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Akira Kurosawa: 1945 - Sugata Sanshiro II

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Akira Kurosawa: Sugata Sanshiro, Parte II (Zoku Sugata Sanshiro)

1945

Denjiro Okochi, Susumu Fujita, Ryunosuke Tsukigata, Kokuden Kodo, Yukiko Todoroki

 

Sugata Sanshiro fu un successo, così lo studio mi chiese di prepararne un seguito. Questo è uno dei punti negativi della mentalità commerciale: sembra che le sezioni intrattenimento delle case cinematografiche giapponesi non abbiano mai ascoltato il proverbio del pesce nel ruscello, sotto il salice piangente: il fatto di averlo preso una volta non significa poterlo prendere sempre. Questa gente rifa sempre i film che hanno avuto successo in passato.

Loro non tentanto di sognare nuovi sogni; vogliono solamente ripetere quelli vecchi.

Per quanto sia stato provato che un rifacimento non supera mai l'originale, insistono in questa follia. La definirei folia di primo grado. Un regista che dirige un rifacimento lo fa con tale deferenza verso il lavoro originale che è come se cucinasse qualcosa di strano con gli avanzi, ed il pubblico che deve mangiarsi questo intruglio si trova in una posizione poco invidiabile.

...

Sugata Sanshiro, Parte II, non fu un film molto buono. Tra le critiche ve ne fu una che diceva "Kurosawa sembra essere in qualche modo pieno di se". Al contrario, sento di essere stato incapace di metterci tutta la mia forza.

Akira Kurosawa, Something like an autobiography, p. 135 e 137

Citate queste parole di Akira Kurosawa, dobbiamo ricordare però che alla fine si lasciò convincere ed il seguito di Sugata Sanshiro ci fu, comprenderne le ragioni ed infine passare alla visione per farcene una nostra propria idea.

Kurosawa sostiene di essere rimasto particolarmente intrigato dalla possibilità di esplorare i sentimenti di Gennosuke Higaki, maturato dalla sconfitta subita contro Sanshiro ma costretto a riviverla una seconda volta attraverso l'impetuoso fatello Tesshin, più giovane e forse bisognoso di rivivere in prima persona le stesse esperienze, anche quando avvertito da chi già ci è passato che rimarranno inutili e negative.

Sanshiro verrà quindi sfidato ad un nuovo duello ad oltranza, per vendicare la sconfitta precedente. Fu questo interessante motivo psicologico che in definitiva spinse Kurosawa ad accettare la richiesta di dare un seguito alla sua fortunata opera di esordio.

Il duello finale si svolge ancora una volta in una impervia località di montagna, questa volta non sferzata dal vento ma sotto una coltre di neve, e Sanshiro deve ora affrontare l'arte del karate, con una piccola forzatura storica: il karate iniziò infatti a diffondersi in Giappone solamente a partire dal 1922 quando il maestro Gichin Funakoshi vi si trasferì dalla nativa Okinawa per insegnare seguendo il suo metodo, che venne chiamato Shotokan. La vicenda di Sugata Sanshiro II è ambientata nel 1887, questo confronto tra la scuola Shudokan (Kodokan nella realtà) e una scuola di karate pre-Shotokan è di conseguenza perlomeno improbabile.

Il leitmotif sul quale Kurosawa decise di impostare la nuova opera fu il brusco cambiamento nella società giapponese imposto dalla forzata convivenza con le forze di occupazione straniere.

Agli albori dell'epoca Meiji infatti, in cui è ambientata la vicenda di Sugata Sanshiro, ed esattamente nel 1853, il secolare isolamento del Giappone era stato forzato dall'arrivo di navi militari statunitensi, al comando dell'ammiraglio Perry, che imposero praticamente con la forza l'apertura delle frontiere. Negli anni successivi le maggiori potenze occidentali stabilirono numerose stazioni commerciali sul suolo giapponese. In passato una sola stazione era stata consentita, quella concordata con l'Olanda e basata sull'isola artificiale di Deshima in Osaka, con diritti di scambio molto limitati: in pratica una sola nave all'anno.

Inziiò quindi in epoca Meiji una forzata convivenza con gli stranieri e con i loro usi e costumi, essendo il Giappone dilaniato da un lungo periodo di guerre civili che vide dapprima le forze progressiste legate al governo dello shogun contro quelle tradizionaliste che appoggiavano l'imperatore (Meiji appunto) e quindi diviso ed impotente. In seguito lo stesso governo imperiale vennealle prese con i tradizionalisti intransigenti che a vittoria avvenuta si ribellarono anche contro il regime da loro sostenuto, reo di avere concesso troppo alle pretese degli stranieri violando il tacito patto con i suoi seguaci. In questa situazione confusa ebbero buon gioco le potenze straniere: munirono i loro insediamenti di forze militari e ne fecero delle enclavi in cui le leggi e le usanze giapponesi venivano stravolte. Inevitabilmente il 'contagio' si estendeva anche alle zone circostanti, poiché gli stranieri tendevano ad esportarvi le loro regole assumendo un atteggiamento di colonialistica sufficienza verso i 'nativi' e le loro 'primitive' usanze.

