Miti, leggende, eroi
Seppuku. Alias Harakiri
Article Index
Seppuku alias Harakiri – Harakiri alias Seppuku
Una pratica samurai d’altri tempi (ma non tanto)
“ ... Dov’è finito lo spirito dei samurai!? ... E’ bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? ... Non c’è nessuno tra voi che desideri morire per sbattere il proprio corpo contro quella Costituzione che ha evirato il Giappone? ... Se c’è, che sorga e muoia con noi! Abbiamo intrapreso questa azione spinti dall’ardente desiderio che voi, che avete uno spirito puro, possiate tornare ad essere veri uomini, veri samurai! ...“
(dalle ultime parole di Yukio Mishima, suicida per seppuku il 25 Novembre 1970)
Scritto da Michelangelo Stillante
In Giappone la morte viene indicata con vari termini:
- yamagakuru = ritirarsi sulla montagna
- kumogakuru= sparire nelle nuvole
- iwatagakuru= addentrarsi nella grotta
Comunque si voglia indicare la morte, il seppuku è argomento intrinsecamente legato alla cultura del paese del Sol Levante, caso esemplare della cultura samurai, nato e cresciuto in Giappone, sviluppatosi e diffusosi in nessuna altra parte nel mondo se non, da nord a sud, nell’arcipelago nipponico.
Le radici culturali
Cominciamo dal suo significato: seppuku viene scritto con i caratteri kanji 切腹 e significa orientativamente tagliare il ventre, sventrare. Talvolta viene anche indicato con il termine harakiri 腹切りche ha lo stesso significato. Seppuku è un termine principalmente usato nella letteratura accademica, quindi quando si vuole dare spessore culturale alla discussione, parlata o scritta, in cui viene usato. Harakiri - stesso significato - viene scritto con gli stessi kanji ma in ordine inverso e con l’aggiunta di una delle particelle chiamate okurigana (ri, ta, ru, e così via....), usate spesso nella lingua giapponese quando si vuole forzare la lettura di termini cinesi con inclinazione giapponese, la cosidetta lettura kun. Il termine harakiri è usato principalmente nella lingua parlata ma lo si ritiene sconveniente. Per rendere piu’ percebile la differenza possiamo pensare anche a quando si usa il latino in situazioni accademiche, istituzionali o per così dire “acculturate” invece dell’italiano, per dare importanza o asetticità alla citazione.
La radice di tale pratica va ricercata nel profondo senso dell’onore presente nella cultura nipponica e le cause scatenanti del rituale sono fondamentalmente due: il disonore percepito dalla persona che decide di togliersi la vita o l'imposizione da parte dell'autorità. Ci sono anche stati più rari casi di harakiri avvenuti in seguito alla morte del signore del proprio feudo, quindi non per disonore percepito ma per onorare il proprio signore; viene denominato in tal caso con le parole oibara o tsuifuku, a seconda che lo si voglia leggere alla maniera giapponese o cinese. Casi infine di seppuku autoinflitti per protesta contro le decisioni del proprio signore, quindi disonore sopraggiunto per aver contestato l'autorità, da cui la decisione di commettere suicidio salvando l’onore.
Se è vero com’è vero che il disonore viene percepito in maniera diversa da persona a persona e quindi diverse cause scatenano il suicidio, altrettanto varie possono essere le cause quando imposto per autorità: sanzione per offese gravi, delitti contro lo stato o la legge, oppure risoluzione politica di controversie o ancora mezzo per raggiungere la pace dopo una guerra. Un esempio famoso è quello di Toyotomi Hideyoshi che impose il suicidio a Hojo Ujimasa e suo figlio Ujinao dopo aver vinto la battaglia di Odawara nel 1590, al fine di indebolire il potente clan Hojo in maniera definitiva. Ma è evidente che poteva capitare per i motivi piu’ diversi, magari solo per ribadire la propria autorità.
