersi nell'aria.

Le danzatrici seguono il ritmo all'unisono, con gesti misurati e solenni.

 

 

 

 

 

Una nuvola di fiori di pesco inizia ad avvolgere la corte schierata, coprendo anche Io con une surreale nevicata.

 

 

 

 

 

 

 

Quando la musica tace, accanto al bambino stupito è spuntato un piccolo alberello di pesco,  i cui rami sono coperti di fiori.


Una spedizione viene sorpresa da una tormenta di neve mentre sta cercando di raggiungere una importante vetta.

Le forze della natura sembrano scatenate, e gli uomini hanno ormai perso ogni punto di riferimento. Non sono sicuri del punto dove si trovano, e non credono al capo cordata - Io - quando assicura che non possono essere lontani dal bivacco.

 

 

Non sanno più nemmeno se è ancora giorno ed è la tormenta ad offuscare la luce del sole, o se è sopraggiunta le notte che li coprirà di un gelido abbraccio mortale.

Hanno perso ogni capacità di reazione ed attendono solo di abbandonarsi al destino, di accogliere questo abbraccio.

 

 

 

 

Io li esorta a non lasciarsi andare, anche se sente che la loro fiducia sta venendo meno lui non può arrendersi.

In questo sogno, come anche in quello successivo - impostato in chiave tragica - Kurosawa affronta i timori e gli incubi legati inevitabilmente al ruolo di capo di ogni gruppo umano impegnato in una impresa comune.

 

 

 

Lasciatisi andare gli altri uomini là dove si trovavano, ricoperti già dalla neve, anche Io abbandona ogni speranza, e si lascia travolgere dalla tormenta.

 

 

 

 

 

 

La neve lo sta ricoprendo, quando una caldo mano lo fa ridesta. Una calda mano di donna.

Lo sta proteggendo con una impalpabile rete, che lo preserverà dalla gelida morte.

 

 

 

 

 

 

Ha lunghi capelli sciolti, agitati dal vento.

Gli sorride e lo rassicura: la neve è calda...

 

 

 

 

 

 

 

 

Poi all'improvviso una raffica di vento più forte la porta via, e scompare in poco tempo nel cielo.

L'attrice che impersona la Fata delle nevi è Mieko Harada.

 

 

 

 

 

 

Io torna alla vita: lentamente la tormenta si sta placando.

Riesce a disseppellire gli altri membri della spedizione: anche loro sono salvi.

E la tenda di bivacco è proprio lì accanto: nonostante tutto era riuscito a portare i suoi uomini là dove era necessario portarli.

 

 

 

Il cielo si sta aprendo, tornano i colori.

Circondata da un incredibile azzurro, la bianca cima attende impassibile la sfida degli uomini.


Io, rivestito di consunti abiti militari, cammina sul fare della sera, verso l'imboccatura di un tunnel, seguendo una strada deserta.

L'attore è Akira Terao, che sostiene la parte di Kurosawa adulto.

 

 

 

 

 

Dal tunnel arriva un feroce abbaiare, intervallato da un ringhiare altrettanto minaccioso.

Ne emerge finalmente un grosso cane, irsuto e con delle cartuccere legate sul dorso.

Evidentemente un cane militare, incaricato di portare munizioni attraverso le linee, forse anche destinato a missioni suicide carico di esplosivo.

La luce rossa del fanale alla testata del tunnel lo illumina rendendolo ancora più sinistro.

 

 

Io mantiene a stento il suo sangue freddo, e rimane immobile finché il cane si calma, entrando poi nel tunnel.

Un tunnel probabilmente allegorico, alla fine del quale tornerà a vedere la luce, tornerà alla vita dopo gli anni terribili della guerra.

Kurosawa non partecipò direttamente alla guerra, era ritenuta più importante per lo sforzo bellico la sua opera come sceneggiatore e regista, ma in qualche modo sentiva di esserne rimasto pesantemente coinvolto, e di essersi assunto responsabilità nei confronti di altri uomini. Indossa infatti una divisa da ufficiale.

 

Io una volta entrato nel tunnel, che deve necessariamente attraversare, non si sente a suo agio.

Man mano che si inoltra nel buio il rumore dei suoi passi diventa ossessionante.

 

 

 

 

 

E' finalmente uscito dal tunnel, ma un rumore alle sue spalle lo inquieta, lo obbliga a voltarsi.

