Tecnica e storia

Omote e ura: dalla tsuba alla vita

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Quanto segue è il libero resoconto di una "conversazione" con il maestro Hideki Hosokawa.

Non si pensi ad una normale chiacchierata intorno ad una tazza di te. Hosokawa sensei in seguito alle conseguenze di una grave emorragia cerebrale è stato costretto nel 2004 ad abbandonare la sua attività di insegnante di aikido e ritirarsi a vita privata.

Date le particolari condizioni del maestro questa discussione si è articolata, superando grandi difficoltà, in un arco di tempo di diversi anni, interrompendola o riprendendola ogni volta che ce ne fosse necessità, opportunità, desiderio.

Una delle prime cose che apprende il praticante di aikido, l'arte che Hosokawa sensei (di famiglia samurai dedita da sempre alle arti marziali) ha praticato per circa 12 anni in Giappone prima di trasferirsi in Italia per diffonderla nel giugno 1974, è che ogni tecnica può essere eseguita in modalità omote oppure ura. Le difficoltà cominciano quando si avverte il bisogno di capire cosa vogliano dire questi due termini, ricevendone in cambio non una soluzione univoca ma un ventaglio di possibilità non tutte apparentemente coerenti tra di loro, come avanti-di lato, lineare-circolare, positivo-negativo e così via. In realtà il significato di omote è "palese, evidente, sincero" e quello di ura è "nascosto, non chiaro, indecifrabile".

Ne discute con grande autorevolezza Peter Goldsbury, anchegli insegnante di aikido, in un articolo pubblicato su questo stesso sito, ove allarga il discorso e parla esplicitamente dell'importanza dei concetti di omote ed ura nella cultura giapponese. Per illustrare l'articolo avevo utilizzato alcune tsuba (guardie) di lame giapponesi, mostrandone i lati omote ed ura. Da qui a riprendere il discorso parlando più dettagliatamente delle tsuba, il passo è breve.

Ma prima chiudiamo il discorso antropologico: omote-ura - ed i concetti affini - sono talmente pervasivi nella società del Sol Levante che vi dedica attenzione anche lo psicologo ed antropologo Takeo Doi nel suo Anatomia della dipendenza, Un'interpretazione del comportamento sociale dei giapponesi, di cui contiamo di pubblicare a breve la recensione, nel capitolo intitolato Uchi e soto (interno ed esterno).

Essendo molti i campi di applicazione di questi concetti, non è raro sentire un giapponese parlare di un "discorso omote" o di una "persona ura", e  anche sul tatami (materassina usata sia come pavimento della casa tradizionale che per la  pratica delle arti marziali) rappresentato dalla vita ci troviamo continuamente confrontati con situazioni, persone, eventi che appartengono o sembrano appartenere all'una o all'altra categoria ma possono presentarsi nella maniera opposta in altri tempi ed altre circostanze.

Ma in fin dei conti ogni cosa del creato ha il suo lato omote ed il suo lato ura,  anzi le sue molteplici sfaccettature che possono complicare l'interpretazione ma renderla più affascinante: immaginate quale sfida possa essere la comprensione di un oggetto, animale, pianta od essere umano, che sia "palesemente ura" o "nascostamente omote".

Sembrano concetti antitetici, quasi degli ossimori, ma sono più frequenti di quanto si possa pensare, e meno difficili da comprendere di quanto sembri: basti pensare alla persona timida che per nascondere la sua debolezza si mostra aggressivo o perlomeno intraprendente.

E stiamo per arrivare al dunque. Come detto, anche gli oggetti hanno un lato omote ed un lato ura, e nel loro caso può sembrare molto facile identificarli: davanti la porta (omote), dietro la porta (ura). Ma se la porta è stabile, pur girando sui cardini è inamovibile, certamente non lo siamo noi. Quando usciamo di casa la mattina il lato omote della porta è quello interno, quando rientriamo la sera è quello esterno. Quando siamo dentro la nostra casa è il mondo esterno a rimanerci celato, quando siamo nel mondo non ci viene rivelato quanto succede nella nostra stessa casa. Lo stesso potremmo dire di ogni oggetto, compresi quelli di interesse più immediato per un cultore delle arti marziali o della cultura tradizionale giapponese, come una spada con i suoi accessori.