Va sottolineato che tale pratica faceva sì parte della cultura nipponica ed era diffusa, ma solo tra la casta dei samurai, non tra le persone comuni. Tuttavia il samurai, se colpito dal disonore, doveva chiedere il permesso al proprio signore per commettere suicidio, a meno che non fosse in battaglia e si volesse togliere la vita per non cadere in mano al nemico.
Per i giapponesi, l’anima ha/aveva sede nel ventre, circa quattro dita sotto l’ombelico. Questo giustifica il modo in cui il rituale del seppuku ha il suo apice: un taglio profondo nel ventre, sotto l’ombelico eseguito da sinistra a destra, mentre ci si trova in seiza, forzando così il corpo a cadere in avanti conservando l’onorabilità del guerriero. Il suicidio, l’auto-determinazione, o jiketsu, attraverso il taglio del ventre, sede dell’anima, delle emozioni, dell’essenza dell’uomo, aveva lo scopo di rivelare chiaramente, a tutti, l’onorabilità dell’essere umano che lo eseguiva, liberandone l’anima e conservando così il rispetto degli altri per la sua vita, le sue azioni e il suo ultimo atto.
Essendo il Giappone una società alimentata e sviluppatasi sulle orme dello scintoismo e del buddismo e taoismo provenienti dalla Cina, il seppuku veniva visto come un semplice e onorevole modo per morire, null’altro che un semplice tassello nell’infinito ciclo della vita: per il buddismo infatti la morte non è null’altro che il passaggio da una forma di vita all’altra. Non promettendo una vita dopo la morte e non vietando il suicidio, il buddismo aiutò moltissimo la diffusione del harakiri; non temendo la morte, la pratica del seppuku veniva perseguita per mantenere l’integrità dell’individuo, preferendo la morte ad una vita poco onorevole come avrebbe potuto essere quella del ronin, un samurai che non aveva più un padrone o da questi reso reietto o che non lo avesse seguito nel cammino con la morte. Come si vede una visione completamente opposta a quello che il cristianesimo proclama. Se poi si tiene conto che si sviluppò tra la casta dei guerrieri samurai, governata dalle regole del bushido, possiamo comprendere come e perché il seppuku fosse così osservato e rispettato.
Il libro Hagakure (1716), versione scritta del codice del bushido, o via del guerriero, così come fu trasmesso da Yamamoto Tsunetomo a Tashiro Tsuramoto che gli fece visita nei primi anni del 1700, riporta l’essenza del samurai: “ L'essenza del bushido, della via/vita del samurai è la morte; mattina e sera, in ogni momento della giornata il samurai si prepara alla morte. Quando un samurai è sempre pronto a morire padroneggia la via.” Yamamoto Tsunetomo (1659 – 1719) (più informazioni disponibili qui).
Volontario o imposto che il seppuku fosse, non necessariamente l’atto assolveva al mantenimento dell’onore del suicida o della propria famiglia. Si poteva assistere, in porporzione alla gravità dell’accaduto, alla confisca in tutto o in parte dei beni, alla degradazione del rango della famiglia, alla vendita dei suoi membri come servitù o anche alla loro esecuzione capitale.
Le radici storiche: periodo pre-Edo e Edo
Possiamo inquadrare la nascita e l’evoluzione del suicidio nipponico nel periodo che va dal XII secolo fino all’inizio del periodo Edo (1603-1868), quando se ne definirono “gli standard e le procedure”. Infine dopo il periodo Edo, poco dopo l’inizio della restaurazione Meiji, venne abolito nel 1873 come pratica “governativa” e rimase un episodio su base “volontaria”.
Essendo una pratica indissolubilmente legata alla casta dei samurai è solo nel tardo periodo Heian (794-1185) e l’inizio del periodo Kamakura (1185-1333), allorquando la casta dei samurai conosce l’ascesa, che molto probabilmente il rituale suicida si affaccia alle cronache. Nel periodo delle grandi guerre infatti il potere militare conosce un’affermazione presso la corte imperiale come indispensabile arma di controllo del territorio e dell’economia.
