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Kon Ichikawa: 1959 - Nobi - La fine del viaggio

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Sulla continuazione dell'odissea del soldato Tamura dovremo essere reticenti. Per una  questione di rispetto: dovuto allo spettatore ma anche e soprattutto all'autore. Ci sono opere in cui il susseguirsi dei fatti è prevedibile e scontato, altre come questa in cui l'autore ha deciso di mettere in discussione la volontà stessa dello spettatore, costringendolo a confronti con situazioni ed eventi non prevedibili dagli antefatti e rappresentati senza alcuna forma di compiacimento estetico o censura nei punti più scabrosi. Delineeremo quindi per grandi linee la trama, ma omettendo il dettaglio.

Continuando nel suo alternarsi tra solitudine assoluta e scomode compagnie, Tamura trova dei nuovi compagni di viaggio: è una pattuglia rimasta isolata, che tenta di raggiungere filtrando tra le linee nemiche la zona ove si pensa ci sia ancora una sacca di resistenza giapponese.

Hanno già comunque cambiato irreversibilmente le loro attitudini mentali, sono già un gruppo di sbandati e non più un reparto di soldati. Non sono interessati all'inserimento di persone inutili come Tamura. Che tuttavia ha di che pagare, e generosamente l'ammissione: la sua provvista di sale.

La lunga terribile marcia verso l'annientamento morale, prima ancora che fisico, è resa da Ichikawa anche attraverso una metafora: il percorso di un oggetto. Si tratta di scarpe, una probabile citazione di alcune scene iniziali dell'opera di esordio di Akira Kurosawa, Sugata Sanshiro. Là erano dei geta (zoccoli) abbandonati per strada dal protagonista, che mostratici sotto la pioggia e sotto il sole, d'estate e d'inverno danno allo spetttatore il senso del tempo che passa, e del percorso di crescita che ha nel frattempo seguito Sanshiro.

Qui sono delle scarpe. Durante la terribile marcia sotto una pioggia incessante, lungo un sentiero appena tracciato nella jungla, convergono da ogni parte soldati in fuga.

Molti cadono al suolo estenuati lasciandosi morire, senza che nessuno si curi di loro se non eventualmente per sottrarre al cadavere o all'agonizzante quanto ancora può servire.

E' così che un soldato sottrae gli scarponi ad un cadavere, lasciando a terra i suoi più malridotti. Che vengono tuttavia raccolti e riutilizzati da qualcuno le cui calzature stanno ancora peggio. E così via, a dimostrare che al peggio non c'è, non ci sarà mai, fine.

 

 

 

 

 

L'accettazione nel gruppo ormai sterminato di soldati alla deriva permette a Tamura anche un riconoscimento a cui sicuramente non teneva.

Gli viene assegnanto un fucile, appartenuto ad uno dei tanti soldati caduti esausti nel fango a lasciarsi morire.

Non ha mai confessato di averlo gettato volontariamente, e si giustifica di non aver pensato da solo a prenderne uno abbandonato: non ne aveva mai visti.

La risposta è rude, ma non ostile: Tamura non sa dove guardare.

Ma più probabilmente, non vuole guardare.

 

 

 

 

 

 

La lunga tragica odissea non avrà un lieto fine: le truppe nemiche presidiano la zona, ed il tentativo di passare di notte attraversando un fiume, per guadagnare la relativa sicurezza della foresta, si arresta sotto un pesante fuoco di sbarramento.

Tamura si salva ancora una volta.

Assiste da lontano all'inutile tentativo degli infermieri statunitensi di soccorrere qualcuno dopo quel simulacro di battaglia: gli uomini erano giunti fin là già al limite della sopravvivenza.

Forse il crollo delle loro speranze li ha uccisi prima ancora delle pallottole anonime venute dal buio.

 

 

 

 

 

 

A questo punto anche l'addestramento militare che lo ha condizionato per tanto tempo è svanito nel nulla.

Se ne deve solamente rendere conto, ed esattamente questo accade quando un veicolo americano si arresta, per un problema di poco conto, e ne escono alcuni soldati ed una donna in uniforme dalle fattezze filippine.

Tamura capisce in un attimo cosa vuole, cosa deve fare: non combattere, ma arrendersi.

Però è preceduto di un attimo, prima che esca dal suo nascondiglio, da un altro soldato, che accorre a braccia alzate dichiarando la sua resa,

La donna, evidentemente condizionata da paure incontrollabili o dai ricordi di precedenti brutalità subite, apre il fuoco e lo abbatte, inutilmente trattenuta dagli altri soldati.

 

 

Non è possibile uscire dall'inferno, non è ancora possibile nemmeno entrarvi.

Tamura dovrà continuare la sua discesa: incontrerà di nuovo sia alcuni dei vecchi compagni che altri sbandati, ognuno dei quali sposta più avanti il livello di degrado, segnando all'orrore un nuovo limite, che resterà invalicato solo per poco.

Utilizzerà di nuovo il suo fucile, lo getterà di nuovo.

Infine si dirigerà con le ultime sue forze verso le linee nemiche, con le braccia alzate in segno di resa.

Continuerà ad avanzare anche quando cominceranno a fischiare le pallottole intorno a lui.

 

 

 

 

 

 

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