Il maestro Hosokawa ha sempre avuto un profondo interesse per questi argomenti e ha seguito un regolare corso di studi sul nihontō, la spada tradizionale giapponese, ricevendo in Giappone la qualifica di perito II dan (i livelli sono o perlomeno erano all'epoca 3). Ha continuato poi gli studi autonomamente dopo il suo trasferimento in Italia. E' questo suo retroterra culturale che lo indusse a scegliere come emblema del suo dojō in Cagliari, il Musubi no kai (Associazione del Nodo), la guardia di una spada appunto, una tsuba. I motivi di questa sua scelta vennero a suo tempo liberamente resi da me in questo modo, seguendo le sue indicazioni:

Il simbolo del Musubi no Kai

Il nodo rappresenta nella tradizione giapponese il legame reciproco che vincola l'allievo ed il maestro che ha scelto di seguire; il legame tra l'uomo che cerca e la via che ha scelto di seguire; il vincolo di fedeltà indissolubile che lega due amici. Il simbolo del suo dojo è una antica tsuba giapponese, la guardia di una spada da samurai: alcuni credono che si tratti di un disegno astratto, altri ci vedono un nodo. Ed è infatti un nodo, ma rappresentato in maniera molto sottile. La  tsuba raffigura in realtà due ruote di carro che si incontrano andando in direzioni opposte. L'incontro di due amici, che si incrociano talvolta nel breve volgere di  un attimo per poi dirigersi in direzioni opposte sul grande sentiero della vita e tornare, forse, di nuovo ad incontrarsi e separarsi. Ma sempre legati da un vincolo invisibile ed inestricabile. Lo stesso vincolo di amicizia che il  maestro Hosokawa ha saputo cosí indissolubilmente creare con i suoi allievi.

 


Nella spada giapponese si assume per principio che il lato omote sia quello visibile all'osservatore quando l'arma è portata alla cintura: quasi un biglietto da visita che il portatore della spada porge al suo prossimo. Di conseguenza, il lato più ornato della guardia viene portato all'esterno (omote), quello meno ornato all'interno (ura). Possono sorgere delicati problemi di interpretazione quando la guardia è del tipo sukashi (a traforo) e quindi senza ornamenti o riporti, e a volte perfettamente simmetrica sia dai due lati che nelle parti destra e sinistra. Può trattarsi di una voluta ambiguità decisa dall'artista o dal committente, a significare che nella vita è sempre difficile discernere la verità dalle apparenze, o per invitare l'osservatore a guardare più attentamente, a coglierla da indizi apparentemente non significativi.

Ma il maestro sottolinea una ulteriore affascinante complicazione: la maggior parte dei componenti e degli accessori della spada ha una posizione fissa non variabile; per esempio il lato omote di tutta la spada, quello visibile all'osservatore, è sempre il sinistro; quindi delle due guarnizioni (menuki) del manico, che non sono mai uguali nemmeno quando lo sembrano ad un primo esame superficiale, quella omote sarà sempre sul lato sinistro, e quella ura sul lato destro. L'asola nel fodero (kurigata) in cui passa il laccio (sageo) è sul lato omote essendo un ornamento spesso impreziosito da una decorazione (shitodome) ma il foro passante (mekugi hana) da dove si introduce il perno di fissaggio del manico (mekugi) da questo lato è celato dalla nastratura perchè considerato non gradevole alla vista. E così via.

Fa doppia eccezione la tsuba: il lato omote, maggiormente ornato, è quello rivolto verso la lama. E' quello che è visibile all'osservatore quando la lama è indossata alla cintura. Ma la tsuba è un elemento mobile non rigidamente fissato e strutturato in modo che possa essere montato indifferentemente in un senso o nell'altro. Come del resto fa ogni essere umano quando decide deliberatamente di essere aperto e sincero (mostrare al mondo il suo lato omote) oppure di lasciare un velo di mistero sui suoi pensieri (mostrando il lato ura); quando decide di essere allegro o di essere austero, quando decide di divertirsi e divertire, o di essere serio. Nell'ambito della cultura marziale non erano pochi i samurai che decidevano di esporre dal lato esterno l'aspetto più disadorno, più essenziale del loro essere, del loro abbigliamento, delle loro armi.