Nelle sequenze iniziali vediamo infatti arrivare un marinaio occidentale sopra un jinrikisha - leggero calessino a trazione umana introdotto a partire dal 1870 e da noi conosciuto come ricsiò e su cui avevamo già visto in Sugata Sanshiro il maestro Shogoro Yano.

Furente perché non riesce a farsi comprendere dal jinriki ha un arrivo traumatico e burlesco, agitandosi al punto da far ribaltare il calessino sotto il suo peso essendo il conducente di taglia molto più leggera, come la maggior parte dei giapponesi a confronto con l'occidentale medio.

Una trasparente metafora della seconda occupazione militare, che seguì la seconda guerra mondiale, e su cui Kurosawa tornerà regolarmente ad infierire nel corso del film. La vicenda inizia a Yokohama nel 1887, ossia circa 2 anni dopo le vicende narrate nel primo Sugata Sanshiro.

 


Va da se che i richiami alla 'prima puntata' sono molti e molto evidenti, ma Kurosawa pur ancora inesperto - era solamente al suo terzo film e aveva all'epoca appena 35 anni - già sapeva il fatto suo.

Le citazioni non sono solamente sciocche ripetizioni di situazioni già viste, ma guidano lo spettatore a comprendere che la storia, per quanto sia il seguito di quella precedente (nei titoli di testa si afferma che anche questa seconda parte è ricavata dal romanzo Sugata Sanshiro di Tsuneo Tomita), non è la stessa.

Il marinaio, irritato, è ben deciso a dare una sonora lezione all'innocente jinriki, e sembrerebbe poterlo fare senza difficoltà in quanto è d statura gigantesca e pronto a menare le mani.

Però la sua mano viene improvvisamente arrestata da un'altra, che possiede una energia superiore alla sua: è la mano di Sugata Sanshiro.

 

 

Non è più il Sanshiro irruento ed impaziente che conoscevamo.

Accetta di liquidare la questione per le spicce, il marinaio non aspetta altro e non cessa di invitarlo a battersi, ma sembra voler prendere tempo, tergiversare.

In realtà si guarda attorno e fa cenno di aspettare perché sta semplicemente cercando il luogo adatto per la 'discussione' col marinaio. Infine lo trova.

Se non è lo stesso luogo dove anni prima incontrò per la prima volta il maestro Yano, poco ci manca. E' sul bordo di un corso d'acqua dove potrà tranquillamente proiettare l'avversario con la sicurezza di non fargli troppo male, e il regista farà così ricordare allo spettatore la scena con cui Sanshiro iniziò la sua avventura nel mondo del judo.

 

 

Sempre seguito dal furente marinaio Sanshiro arriva sul bordo del molo, e attende che il suo avversario la raggiunga. Questi mostra nei movimenti di conoscere almeno i rudimenti del pugilato, ma le sue mosse sono lente e prevedibili. Sanshiro non ha alcuna difficoltà ad afferrarlo non appena si porta alla corta distanza, e proiettarlo in acqua con quello che sembra essere un classico kata guruma.

Dai titoli di testa leggiamo il nome del consigliere per il judo Kinnosuke Sato. Fu membro di diversi comitati negli anni 1920 e 30 e lo troviamo citato nelle memorie del maestro Kenshiro Abe: fu capitano della squadra dell'est in un torneo del 1936. Aveva all'epoca 39 anni ed il grado di 7. dan. Fu dopo la guerra protagonista di una famosa dimostrazione di judo organizzata dal Kodokan, probabilmente la prima ad essere autorizzata dopo il periodo bellico.

Viene riportato come consigliere per il karate Yasusuke (Yasuhiro) Konishi che si era unito ai corsi tenuti da Gichin Funakoshi nel 1924 alla Università di Keio ed è noto sopratutto per essere stato tra i primi ad adottare un metodo di allenamento che comprendesse anche il kumite (combattimento), oltre ai tradizionali kata (forme a solo).

Il jinriki si avvicina timidamente, pesto e malconcio, per ringraziare il provvidenziale soccorritore.

Il ragazzo rimane a bocca aperta sentendone il nome: Sugata. Sugata Sanshiro?!?....

Kurosawa ci informa così che il protagonista di questo seguito è ormai divenuto una persona ben nota, e sicuramente ben temuta.

Tutti ricordano della sua vittoria al torneo indetto dalla polizia, e tutti sanno che la sua tecnica favorita è lo yama arashi (tempesta sulla montagna) che gli diede la vittoria nel combattimento col maestro Murai (l'epilogo del primo film, Sanshiro Sugata)..

Essere riconosciuto ed ammirato non sembra destare grande piacere in Sanshiro.

Immediatamente prende congedo e si allontana, pensieroso.