Sono i passi di qualcuno che si sta avvicinando.

Di qualcuno che marcia con passo cadenzato, come un soldato.

 

 

 

 

 

Una figura spettrale appare all'uscita del tunnel. Io lo riconosce, è il soldato Noguchi,

E Noguchi riconosce lui, il suo capitano.

 

 

 

 

 

 

 

Io ha l'ingrato compito di convincere Noguchi (Yoshitaka Zushi). Purtroppo non ci sono stati errori, è tutto tragicamente vero: Noguchi è morto in battaglia, tra le braccia di Io.

Non può tornare su questa terra, deve tornare là da dove è venuto.

 

 

 

 

 

Noguchi non si dà pace.

Non è possibile, è talmente vicino a casa da vederne la luce giù nella vallata.

Non può tornare indietro proprio ora che è così vicino a casa.

 

 

 

 

 

Ma deve cedere alle insistenze di Io.

I due si salutano militarmente e Noguchi torna nel mondo delle tenebre.

 

 

 

 

 

 

 

Ma non è finita: dal tunnel, dove si erano affievoliti man mano i passi di Noguchi, arrivano ora i passi cadenzati di un gruppo di uomini in marcia.

E si avvicinano sempre di più.

 

 

 

 

 

 

Dal tunnel sbucano infine, perfettamente inquadrati ed in assetto di guerra, dietro al comandante in seconda, i soldati della terza compagnia che fu ai comandi di Io.

Anche loro, tornando a mettersi agli ordini del loro capitano, chiedono esplicitamente di tornare su questa terra.

 

 

 

 

Io non ha parole per scusarsi: la compagnia ai suoi ordini è stata annientata durante una azione di guerra, ma lui non ha potuto seguirli ed è stato fatto prigioniero.

Si scusa per averli lasciati soli, ma non è in suo potere farli tornare in vita. Anche loro devono tornare indietro.

Solamente trasformando l'esortazione in un secco ordine Io riesce a farsi dare ascolto.

 

 

Sempre perfettamente inquadrata, la terza compagnia effettua il dietrofront e rientra nel tunnel ove scompare poco a poco.

I loro passi continuano a risuonare a lungo, ed Io rimane immobile nel saluto.

 

 

 

 

 

 

Ma non è ancora finita: l'orrido cagnaccio che si era già fatto avanti all'ingresso del tunnel è tornato.

E'  destino che Io non possa ancora trovare la pace.


Io si trova in un museo. Probabilmente il Museo Van Gogh di Amsterdam, dove sono esposti la maggior parte dei capolavori del maestro dell'impressionismo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Uno in particolare colpisce la sua attenzione.

Si tratta della tela che raffigura un campo di grano illuminato dal sole, su cui vola uno stormo di corvi.

 

 

 

 

 

 

 

 

Un altro ancora lo attrae, al punto tale che sente il bisogno, e non se ne capirebbe il motivo dentro ad un museo, di mettersi in testa il famoso berrettino "alla Kurosawa".

Questo gesto apparentemente illogico aiuta però lo spettatore attento a decifrare una serie di messaggi che il regista gli manda.

Kurosawa ha iniziato la carriera artistica come pittore, e ha accarezzato a lungo l'idea di farne la sua ragione di vita.

Vediamo infatti che Io ha sottobraccio l'armamentario del pittore: un cavalletto ripiegato, un paio di involti che devono contenere una tela,  la tavolozza, pennelli e colori.

 

Io viene magicamente attirato dentro la tela, e si ritrova senza stupirsene sul greto del fiume, accanto al ponte raffigurato da Van Gogh.

Chiedere alle lavandaie dove possa trovare il pittore è tuttuno. Non sanno dargli una risposta precisa, può essere dovunque ma comunque non lontano: starà dipingendo nei campi come sempre.

 

 

 

 

Correndo a perdifiato alla ricerca di Van Gogh rimane immerso nella incantata atmosfera dei quadri dell'artista.

Tutto gli parla di lui.

 

 

 

 

 

 

 

Finalmente lo vede: come le donne avevano facilmente immaginato, dimentico di tutto è occupato a dipingere.

Un puntino appena visibile, in un grande campo assolato ed arato di fresco

 

 

 

 

 

 

Io si avvicina di corsa.