Ma sarà solo nel periodo Edo (1603-1868), governato dallo shogunato Tokugawa, che il suicidio ritualizzato conoscerà una standardizzazione con regole e procedure, un vero e proprio protocollo. Il rituale del seppuku non è infatti stato sempre lo stesso. Da quando si ha la notizia del primo rituale avvenuto - Minamoto no Tametomo 1139–1170 la pratica si è affermata ma venendo cambiata, ridefinita e “regolarizzata” almeno due volte. In realtà Minamoto no Tametomo sembra sia stato il primo ma non se ne hanno notizie certe e scritte. Il primo di cui si ha una documentazione scritta è Minamoto no Yorimasa, dieci anni piu’ tardi (1180).
«Come un vecchio albero
da cui non si raccolgono i fiori
triste è stata la mia vita
destinata a non portare alcun frutto»
Minamoto no Yorimasa (1180 d.C.), poema d’addio o jisei
Prima dello shogunato Tokugawa, o periodo Edo, il rituale del seppuku vedeva coinvolto solo il suicida il quale preparatosi e messosi in ginocchio, seiza, apriva il vestiario e dopo aver individuato il punto preciso in cui effettuare l’incisione, s’infilzava il ventre introducendo la lama di un tantō (una lama corta, 20-30 cm di lunghezza) nel ventre e aprendo la pancia da sinistra a destra. Se il taglio che viene effettuato è abbastanza profondo, si riesce a recidere l’aorta discendente e morire rapidamente per dissanguamento. Il tantō era parzialmente avvolto in un panno bianco in modo da non ferire la mano che lo avrebbe impugnato e non far perdere la presa nell’atto del taglio.
Sono riportati casi in cui il samurai sceglieva una forma molto piu’ dolorosa di harakiri: dopo aver inciso il vente da sinistra a destra, effettuava un secondo taglio verso l’alto, formado una L o una croce detto jūmonji giri (十文字り, "taglio a forma di 10, essendo il kanji d questo numero simile a una croce"), o si tagliavano la gola dopo aver inciso il ventre oppure si lasciavano cadere in avanti con la lama media, il wakizashi, puntata contro il petto: una morta rapida invece di una dolorosa e atroce in attesa della morte che sopraggiungeva dopo qualche minuto.
Rimanere in seiza, cadere in avanti con la faccia nel terreno, e non verso l'alto: tutto ciò veniva favorito poiché rappresentava un morire onorevole; era invece considerato disonorevole morire mostrando le inevitabili smorfie di dolore che l’atto del suicido provocava.
Il seppuku era praticato da soli ma spesso vi era un pubblico che assisteva all’estremo atto, ma si dovette aspettare il periodo Edo per avere un pubblico definito e previsto per protocollo.
Con il periodo Edo, la fase della grandi guerre terminò e il Giappone fu relativemante stabile per circa 250 anni sotto la guida del clan Tokugawa e dei suoi shogun. Il seppuku smise di essere conseguenza degli scontri armati e divenne principalmente un atto di protesta, d’autorità, d’onore, giudiziale, si strutturò e se ne fissarono regole, tempi e condizioni.
Il samurai che sceglieva di togliersi la vita, lo faceva davanti a spettatori. Prendere un bagno, indossare vestiario del colore bianco usato per le sepolture - chiamato shini-shōzoku - e infine un ultimo pasto erano i preliminari del rituale. Quindi per i più letterati, vi era la parte della composizione di un poema a testimoniare ragioni, speranze e integrità rispettate; ma questo avveniva già in epoche precedenti come visto per Minamoto no Yorimasa
Nel caso di suicidio programmato, non quindi in battaglia per non cadere in mano ai nemici, il suicida richiedeva la presenza di un assistente, un “secondo” che lo aiutasse nella sua azione, che poteva essere un amico ma anche una persona per il quale provasse profondo rispetto.