 

 

Ne apprenderemo le ragioni subito dopo, in una conversazione a Tokyo tra Sayo, la ragazza che sembrava a lui destinata, ed il saggio prete Osho.

Murai, il padre di Sayo, non si è mai riavuto dalle conseguenze di quel combattimento, e poco tempo dopo è morto.

Sanshiro è da allora scomparso, senza lasciare alcuna notizia di se.

Il vecchio sapiente trova che la personalità di sanshiro per quanto complessa sia apprezzabile: la sua sincerità è assoluta pur confinando con la naïveté: non è capace di andare contro la sua stessa volontà.

Ed è per questo che lui lo ama sopra ogni altro.

 

 

 

 

 

All'udire queste parole Sayo sorride.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


In quello stesso momento, almeno questo lascia intendere Kurosawa, Sanshiro è invece pensieroso.

Il ragazzo lo ha seguito, e vuole diventare suo discepolo, per quanto stupito dalle parole di Sanshiro, che ricorda come la via del judo sia quella della flessibilità e dell'adattabilità, contando ben poco la forza.

Certamente: anche per campioni forti ed affermati come lui.

E anche la vittoria a volte può essere velata di tristezza. In ogni modo il judo non è un'arte che ammetta le mezze misure, e lui essendo un semplice discepolo non è in grado di insegnarla.

 

 

 

 

 

La conversazione viene interrotta dall'arrivo di un visitatore che manda in avanscoperta, come usano i giapponesi, il suo biglietto da visita: Kozo Nunobiki, traduttore preso il Consolato degli Stati Uniti.

E' un buffo ometto, per quanto vestito inappuntabilmente all'occidentale, e porta a Sanshiro alcune informazioni. Si trova in in Giappone per una tournée uno dei più famosi e rinomati pugli americani: William Lister.

Al pugile è arrivata la voce dell'episodio del jinrikisha e si rammarica che il marinaio non fosse ben addestrato nell'arte del pugilato.

Sanshiro non comprende dove voglia arrivare l'ometto, che deve fargli esplicitamente la sua proposta: un confronto tra il judo giapponese, rappresentato da Sanshiro, e il pugilato all'occidentale di cui Lister è campione indiscusso.

 

Nunobiki pensa che l'evento porterebbe senzaltro ad un incremento dei sentimenti di amicizia tra il Giappone e gli Stati Uniti.

Sanshiro però non ha alcuna idea di cosa sia il pugilato e rimane molto sulle sue.

Nonobiki non prende l'occasione per dimostrargli ipso facto, a spese della malcapitata inserviente, che cosa sia il pugilato. Un'arte di combattimento in cui si adoperano i pugni, fasciati da guantoni di cuoio, in cui vengono portati colpi terribili e i contendenti sanguinano copiosamente.

L'impressione che ne riporta Sanshiro non è positiva: uno spettacolo insomma: roba quindi che non fa per lui.

Le insistenze dell'altro non servono a smuoverlo dal suo proposito, il massimo che gli si riesce a strappare è di accettare l'invito alla dimostrazione che si terrà presso il Consolato.

 

 

Kurosawa indugia impietosamente sugli aspetti più deteriori della nobile arte.

La brutalità del combattimento.

Il volto devastato dai colpi del pugile sconfitto ed atterrato.

Quello deformato dallo sforzo, ma anche contagiato dalla brutalità dei gesti che compie abitudinariamente, del vincitore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma anche e soprattutto, visto che Sugata si trova in mezzo al pubblico e vi assiste attonito, la brutale esternazione di sentimenti assolutamente non nobili da parte del pubblico.

Le loro espressioni non hanno nulla di edificante, e la loro plateale soddisfazione nel vedere un uomo giacere a terra privo di sensi, abbattuto dai colpi di un altro uomo, sconcerta visibilmente Sanshiro Sugata.

Sta già per andarsene senza attendere il combattimento principale, e Nunobiki cerca di trattenerlo.

Sugata non vorrebbe sentire ragioni: lo spettacolo lo disgusta, si meraviglia anzi che venga offerto pubblicamente e impunemente ai cittadini americani, e domanda di porvi fine.

 

 

 

Rimarrà, suo malgrado.

Nel combattimento successivo vede infatti che i contendenti sono un occidentale di imponente corporatura sul cui accappatoio campeggia la scritta KILLER, William Lister, e un giapponese che indossa un logoro keikogi da allenamento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si presenta quando Sanshiro gli rivolge la parola: è Kahei Sekine, adepto della scuola Isshin ryu.

Invano Sanshiro lo prega di rinunciare al combattimento, il suo interlocutore non è in grado di comprenderne le ragioni.

Pensa infatti che Sanshiro sia preoccupato per una sua eventuale sconfitta e lo rassicura: non ha intenzione di essere vinto.

Non è il risultato che conta: per Sanshiro cimentarsi contro quella che non è e non sarà mai una arte marziale è un disonnore per il ju jutsu, a prescindere dall'esito del combattimento.