Ma arrivato vicino al pittore lo coglie un forte timore reverenziale, e riesce appena a farfugliare qualcosa.

 

 

 

 

 

 

 

Van Gogh è interpretato, con grande realismo e con altrettanto umorismo, dal regista Martin Scorsese.

Fu lui, assieme al produttore Steven Spielberg, a permettere la realizzazione delle ultime opere di Kurosawa, di cui era fervente ammiratore, a partire da Kagemusha.

Qui le parti si invertono, ed è Io-Kurosawa ad essere in adorante ammirazione di Van Gogh-Scorsese.

 

 

 

Che non ha alcun timore o riserbo. Scodella senza complimenti all'estasiato Io le sue idee sulla vita e sull'arte, lamentandosi della impossibilità di trattenere le molte idee che gli affiorano alla mente per trasporle sulla tela.

Nella sua breve vita Van Gogh ebbe modo di lasciare oltre 2000 tra dipinti e disegni.

La benda? Nulla di grave, si è tagliato un orecchio infastidito dalla difficoltà di riprodurlo nell'autoritratto, e ha così risolto il problema.

Sappiamo invece che nella realtà Van Gogh si mutilò dopo un litigio con l'amico Paul Gauguin, e che questo suo gesto autolesionista doveva essere il preludio degli ultimi terribili anni ed infine del suicidio.

Non possiamo tacere che la figura di Van Gogh deve avere esercitato anche un sinistro fascino su Kurosawa, il cui fratello maggiore morì suicida e che tentò a sua volta il suicidio dopo il fiasco di Barbarossa che sembrò stroncargli senza speranze una carriera fino ad allora sfolgorante.

E concluso il suo sermoncino Van Gogh lascia perdere lo scodinzolante Io e si dirige altrove, là dove lo porterà l'ispirazione.

 

Io cerca di ritrovarlo, ma fosse per lui la ricerca sarebbe completamente vana.

Continua ad essere immerso nel mondo - reale quanto fantastico - di Van Gogh e non vorrebbe uscirne mai.

Si perderebbe volentieri per sempre a rimirare i paesaggi campestri trasfigurati dal genio dell'artista che sta percorrendo.

 

 

 

Ma ad un tratto lo vede.

Col suo passo frenetico, si era appena lamentato di essere sempre in pressione come una locomotiva, Van Gogh si sta allontanando.

Sta salendo su un campo di grano maturo, imbiondito dal sole, e tra poco sparirà oltre il dosso.

 

 

 

 

Io lo rincorre, ma si trova attorniato da uno stormo di corvi che arrivano a centinaia da tutte le parti.

 

 

 

 

 

 

 

 

E da lì, magicamente, così come magicamente ne era partito, si ritrova nelle sale del museo ad ammirare il quadro da cui è appena uscito

 


I due sogni che seguono, li diremmo piuttosto incubi, ci fanno ritornare allo sconfinato pessimismo di Kurosawa. Sono fortunatamente i più brevi degli otto, perché una eccessiva insistenza sul catastrofismo avrebbe compromesso probabilmente l'equilibrio dell' opera oltre che renderla meno accessibile.

Il berrettino di Io sarà stavolta nero, e viene da chiedersi se sia un caso.

Certamente anche Kurosawa rinunciava talvolta allo zucchetto bianco per metterne uno nero (la foto risale al 1951).

Chissà se anche dietro questo apparentemente innocente alternarsi di colori non ci sia stato qualche significato su cui meditare.

 

 

 

 

 

 

Una folla in preda al terrore fugge disordinatamente.

Io cerca di risalire la corrente del terrore per recarsi là da dove tutti fuggono e comprendere cosa avviene.

 

 

 

 

 

 

Si imbatte in una donna che sta cercando di mettere in salvo i suoi bambini  (Toshie Negishi).

E in un uomo che sembra sapere qualcosa su quello che sta succedendo (Hisahi Igawa).

 

 

 

 

 

 

Sullo sfondo della tragedia umana, appare la tragedia cosmica.

Il monte Fuji è avvolto da una sinistra ma affascinante luce rossa, e viene squassato da immani esplosioni.

 

 

 

 

 

Si direbbe sulle prime che la millenaria quiete del monte si sia ridestata per cause naturali, in seguito ad una eruzione, ma non è così.