Fece la sua comparsa durante questo periodo il kaishakunin (介錯人), o anche il “decapitatore”, una delle tante figure di suicidio assistito proposte dalle civiltà del passato. Fondamentale figura a cui era richiesto un compito di altissima precisione, che non rendeva fama o gloria ma era considerato un gravoso impegno e spesso una anticipazione di malaugurio.
Yamamoto Tsunemoto, nel Hagakure fa riportare infatti che : “ Da secoli è stato considerato un malaugurio dal samurai che viene richiesto come kaishakunin. La ragione di ciò è che non si guadagna fama anche se il lavoro è ben fatto. Inoltre, se uno dovesse sbagliare, rimane una vergogna per tutta la vita. Nella pratica dei tempi passati, c'erano casi in cui la testa volava via. Si diceva che fosse meglio tagliare lasciando un po 'di pelle rimasta in modo che non volasse via nella direzione degli ufficiali di verifica.”
Compito del kaishakunin era infatti quello di decapitare il suicida appena dopo questi avesse finito il taglio del ventre per evitare che la smorfia di dolore deturpasse l’atto del seppuku. Era un’azione che richiedeva una notevole dose di abilità. Un colpo netto che aveva il compito di recidere la colonna vertebrale e lasciare al suo posto la trachea, avendo cura di lasciare così metà collo intatto per permettere alla testa di rimanere al proprio posto mente il suicida cadeva in avanti. Un colpo netto in un solo “swing”: uno sbaglio nel taglio e il disonore sarebbe caduto anche su di lui.
Durante tutta la “procedura”, il kaishakunin rimaneva in piedi dietro il morituro, in silenzio e con la katana pronta ma in guardia bassa. Mentre il suicida si preparava anche il secondo si adeguava e nel momento immediatamente prima che il tantō toccasse il ventre questi era già con la katana in guardia alta, pronto per sferrare il suo colpo. Il rituale del seppuku prevede nei minimi particolari non solo i movimenti del suicida ma anche quelli del kaishakunin: il modo in cui deve sfoderare la katana, dove si deve collocare, come si deve muovere e così via. Terminato il suo compito e riposta la katana, il kaishakunin porgeva i suoi pensieri di rispetto genuflettendosi o inchinandosi per qualche secondo verso il morto.
Il seppuku al femminile
Alcuni si chiederanno: ma l’onore delle donne? Era una pratica tutta maschile? La risposta è: sì e no
Naturalmente vi erano anche donne samurai (così come ninja), ma la pratica del seppuku, come così come l’abbiamo narrata, come comunemente e solitamente si riscontrava, era tutta al maschile. Esiste però una versione femminile del seppuku chiamato jigai (自害), parola derivante dal verbo per suicidio: jisatsu (自殺), la fonte del nome è tuttavia incerta.
La sua pratica non era protocollata, standardizzata, regolarizzata come quella maschile. Avveniva principalmente in solitaria e avveniva anche per non divenire prigioniere evitando violenze e stupri, motivo per cui si perdeva l’onore preferendo passare quasi logicamente al jigai.
L’onore e la forma non erano prerogative solo al maschile e anche se il jigai non era protocollato, anche qui possiamo trovare che erano rispettate delle forme. Le donne che appartenenti a famiglie samurai, o mogli di samurai, commettevano suicidio tagliandosi la vena giugulare con un colpo secco, usando un piccolo tantō (kwaiken) di uso prevalentemente femminile. Anche qui lo scopo era raggiungere rapidamente la morte e nel modo piu’ dignitoso possibile A tal fine anche loro avevano previsto un espediente per non offrire uno spettacolo scomposto: si legavano le gambe mentre erano in posizione seiza. In questa maniera la morte sopraggiungeva prima di un movimento inappropriato dovuto alle convulsioni, e cadendo in avanti con la faccia nel terreno.