Presentatosi a sua volta, Sanshiro riceve una ulteriore spiegazione che lo getta in crisi: la vera ragione per cui Sekine accetta di battersi, è la mera sopravvivenza.

Il ju jutsu è stato sorpassato dal judo, anzi lui stesso è stato sorpassato da Sanshiro Sugata in persona. E gli adepti delle scuole vinte, come lui, non hanno più modo di guadagnarsi la vita.

Sanshiro si allontana pensieroso, risalendo con infinita lentezza la scala che sale verso l'uscita, immerso nei suoi pensieri.

E' arrivato alla porta, ne sta aprendo i battenti per uscire.

In quel momento ode il suono della campana che annuncia l'inizio del combattimento.

 

 


Sanshiro è tornato allo Shudokan.

In realtà il dojo di Jigoro Kano si chiamava Kodokan, sala (o edificio) per la pratica della via.

Il Kodokan esiste tuttora in Tokyo ma è diventato un grande complesso con una dojô di circa 1000 tatami. Il primo Kodokan era situato presso il tempio di Eisho-ji e contava solamente 12 tatami.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ll discepolo è ancora una volta di fronte al maestro: Shagoro Yano (Denjiro Okochi).

Un nome di fantasia che non tenta nemmeno di celare il personaggio storico: Jigoro Kano, fondatore del judo e grande innovatore, che trascinò col suo esempio le antiche scuole ancestrali e diede origine alle discipline marziali moderne.

Sanshiro Sugata è alle prese con una crisi di coscienza che sembra irreversibile. Ha accettato di essere detestato non solo dagli avversari ma anche dai loro discepoli, amici e parenti, per l'ideale dell'arte marziale.

Tuttavia le sue vittorie, se hanno accresciuto la fama del judo, hanno avuto effetti negativi sulle persone e le scuole sconfitte. Desidera quindi ritirarsi e dare le proprie dimissioni dal Kodokan.

Le fasi successive della vicenda tentano probabilmente di ipotizzare le ragioni del misterioso abbandono della pratica da parte di Shiro Saigo, il leggendario campione del Kodokan cui la saga di Sugata Sanshiro è ispirata.

Le vicende successive di Saigo, che abbandonò il Kodokan nel 1890, all'età di 24 anni, e scomparve nel 1922, ci sono sconosciute. Non sembrano trovare fondamento le ipotesi che abbia praticato in seguito l'arte del daito-ryu apprendendola dal maestro Sokaku Takeda, che fu anche maestro di Morihei Ueshiba, fondatore dell'aikido. E' verosimile che Tsuneo Tomita nel romanzo che ha ispirato le due opere di Kurosawa abbia utilizzato informazioni di prima mano, ma il suo racconto si arresta prima.

Yano chiede al suo discepolo se questi tormenti sono tutto quello che ha riportato con se dal suo viaggio, durato due anni. E' tutto.

Il maestro confessa di aver nutrito anche lui i dubbi che tormentano Sugata, e di avvertire tuttora gli stessi sentimenti, ma di averli fondamentalmente metabolizzati: solo il combattimento può portare ad una vera pace, il compromesso non porta a nulla. Per questo ha fede nel judo, e nel combattimento, dove non sono in gioco i prestigi personali di Sugata o dello stesso Yano, e nemmeno del judo. Ma l'onore dell'arte marziale del Giappone.

Sugata rimane perplesso dopo il colloquio. Il nuovo Sanshiro ha ancora gli stessi problemi.

L'arrivo di una inserviente che gli chiede ove intende pranzare gli riporta momentanea serenità.

La donna si meraviglia che il famoso Sanshiro, le cui gesta sono oramai celebrate anche dai cantastorie, non abbia l'aspetto formidabile e i vistosi baffi che lei immaginava.

Le descrizioni dell'aspetto di Sanshiro terrorizzavano puntualmente il suo nipotino...

 

 

 

 

 

 

 

 

Incontra immediatamente dopo, mentre i discepoli si ammucchiano esterefatti a sbirciare dall'apertura dello shoji, la parete scorrevole, i suoi vecchi amici: gli altri guardiani dello Shudokan.

I cosidetti quattro guardiani del Kodokan erano Shiro Saigo, Yamashita Yoshiaki, Yokoyama Sakujiro, e Tsunejiro Tomita il cui figlio Tsuneo scrisse il romanzo che ispirò Kurosawa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L'incontro con Sayo (Yukiko Todoroki) è inevitabilmente più teso.

Sanshiro è venuto a pregare sulla tomba del padre di lei, Hansuke Murai, che avevamo lasciato sconfitto da Sanshiro e costretto a letto dai postumi del combattimento.

Era però quasi sollevato di avere trovato un degno vincitore e benevolo nei confronti del nascente legame tra Sanshiro e Sayo.