Il maestro non si ferma qui: chi ha imparato a comprendere a fondo il suo insegnamento sa bene che ci vorrà sempre portare a superare i nostri limiti, mai contentandosi di quanto acquisito, come è prerogativa di tutti i grandi maestri. E osserva che la scelta iniziale del lato da mostrare e del lato da tenere per se, può e talvolta deve essere abbandonata nel momento della verità. Quando la lama viene estratta dal fodero viene poi ribaltata in avanti per portarla in posizione di combattimento. Quello che era il lato omote della tsuba diventa il lato ura e naturalmente viceversa. Quello che veniva tenuto nascosto viene ora mostrato, e  l'immagine che porgevamo al mondo viene ritirata e rimane celata. Ma non basta ancora: il simbolo che prima rappresentava ura diventa sì omote nel momento del contronto per la vita e la morte. Ma in posizione inversa: quello che prima stava sopra ora sta sotto e viceversa. L'effetto, a volte drammaticamente evidente, di questo rovesciamento della posizione lo potete vedere nella tsuba raffigurata. Che presenta inoltre la caratteristica di mostrare un aspetto scabro e rude immediatamente contraddetto dall'accuratezza del riporto che copre il kogai hana in shibuichi (lega di argento) che la foto purtroppo non rende, La prima impressione di rusticità è smentita definitivamente non solo da un esame accurato ma anche dalla sensazione tattile: maneggiando questa tsuba si ha l'impressione di avere in mano della seta.

Quale grande occasione di riflessione ci viene offerta!  E certamente nessuno che abbia ascoltato attentamente le parole del maestro si contenterà di avere sulla sua lama una qualsiasi tsuba. Dovrà cercare la sua, acuendo tutti i suoi sensi per riconoscerla quando l'avrà incontrata.

La tsuba che reca il motivo del musubi è particolarmente ardua da trovare; va ricordato tra l'altro che  in Giappone per lungo tempo venne interdetto per motivi di sicurezza interna l'uso di qualunque veicolo su ruote, e quindi il simbolo della ruota di carro venne sostituito da quello della ruota di mulino ad acqua (suisha). Il comprensibile desiderio del maestro di esaminare di persona oggetti con la tematica del musubi solo occasionalmente può essere esaudito. Esamineremo alcune di queste guardie, con l'avvertenza che il mio grado di competenza si arresta poco oltre l'apprezzamento personale, non sono in alcun modo un esperto di kodogu (fornimenti della lama) o di nihonto.

Questa tsuba per wakizashi, scelta come simbolo del gruppo di sostegno del maestro, è con ogni probabilità una riproduzione, per quanto ben eseguita e riproducente fedelmente l'effetto rude e scabro che incontrava maggiormente i gusti degli uomini d'arme. Le tacche di adattamento visibili intorno al foro centrale ove passa la lama (hitsu hana) indicherebbero che la guardia è stata utilizzata per lungo tempo e su differenti lame, ma non è presente in alcun modo il segno ovale che avrebbe lasciato sulla zona circostante (seppadai) la guarnizione in metallo tenero (seppa) che separa la tsuba dal manico e dalla lama.

Il colore della patina non è del tutto naturale, inoltre le tacche presentano lo stesso grado di ossidazione del resto della superficie, mentre dovrebbero essersi preservate diversamente in quanto meno esposte all'aria. Il maestro Hosokawa dopo lunga riflessione ha confermato la diagnosi utilizzando un metodo empirico quanto affidabile se utilizzato da persona competente: annusando la superficie della tsuba ha assentito vigorosamente: un percettibile odore di zolfo confermava che l'oggetto era stato invecchiato artificialmente, probabilmente col composto conosciuto in occidente come "fegato di zolfo" (solfuro di potassio, che ha effetti variabili col grado di diluizione, col solvente utilizzato, che è normalmente l'ammoniaca, e col metallo o lega cui è applicato).

Occorre ricordare per completezza che il prezzo di una tsuba eseguita oggigiorno con le tecniche tradizionali è spesso superiore a quello di molte tsuba d'epoca e anche gli esemplari riprodotti in serie a condizione che siano ben fatti non hanno prezzi inferiori ai 150€.