Troppo strani ed inquietanti sono i sintomi della catastrofe, e lo sconosciuto ne sa qualcosa.

 

 

 

 

 

L'improvvisato gruppetto, continuando a fuggire in cerca della salvezza, è giunto ormai sulla riva del mare.

Ma nemmeno là sarà possibile salvarsi, dice lo sconosciuto: anche le acque marine sono inquinate fin nel profondo.

 

 

 

 

 

In realtà non solo ne sa più degli altri, sa praticamente tutto.

Non è una catastrofe naturale, sono le centrali atomiche di cui si è dotato il Giappone, incurante dei rischi che erano stati nascosti ad arte alla popolazione, che stanno esplodendo una ad una.

Le nuvole minacciose che si stanno addensando al livello del suolo non sono naturali nemmeno esse.

 

 

Gli scienziati hanno colorato ogni sostanza letale in modo differente, in modo da poterle distinguere.

Il tragico risultato è che l'umanità vede materialmente la morte che si avvicina, e sa dal colore di che atroce morte si tratta.

Il colore rosso che sta sommergendo la terra è dovuto al plutonio 239, una delle sostanze più tossiche che esista all'universo.

 

 

 

Lo sconosciuto è uno dei responsabili del programma nucleare. Non resiste al rimorso, e nemmeno se la sente di attendere inerme una morte spaventosa. Si getta in mare e scompare.

Io si affanna nell'inutile tentativo, puerile ma forse necessario - perchè l'uomo non è nato per abbandonarsi al destino senza combattere -  di proteggere se stesso, la donna e i bambini dalla nuvola tossica.

Agita frenetico la giacca nella vana speranza di disperdere la morte rossa.


Il mondo è devastato dalla catastrofe nucleare.

Lo sfondo è costituito da un ammasso di rovine che potrebbe essere una qualsiasi delle grandi metropoli del secolo XX.

L'olocausto nucleare era uno degli incubi ricorrenti di Kurosawa, che ne tratta in tre delle sue opere. In Vivere nella paura, che risale al 1955, in Dreams e nel successivo Rapsodia di agosto.

E' un incubo che Kurosawa ha condiviso con gran parte della popolazione giapponese della sua generazione, che ha conosciuto l'orrore delle deflagrazioni atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

Io si aggira a lungo in un paesaggio lunare, alla vana ricerca di un altro essere vivente.

Sembra essere il solo sopravvissuto sulla faccia della terra.

Il caratteristico berrettino non è stavolta bianco né nero: è in un indefinibile colore grigiastro, e viene da chiedersi se anche questo abbia un significato.

 

 

 

Improvvisamente, tra la foschia di un costone roccioso irto di rocce aguzze, incontra finalmente qualcuno.

L' uomo (Chosuke Igariya), vestito di stracci logori e penzolanti, è chiaramente timoroso, allarmato, ha l'atteggiamento di chi sta per prendere la fuga.

Ma infine si ferma, parla. Probabilmente anche lui si sente solo. Si presenta: è un demone.

 

 

Un demone debole e perseguitato, che appartiene alla miserabile casta dei demoni unicorni.

Solamente i demoni con due o tre corna appartengono all'aristocrazia, gli altri ne vengono oppressi senza alcuna pietà ed è per questo che lui ha deciso di esiliarsi dalla comunità.

 

 

 

 

La terra è stata distrutta da una catastrofica guerra nucleare, e la tempesta di missili non ha lasciato più niente come prima.

Il suolo è bruciato, appare dappertutto coperto da una spessa lava, eppure crescono nella desolazione dei fiori mostruosi.

Bocche di leone gigantesche, e strani fiori di rosa da cui spunta a sua volta una rosa, come le escrescenze crescono sulla fronte dei demoni

 

 

Ma nemmeno i demoni dominatori sono felici.

Le loro protuberanze crescono in continuazione causando loro atroci dolori cui non sanno reagire se non con altrettanto atroci lamenti.

Il demone solitario decide di accompagnare Io a prenderne visione di persona.

 

 

 

 

Dall'orlo di un cratere i due osservano quanto succede sotto di loro.

 

 

 

 

 

 

 

Una turba di demoni si aggira tra pozze di acqua sinistramente rossastra, piangendo ed urlando in continuazione.