Questo legame sembrava doversi consolidare nella scena conclusiva del primo film in cui partivano assieme per un viaggio in treno, invece è rimasto in bilico nei due anni successivi.

 

 

 

 

 

 

Anche il saggio monaco Osho (Kokuten Kodo) trova, come Yano, che Sanshiro non sia minimamente cambiato.

Ed è indubbiamente una critica: i viaggi servono per fare esperienza e crescere, ad ogni viaggio materiale deve corrispondere un viaggio interiore.

Sanshiro invece, lo ammette lui stesso, è ancora avvolto da dubbi e timori, senza sapere dove indirizzare i suoi passi.

Le sue esperienze non lo hanno portato da nessuna parte.

Se il judo è una via, Sanshiro ancora non l'ha imboccata con decisione e coerenza.

 

 

 

 

 

 

Osho, nella tradizione dell'impietoso quanto salutare metodo zen, non è diplomatico: Sanshiro non è capace nemmeno di innamorarsi sul serio. Non andrà lontano con questa sua pigrizia mentale.

E' disponibile tuttavia a fare un ultimo tentativo: il vestito di Sanshiro merita da tempo di andare in pensione, e Sayo ha intenzione di regalargliene uno nuovo.

Troncando brutalmente ogni obiezione di Sanshiro, Osho gli impone di accettarlo.

Dovrà accettare assieme a quel dono anche l'obbligo di guardarsi dentro, senza timore, e di accettarsi.

O correggersi.

 

 

 

 

L'intervento di Osho previene di un filo la prova che attende Sanshiro. Sono alla porta del dojo due strani visitatori.

Tesshin Higaki , dall'aspetto minaccioso ed aggressivo, è il fratello di Gennosuke Higaki, l'acerrimo avversario di Sanshiro nel primo episodio della saga, ed è interpretato dallo stesso attore, Ryûnosuke Tsukigata.

Lo accompagna il terzo fratello Genzaburo (Akitake Kôno), dal comportamento bizzarro ed inquietante e sul cui personaggio dovremo soffermarci.

Spesso nelle rappresentazioni giapponesi appaiono figure enigmatiche di adolescenti androgini dai capelli incolti e dal comportamento imprevedibile, in cui si incarnano le tensioni della vicenda. Ne costituiscono a volte il catalizzatore, a volte ne divengono la vittima sacrificale ed incolpevole. Un analogo personaggio, il flautista cieco Tsurumaru, lo troviamo in un'opera di Kurosawa molto più tarda, Ran (1985).

Il comportamento dei due, invitati a visitare liberamente il dojo, è arrogante e scortese; entrano senza soffermarsi nel saluto formale, violando apertamente regole tramandate e consolidate nei secoli.

Gli insegnanti presenti ordinano di lasciar correre, presumendo che vengano da un dojo straniero ove vigono usanze diverse, ma anche per non venire meno alla propria etichetta che conformemente all'uso giapponese prescrive di non mettere a disagio il visitatore facendogli notare le sue mancanze o la sua ignoranza.

I visitatori sfrontatamente leggono ad alta voce dai nafuda kake appesi alla parete i nomi dei discepoli del dojo. L'ultimo in quanto più alto in grado è Sugata Sanshiro. E individuatolo si dirigono immediatamente verso di lui, con aria minacciosa.

 

 

 

Kurosawa aveva voluto Genzaburo apparisse sullo schermo con un ramo di bambu nella mano, il segnale che indica nel teatro noh i personaggi affetti da follia.

Ora dopo avere provocato Sanshiro con un atteggiamento intimidatorio, di aperta sfida, viene colto da una crisi, probabilmente di natura epilettica.

Prende ad aggirarsi senza pace per il dojo, come un lupo in trappola, strappando poi una tavola di legno dalla parete, dopo un urlo disperato e raggelante.

 

 

 

 

 

 

 

Gli uomini dello Shudokan lo attorniano, giudicando di avere sopportato fin troppo, eTesshin si mette in posizione di guardia a sua difesa.

Il sopraggiunto Yano cerca di calmare gli animi.

Chiede se l'arte praticata dagli Higaki è il karate. Sì, il karate della scuola Higaki, ribatte Tesshin presentandosi e scusandosi per il comportamento del fratello, che soffre di una misteriosa malattia.

Il loro fratello più anziano, Gennosuke, sconfitto da Sanshiro Sugata, era un debole. E ora sono lì, dopo un lungo viaggio dalla lontana Kyushu (Okinawa, da dove il karate venne introdotto in Giappone solo nel XX secolo, diversi decenni dopo le vicende narrate).

Il loro scopo è sfidare Sanshiro e dimostrare la superiorità della loro scuola.

 

 

Sanshiro tuttavia rifiuta.

Yano concorda: il karate praticato dagli Higaki non è, secondo lui, un'arte marziale.

Lo prova il fatto che non salutino entrando nel dojo. Nel Giappone di una volta chi si comportava così non avrebbe potuto essere guerriero né samurai.