Il Periodo post-Edo
Come detto in precedenza, con il periodo dello shogunato Tokugawa, iniziato ad opera di Tokugawa Ieyasu (1543-1616), l’epoca delle grandi guerre cessò e il Giappone fu unificato e pacificato. La pratica del seppuku non fu più ufficialmente supportata e qui esiste una contraddizione visto che fu proprio in questo periodo che il seppuku conobbe la sua regolarizzazione. Per la precisione la pratica di seguire il proprio padrone commettendo suicidio volontario non fu più supportata, ma il seppuku imposto fu ancora largamente praticato (si veda l’episodio dei 47 ronin del 1710). La pratica del seppuku non fu infatti ufficialmente bandita, la responsabilità e le consequenze furono riportate a livello dei signori che non avevano vigilato con sufficiente solerzia, colpa che ricadeva anche sui figli e successori.
Nell’editto Buke Shohatto del 1663 fu infatti sentenziato come segue:
"Che l'abitudine di seguire un maestro nella morte sia sbagliata e non redditizia è una precauzione che a volte è stata data in passato; ma, a causa del fatto che non è stato effettivamente proibito, il numero di coloro che si tagliano il ventre per seguire il loro signore nella sua morte è diventato molto grande. Per il futuro, per quei servitori che potrebbero essere animati da tale idea, i loro rispettivi signori dovrebbero intimare, costantemente e in termini molto forti, la loro disapprovazione dell'usanza. Se, nonostante questo avvertimento, si dovesse verificare qualsiasi caso della pratica, si riterrà che il defunto signore abbia avuto la colpa per la mancanza di leggerezza. D'ora in poi, suo figlio e il suo successore saranno ritenuti colpevoli di incompetenza, poiché non hanno impedito i suicidi "
(traduzione dal giapponese forse imprecisa)
Prima del 1663 si era tentato di scoraggiare tale pratica anche con i decreti dello shogunato del 1603, 1629 e 1635. Tale decreto fu sostanzialmante riproposto negli anni successivi, nel 1683 e 1710, ma cambiando solo la forma e non la sostanza e come semplice richiamo burocratico.
La pratica continuò quindi senza troppi sconvolgimenti fino alla restaurazione Meiji e fu ufficialmente abolita nel 1868 dal governo imperiale. Lo shogunato Tokugawa infatti smise di essere il regolatore della società nipponica e l’ultimo shogun, Tokugawa Yoshinobu (1837-1913), rassegnò le dimissioni nel 1867 rimettendo il potere nelle mani dell’imperatore Mutsuhito (1852 - 1912).
Le ragioni che portarono a queste dimissioni e alla successiva guerra di Boshin (1868-1869) vanno oltre questo spazio, ma l’accaduto deve essere menzionato perché nel 1877 portarono Saigo Takamori (1828-1877) a commettere seppuku.
Saigo Takamori fu in un primo momento l’intransigente difensore del potere e della restaurazione imperiale che, a seguito delle dimissioni di Tokugawa Yoshinobu, chiese con insistenza che tutti i possedimenti e lo status della famiglia Tokugawa fossero confiscati, divenendo una delle cause dello scontro.
In seguito Takamori divenne uno dei piu’ agguerriti oppositori della restaurazione quando fu chiaro che questa non andava a favore del giappone nelle mani dell’imperatore ma veniva guidata da burocrati e corrotti ammaliatori del giovane Mutsuhito.
Dopo questo periodo non si hanno notabili comparse del suicidio assistito, imposto o volontario se non quella volontaria del generale Nogi Maresuke (1849–1912) e di sua moglie Nogi Shizuko (1859–1912) che commisero seppuku alla morte dell’imperatore Mutsuhito, riproponendo la tradizione samurai di seguire il proprio padrone nella morte, junshi (殉死). Nella sua lettera d’addio il generale chiese perdono per tutti i morti dell’assedio di Port Arthur (1904-1905) durante la guerra Russo-Giappones e per espiare donò anche il suo corpo alla scienza.