Una scena che sembra tolta di peso dalle pagine della Divina Commedia di Dante Alighieri.

 

 

 

 

 

Ma improvvisamente anche il demone solitario diviene un demone piangente.

Anche la sua escrescenza sta causando indicibili dolori, e ha un irrefrenabile bisogno di sfogare la sua cattiveria.

Il suo atteggiamento diventa aggressivo.

Io si lancia a perdifiato giù per il dirupo della montagna, inseguito dal demone piangente.


Nel sogno conclusivo Kurosawa torna a portare una ventata di ottimismo, ad onta del berrettino nero inalberato da Io.

E a questo punto dovremmo probabilmente rassegnarci ad ammettere che il relativo colore non ha alcun significato.

Ma ci rifletteremo ancora

Io  passeggiando per la campagna si ritrova a varcare un ponticello che lo trasporta in un altro mondo, in un piccolo villaggio senza nome.

La prima sorpresa ad accoglierlo è stato lo strano cerimoniale cui attendono alcuni bambini, che deponevano dei fiori su una nuda roccia ai bordi del ponticello.

Le sorprese continuano, all'interno del villaggio senza nome.

Perlomeno per i suoi abitanti, perché nei villaggi vicini lo chiamano "il paese dei mulini ad acqua".

E' un paese immerso nel passato, dove sembra che la "civiltà" non sia riuscita ad imporre le sue deformità, dove tutto sembra a misura d'uomo, in quanto armoniosamente immerso nella natura.

 

 

 

Sarà il vecchio del villaggio (Chishu Ryu) a spiegargli la filosofia del posto.

Sta lavorando alla manutenzione della grande ruota di uno dei mulini, e se non si alza per ricevere il viandante non è per scortesia.

E' evidente che lui si trova al suo posto, intento alle sue cose, è  casomai il viandante ad avere bisogno di qualcosa, che nemmeno lui saprebbe definire.

 

 

Il vecchio è portatore di una saggezza senza tempo, passata con naturalezza a lui da quanti lo precedettero, e che non ha alcuna difficoltà a trasmettere a chi viene dopo di lui.

Ammesso che abbia gli strumenti per comprenderla e porla in atto.

 

 

 

 

 

Io ascolta affascinato.

Nel villaggio dei mulini ad acqua nessuno cerca la felicità: l'hanno già trovata.

Vivono e muioiono seguendo i ritmi della natura, avendo rinunciato da tempo a seguire quelli del progresso.

Oguno vive il tempo che gli è concesso, e quando è il momento andrà via senza rimpianti.

 

 

 

Andrà via come l'acqua scorre nel torrente, senza mai poter tornare indietro.

Il mulino tuttavia, fermo al suo posto, trae da quell'acqua il movimento e la ragione di essere.

 

 

 

 

 

 

I compaesani gli daranno l'addio senza lagrime, con una festa.

Il vecchio si sta appunto vestendo per una di queste feste.

Si sarà l'addio ad una donna che ha vissuto serenamente i suoi 99 anni. Con una punta di nostalgia indolore il vecchio ricorda di avere amato quella donna, e di aver avuto il cuore spezzato quando lei decise di sposare un altro.

 

 

Quanto a lui,  ha adesso 103 anni.

Ed è naturalmente proprio lui, l'anziano a guidare con passo lento ed incerto eppure sicuro il festoso corteo.

Dietro di lui i bambini, i due estremi delle età che si cercano così spesso l'un l'altro e che qui stanno assieme quasi per legge oltre che per consuetudine.

 

 

 

La bara è avvolta in un drappo multicolore, accompagnata da una musica festosa, e i volti dei partecipanti alla processione sono sereni.

 

 

 

 

 

 

 

E' giunta l'ora di abbandonare, non senza rimpianto, il paese dei mulini ad acqua.

Il vecchio ha spiegato ad Io anche la ragione della cerimonia dei fiori. Lì sotto giace il corpo di uno straniero, giunto chissà da dove fino alle porte del paese, solo per morirvi.

Lo hanno sepolto lì, e da allora usano deporre in continuazione dei fiori per lui.

 

 

 

Naturalmente anche Io ha sentito il bisogno di rendere omaggio allo sconosciuto viandante del passato.

Riprende poi il ponticello, e ritorna nel mondo.

Terminano qui i Sogni di Akira Kurosawa.

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