Yano rifiuta quindi di concedere l'autorizzazione al combattimento, e invita a non insistere: Sugata è un discepolo, il suo parere rimarrà sempre allineato a quello della scuola.

Tuttavia Higaki è certo che Sugata ami le sfide: gli è bastato vederlo.

Gli sarà sufficiente attendere per ottenere quanto vuole.

 


Il regolamento (okite) dello Shudokan vieta i confronti con le altre scuole, le partecipazioni agli spettacoli, e ogni attività che possa imbrattare il dojo, ed in particolare bervi o mangiarvi.

Vediremo invece Sanshiro, solitario, abbandonarsi al sake nella sala di allenamento.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il sake gli è necessario per dormire, e per non chiedersi in continuazione perchè abbia tanti nemici.

L'amico Dan, che lo ha raggiunto, lo conforta: è normale e non dipende da lui, chi è forte ha automaticamente nemici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Neanche Yano dorme, e sorprende i due nel bel mezzo della discussione

Invano Dan cerca di nascondere la fiasca di sake prima che la veda.

Il maestro anzi raccoglie e la utilizza, senza alcun commento, per mostrare gli squilibri che intende studiare il giorno seguente assieme ai discepoli.

E al termine, senza dar mostra di avere notato la grave trasgressione, augura la buonanotte e va via.

 

 

 

 

 

 

 

 

Allo Shudokan si presenta qualche tempo dopo Daisaburo (Ko Ishida) il ragazzo che involontariamente aveva provocato la 'esibizione' di Sanshiro all'inizio del film.

Ha ancora intenzione di praticare judo e chiede al suo eroe di accettarlo come allievo.

Alle spalle di Sanshiro appaiono, appesi alla parete, i keikogi dei praticanti avvolti nella cintura.

Era un uso comune fino al 1960 circa lasciarli in questo modo all'interno del dojo, al termine della pratica.

Sanshiro ha già detto di non sentirsi pronto per avere discepoli, in più sta attraversando una grave crisi.

E' chiaro che non vorrebbe accettare l giovane, ma infine prende un keikogi, presumibilmente il suo, e glielo porge. Il ragazzo è ammesso allo Shudokan: ma dovrà prepararsi a soffrire.

 

Kurosawa segue, naturalmente a suo modo, con chiari prodromi dello spirito innovativo e della maestria narrativa, già in embrione nel primo Sugata Sanshiro (1942) e che avrebbe sviluppato di lì a poco con i suoi capolavori, la crescita di Daisaburo.

La tavoletta che riporta il suo nome avanza nella gerarchia dei praticanti, dopo avere iniziato dall'ultimo posto disponibile.

L'inflessibile allenamento che veniva imposto ai principianti di ogni arte marziale fino a pochi decenni orsono trasforma la persona stessa, nel corpo e nel carattere.

Ogni volta che Kurosawa ci mostra Daisaburo entrare nel dojo eseguendo il saluto zarei il suo keikogi inizialmente immacolato è più logoro, la sua figura si fa più vigorosa, il suo atteggiamento più sicuro e più rilassato.

 

 

Lo spettatore sa quindi che diverso tempo è già passato, quando Daisaburo ritorna dal suo abituale lavoro trainando il jinrikisha vuoto e trova al suolo un praticante dello Shudokan privo di sensi.

E' stato aggredito da alcuni uomini, che dopo avergli chiesto se appartenesse allo Shudokan immediatamente lo hanno malmenato. Da quello che ha compreso non appartenevano ad una scuola di ju jutsu.

Gli attacchi allo Shudokan continuano, lo stesso Daisaburo cade in un ennesimo agguato. Ogni giorno qualcuno viene aggredito, e i discepoli hanno timore di ammetterlo con Yano, che ne sembra tuttavia divertito. Ha già compreso che gli aggressori provengono dalla scuola del karate.

 

 

 

Con sua grande sorpresa a Sanshiro viene chiesto un colloquio da Gennosuke Higaki, il suo acerrimo nemico.

Non ha intenzioni aggressive e non è più nemmeno lo stesso uomo violento e privo di scrupoli e sentimenti che lui aveva affrontato due anni prima: riconosce che il judo lo ha vinto, e sa di essere malato senza speranza, ma ritiene di avere raggiunto la vera luce.

Ha invano supplicato i fratelli di abbandonare i piani di vendetta e ritornare nella loro isola. Gli è stato solo rinfacciato di essere rimasto codardamente passivo di fronte a chi gli ha portato via l'onore e la donna.

Si sono ora ritirati in montagna per allenarsi intensamente, in attesa di un confronto con Sanshiro. Lui non può odiarli, ma si rende conto che non hanno alcun sentimento umano.

Soprattutto Tesshin, il 'serpente', che dal suo esempio ha preso solamente la parte peggiore. In quanto a Genzaburo, la sua malattia lo porta a momenti di violenza incontrollata. Sanshiro deve evitarli, non raccogliere la loro sfida. Non per salvare loro, ma per salvare se stesso e l'onore delle arti marziali del Giappone.