Il suicidio rituale, seppur non nella forma che abbiamo visto fino a questo momento, tornò prepotente, normale, presente e quotidiano durante la seconda guerra mondiale allorquando il Giappone imperialista si riaffacciò alle cronache mondiali con le speciali unità di attacco aereo denominate kamikaze (神風) o “vento divino”. Il Giappone, il suo imperatore, il desiderio della sconfitta del nemico a tutti i costi, fecero conoscere al mondo questa follia ufficializzata dove gli uomini in armi si suicidavano non con il tantō ma con gli aerei, schiantandosi contro gli obiettivi nemici, portando nell'aldilà il numero piu’ grande di nemici possibile.
Il rituale pre-suicidio esisteva anche qui, pronunciando il funerale prima di alzarsi in volo con i loro aerei, portando la fascia del giappone imperiale sulla testa.
Con il finire della Seconda Guerra Mondiale possiamo riportare due casi di seppuku sicuramente di primo piano per il ruolo ricoperto dagli autori:
- Korechika Anami (1887–1945), generale dell’esercito imperiale giapponese. Quando l’imperatore Hirohito ordinò la fine della guerra il 14 Agosto 1945, e dopo essere stato tentato a firmare contro il decreto imperiale, egli disse: "Come soldato giapponese, devo obbedire al mio imperatore”. Firmò il documento di resa e il giorno dopo si suicidò imponendosi il seppuku. Nel suo biglietto di addio scrisse: “Con la mia morte mi scuso umilmente con l’imperatore per il grande crimine”
- Takijirō Ōnishi (1891–1945) ammiraglio della flotta imperiale giapponese che divenne noto come il padre dei kamikaze. Si suicidò anche lui dopo la firma del decreto di resa del Giappone, il 16 Agosto. Nel suo biglietto di addio chiese scusa per aver mandato al suicidio più di 4000 piloti kamikaze, a loro e alle loro famiglie. Spronò i sopravvissuti all’impegno per la ricostruzione del Giappone e della pace e come ammenda per i suoi peccati rinunciò al kaishakunin.
Nulla o quasi a riguardo alla ribalta delle cronache in un Giappone ormai modernizzato. Ma due casi, tra tutti quelli sottotono e non conosciuti, sono sicuramente da riportare: Yukio Mishima e Isao Inokuma.
- Yukio Mishima (1925–1970), pseudonimo di Kimitake Hiraoka, scrittore giapponese, fu forse l’ultimo caso di un giapponese a commettere seppuku a seguito del contrasto provato nei confronti dell’occidentalizzazione del suo paese, inneggiando ai valori patriottici, allo spirito del Giappone e alla sua cultura, raggruppati nella figura dell’imperatore non come personaggio politico ma come collante del popolo giapponese.
Il 25 Novembre 1970, Yukio Mishima e i suoi quattro fedelissimi del gruppo Tate no Kai (楯の会 o 楯の會) occupò le sale del quartier generale del Ministero delle Forze di Auto-Difesa incoraggiando le forze armate ad un colpo di stato per ripristinare gli autentici valori della tradizione giapponese.
Dopo il discorso e il fallito colpo di stato, Mishima commise suicidio tramite seppuku nell’ufficio del generale Kanetoshi Mashita. Mishima aveva scelto come secondo, kaishakunin, Masakatsu Morita, ma questi fallì per ben due/tre (?) volte nel decapitare il suo maestro, nervoso forse per la giovane età o forse per il fatto che i due erano amanti (voci non confermate). Hiroyasu Koga, un ex professionista di Kendo e componente dell’associazione, intervenne e decapitò finalmente Mishima. Morita per la vergogna decise di commettere seppuku anchegli e il ruolo di kaishakunin fu questa volta di Koga.
Un altro caso ancora più recente deve essre menzionato.
- Isao Inokuma (1938–2001) sembra sia stato l’ultimo a commettere seppuku secondo i riti tradizionali.