Al termine del colloquio Gennosuke consegna a Sanshiro come segno della sua stima il mokuroku, il rotolo contenente i segreti dell'arte del karate.

Sarà Sanshiro, memore della sua antica dimestichezza con il jinrikisha, a riaccompagnare Gennosuke con il calessino dell'infortunato Daisaburo.

Vorrebbe proteggerlo con la copertura a soffietto, fa freddo, ma Gennosuke lo prega di lasciargli vedere le strade per l'ultima volta. Mentre si preparano alla partenza Kurosawa ci fa udire le ingenue strofe popolari che celebrano la forza di Sanshiro, cantate da voci infantili.

Il fato vuole però che in quel momento i due incontrino Sayo: il suo sguardo incrocia quello del sofferente Gennosuke, che chiederà infine di chiudere il jinrikisha.

Non può sopportare il dolore di vederla davanti ai suoi occhi e nemmeno vuole mostrare questo suo dolore.

 

 

 

La notte, alla fioca luce di una lampada, Sanshiro si allena solitario nel dojo. Attirati dal rumore arrivano i suoi compagni. Viene loro mostrata in silenzio una missiva.

E' la sfida da parte dei fratelli Higaki, che attengono Sanshiro il 15 dicembre, sul monte Tengu, per una lotta senza quartiere.

Sanshiro accetterà, pur sapendo che verrà espulso dal dojo avendone violato le tre regole.

Non esita a dare chiarimenti: vi ha bevuto sake infrangendo la prima regola, e accettando la sfida infrangerà la seconda.

Ed è il momento di confessare che ha partecipato ad uno spettacolo, infrangendo anche la terza.

 

 

 

 

 

Aveva infatti accettato infine il combattimento con il pugile americano William Lister (l'attore Roy James, in realtà appartenente ad una famiglia russa in esilio residente in Giappone, che in diversi film giapponesi rivestì i panni dello 'straniero').

Presentato con toni da imbonitore dall'intrigante Nunobiki, Sanshiro viene descritto come un personaggio misterioso il cui nome non può essere rivelato. Ma il pubblico giapponese lo riconosce immediatamente come il celebre Sugata Sanshiro, e lo elegge a suo paladino, nella speranza che vendichi la sconfitta ingloriosa subita dal maestro di ju jutsu.

Per contro i numerosi marinai stranieri presenti parteggiano calorosamente per Lister. Non è solo uno scontro tra due uomini, ma tra due culture che non hanno ancora imparato a rispettarsi.

 

 

 

Sanshiro non ha molti problemi per avere ragione del suo avversario: afferrato il braccio che tentava di sferrargli un pugno lo mantiene in presa evitando che l'americano possa usare l'altra mano, e attende l'occasione propizia per atterrarlo.

La proiezione è violenta e spettacolare ed il pugile sembra destinato a non rialzarsi.

Facendo appello a tutte le sue forze ritorna tuttavia in piedi e cerca di riprendere il combattimento.

Sanshiro lo attende impassibile senza muovere ciglio e senza nemmeno accennare a rimettersi in guardia.

Il suo avversario infatti ha preteso troppo dalle sue forze, e piomberà definitivamente al suolo privo di sensi, senza essere stato nemmeno sfiorato.

 

 

 

 

Sanshiro rifiuta la generosa borsa dell'incontro, scosta con decisione Nunobiki che tentava di trattenerlo, sollevandolo di peso, e va via incurante degli applausi del pubblico incredulo.

Il compenso migliore per lui è la commozione di Sahei, l'uomo sconfitto in precedenza da Lister, che non riesce a trattenere le lagrime.

E' infine a lui che Sanshiro consegnerà la somma vinta, andandola a riprendere dal corpo esanime di Lester dove l'aveva gettata con disprezzo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sanshiro si trova ora di nuovo a colloquio con il saggio Osho: gli annuncia il suo ritiro dallo Shudokan.

Non sopporterebbe di essere escluso dal maestro Yano per avere infranto le regole, ha quindi spontaneamente ritirato la tavoletta con il suo nome.

 


Naturalmente Osho non è affatto d'accordo.

Non si abbandona la via per un puro formalismo o a proprio arbitrio e le regole hanno lo scopo di facilitare il percorso, ma non sono il percorso.

Che sia tra un giorno o tra venti anni Sanshiro sentirà prima o poi il dovere di rimettere al suo posto quella tavoletta, riprendendo il percorso che gli è destinato, che si è scelto e che gli è stato prescritto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sanshiro non ha il coraggio di cedere ai suoi consigli.

Chiede il permesso di restare ancora una notte nel dojo per meditare prima del suo prossimo combattimento con gli Higaki.

Si è allenato coscienziosamente, ma ha anche pulito il dojo, portato l'acqua, lavato i corridoi. Nulla è servito a dargli la serenità.

Osho acconsente: e resterà a meditare con lui. Il suo intervento è deciso: Sanshiro sta probabilmente tentando di dimenticare i suoi tormenti ed il suo avversario, Osho gli impone al contrario di concentrarsi su di essi.

Sanshiro tenta. Ma fallisce.

 

 

 

 

 

In maniera imprevista Osho gli viene ancora una volta in soccorso. Dopo averlo messo in guardia dal pericolo di addormentarsi, ed essere statp al suo fianco per evitarlo, il venerando Osho è piombato di colpo nel sonno!

Il divertente episodio libera la mente di Sanshiro.

Finalmente è sereno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il giorno dopo prende commiato da Sayo. Non sa quanto durerà la separazione, che la ragazza vorrebbe immediatamente quantificare. Parte per un combattimento senza pietà e dall'esito incerto. Non è incerto per Sayo: lui vincerà, ne è certa.

Il legame che si sta riannodando tra i due viene reso da Kurosawa con una serie di formali e rispettosi saluti, ripetuti più volte, a distanze sempre maggiori perché nessuno dei due vorrebbe separarsi dall'altro e continuano a volgersi indietro.

La loro sorte ci rimarrà sconosciuta: il film si chiude senza che i due si rivedano.

Sono probabilmente queste ripetute indecisioni nella trama che fanno concludere a Kurosawa che Zoku Sugata Sanshiro è un'opera non completamente riuscita.

Viene però da chiedersi se questi dubbi non siano piuttosto una certificazione del momento particolare in cui si trovavano Kurosawa ed il Giappone stesso.

Tuttora alla ricerca di una sua via, personale e professionale, in una nazione traumatizzata e sconvolta dalle tragiche conseguenze della guerra, non poteva essere Kurosawa a sciogliere sullo schermo grandi nodi esistenziali. Non ancora.

Sanshiro si trova infine di fronte a Tesshin: è solo. Genzaburo, in preda ad una delle sue crisi, non verrà.

Ad accrescere la drammaticità delle scene Kurosawa ha scelto per le riprese un desolato altopiano ricoperto di neve, presso la località termale di Hoppo.

Nelle sue memorie ricorda che Tsutsumu Fujita, che avrebbe potuto anche essere più comprensivo visto che grazie alla sua interpretazione di Sanshiro era arrivato alla fama , gli rinfacciò per molti anni il freddo che aveva patito girando quelle scene a piedi nudi sulla neve, indossando solo il keikogi.

 

 

 

 

 

Il combattimento viene scandito dai selvaggi kiai di Higaki, cui rispondono empaticamente le grida belluine del folle Genzaburo che attende impotente fuori della sua capanna.

Sanshiro preferisce invece trattenere la sua energia per la liberarla nel momento di eseguire un'azione.

La lotta è logicamente incentrata ancora una volta sulla ricerca del colpo risolutore da parte dell'assalitore, il karateka.

Il judoka si limita ad evitare i colpi attendendo l'occasione per una presa, o perlomeno per arrivare a distanza di corpo a corpo.

 

 

 

 

 

 

Finalmente, nel tentativo di vibrare un colpo Higaki si avvicina troppo.

Sanshiro si abbassa e con una tecnica che sembra essere, ma è inquadrata molto da lontano, una replica di quella già vista nelle scene di apertura, abbassandosi di colpo lo fa ruotare sopra le proprie spalle e lo proietta nella scarpata sottostante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con la scena successiva Kurosawa ha deciso di sorprendere lo spettatore.

Nella capanna dove si erano preparati al combattimento gli Higaki, Sanshiro ha acceso il fuoco e cerca di far riprendere le forze allo sconfitto Tesshin.

Genzaburo assiste muto.

Rifiuta di accettare il cibo offertogli da Sanshiro, e continua a fissarlo senza mai distogliere lo sguardo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Esausto dal combattimento, e dalle continue cure che deve prestare a Tesshin, Sanshiro cede al sonno. Solo allora Genzaburo, con estrema cautela, si muove.

Afferra un coltellaccio celato sotto la paglia del pavimento, e si avvicina al dormiente Sanshiro. Ha già alzato la mano per uccidere, ma è lui ad essere colpito sul tempo, e in modo imprevisto.

Nel sonno Sanshiro sorride, un sorriso ingenuo come quello di un bambino.

Vinto da quel sorriso Genzaburo lascia cadere l'arma dalla mano, si ritira nel suo angolo e piange.

 

 

 

 

 

 

All'alba Sanhsiro si risveglia.

Genzaburo sta mangiando il cibo che lui gli aveva preparato, Tesshin si sta riprendendo dalla forte febbre che lo aveva assalito.

Mentre Genzaburo, scusandosi che il cibo sia ormai freddo, riaccende il fuoco, Sanshiro va a prendere dell'acqua per Tesshin.

Rimasti soli, i due fratelli accettano con un sorriso la sconfitta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al di fuori, anche Sanshiro sorride.

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