Fu un famoso judoka giapponese e vinse l’oro nella sua categoria alle olimpiadi di Tokyo quando il Judo fece la sua prima comparsa alle olimpiadi grazie alla indefessa opera del suo fondatore Kanō Jigorō (嘉納 治五郎, 1860 –1938).
Dopo essere stato diversi anni campione di judo e membro delle forze di polizia, Isao si dimise e si unì ad una azienda di costruzioni pur continuando ad essere un membro di rilievo delle IJF (international Judo Federation), istruttore della Tokai Univeristy e coach del futuro campione di judo Yasuhiro Yamashita (ormai ritirato imbattuto e anch’egli istruttore alla Tokai University, IJF e All Japan Judo Federation).
Forse a causa di problemi economici della sua azienda Isao si suicidò nel 2001.
Casi di interesse storico
Altri casi fino a qui non menzionati o forse di sfuggita, e non considerando i suicidi di massa avvenuti nel tempo, sono i seguenti:
- Oda Nobunaga (1534–1582), il primo dei tre grandi unificatori del giappone con Toyotomi Hideyoshi e Tokugawa Ieyasu, commise seppuku per sottrarsi all'agguato tesogli da Akechi Mitsuhide, suo ex-fedelissimo, durante il cosidetto incidente di Honno-ji.
- Toyotomi Hidetsugu (1568–1595), nipote di Toyotomi Hideyoshi, fu accusato di atrocità e tentato colpo di stato. Gli fu imposto il seppuku pur essendo nipote del dittatore. Anche la sua famiglia intera compresi i bambini fu giustiziata. Questo fu anche un duro colpo al prestigio del clan Toyotomi, specialmene dopo la morte di Hideyoshi tre anni dopo (1598).
- 46 dei famosi 47 Ronin (1703) furono condannati a commettere seppuku dopo aver vendicato il proprio padrone Asano Naganori (1667 –1701) che commise a sua volta suicidio dopo aver ferito al volto , gravissima violazione dell'etichetta di corte, Kira Yoshinaka (1641 –1703) da cui era stato ripetutamente offeso. Anche se Asano ordinò ai suoi fedelissimi di non procedere con azioni di rappresaglia, questi, guidati da Oishi Kuranosuke (1659 –1703), aspettarono, pianificarono e misero in atto la vendetta dopo due anni dalla morte del loto padrone. Dopo essersi consegnati alle autorità, fu loro ordinato di commettere seppuku, ricevendo in tal modo l’onore che loro spettava visto che unanimamente si approvava la loro vendetta ma formalmente doveva essere condannata. Tutti ottemperarono e solo uno fu risparmiato, Kichiemon Terasaka (1747), per la sua giovanissima età, al quale fu imposto di scrivere della vicenda e tramandare il ricordo affinché nessuno dimenticasse. Alla sua morte fu anche lui sepolto presso Senkaku-ji, assieme ai suoi compagni.
(chi volesse approfondire la vicenda può leggere qui)
Il suicidio in Giappone oggi
Per quanto abolito, proibito e non più pratica di consuetudine, essendo stata abolita anche la casta dei samurai fin dal 1873 e interdetto il porto di katana, wakizashi e tantō, il seppuku è ancora visto come pratica di coraggio, onore e sacrificio.
Ma è ormai presente solo come retaggio culturale anche se il Giappone sembra sia la “nazione dei suicidi” (vedi anche qui ad esempio). Il suicidio tramite sventramento rappresenta una minima percentuale per lo più finendo in tentato suicidio, preferendosi oggigiorno altri modi più moderni per togliersi la vita (suicidio dai ponti o da palazzi, droghe, gas tossici, colpo alla tempia con pistole, ecc.) e per i piu’ svariati motivi (onore, amore, responsabilità, malattie mentali, troppo lavoro, disgrazie economiche o culturali, ecc.).
“La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”
(dal poema di morte di Yukio Mishima)
pubblicato il 20200906