 


A distanza di alcuni anni venne rinvenuta una tsuba di misura maggiore, per katana, ricavata da una barra di acciaio ripiegata più volte a pacchetto e destinata alla forgiatura di una lama (tamahagana), come rivelato dalla struttura reticolare del metallo (non visibile dal lato omote qui mostrato).

Le tacche di adattamento hanno chiaramente diversa ossidazione, e anche al livello del seppadai, ove poggiava la seppa, c'è un leggero strato di differente ossidazione (non apprezzabile nella foto) che conferma che la tsuba è stata effettivamente utilizzata.

Apparentemente molto semplice, questa tsuba ha in realtà una simbologia complessa che il maestro ci ha aiutato a svelare e ci ha fatto apprezzare. La ruota d'acqua sulla destra (suisha) si incrocia con effetto impressionistico con una seconda ruota (assieme costituiscono il simbolo del musubi e del trascorrere della vita). E' presente in alto un fiore di sakura ricavato dal vuoto (ciliegio, simbolo della primavera) ed in basso un singolo petalo di ume (prugno, simbolo dell'autunno). Può sfuggire ad un esame superficiale il significato dei raggi concentrici graffiti sulla superficie della tsuba: si tratta del simbolo del Sol Levante, emblema della nazione giapponese. Che la parte raffigurata nella foto sia quella omote lo confermano la posizione sul lato sinistro del kozuka ana (fessura per il passaggio del primo coltellino di servizio) e sul lato destro del kogai ana (fessura per il secondo accessorio, uno spillone). La presenza dall'altro lato dei resti quasi impercettibili di un minuscolo riporto ornamentale tuttavia fa pensare che potesse essere quello il più ornato, che tradizionalmente è omote. Bisognerà rifletterci ancora.

Da notare che il lato destro della lama (nella tsuba quello con il foro passante lobato) è un altro caso di omote: è il lato visibile a chi si trova di fianco: è su questo lato che l'artigiano appone la firma (mei) sul codolo della spada (nakago) o sul seppadai della tsuba. Le antiche spade da cavallo (tachi) che si indossavano appendendole alla cintura col taglio verso il basso, in posizione inversa a quella della katana, si trovano perciò ad avere come omote il lato opposto e là vengono firmate.

Ancora qualche tempo dopo è stato possibile rintracciare una tsuba con la stessa tematica ed esecuzione simile ma più essenziale. Di conseguenza presumibilmente tosho, ossia opera di un maestro spadaio (kokaji), e non katchushi, opera di un maestro tsubaki. Lo stile tosho, molto apprezzato in epoca Muromachi (1338-1573) ma coltivato anche nei secoli successivi, è caratterizzato da forma generalmente rotonda (marugata), esecuzione in acciaio, un solo motivo decorativo a traforo o nulla affatto, spessore ridotto che si assottiglia ancora sul bordo (mimi), lavorazione semplice ed austera.

Il maestro ricorda spesso che il samurai predilige per le sue armi finiture rigorose ed essenziali e difficilmente si troveranno sulla spada di un guerriero ornamenti preziosi quanto vistosi. La luce naturale mette in evidenza il famoso "color cioccolato" con cui la patina dei secoli ricopre l'acciaio, che nessun invecchiamento artificiale riesce ad emulare. 

La patina dell'esemplare precedente sembra di tonalità molto differente ma occorre tenere presente che la foto è stata scattata al mattino presto, l'altra a pomeriggio inoltrato quando la luce è molto più calda. Potete notare nella foto successiva come in realtà la differenza sia difficilmente avvertibile. Per evitare ogni influenza della luce ambientale gli artigiani del nihonto lavoravano quando possibile di notte, alla sola luce della forgia.

L'ultima tsuba era di diametro compatibile per la montatura su un wakizashi. Come è noto il samurai era tenuto in epoca Edo ad indossare costantemente due spade:  la katana, con lama superiore ai due shaku (60 cm) ed il wakizashi, arma di scorta con lama tra 1 e 2 shaku (30-60 cm) da cui non si separava mai mentre il porto della katana era interdetto nei locali pubblici e nelle abitazioni private. L'assieme delle due spade veniva chiamato daisho (lunga – corta) ed era auspicabile che se non le lame - normalmente celate nel fodero - almeno le forniture e le rifiniture in vista fossero in armonia tra di loro.

E qui vediamo appunto un daisho assemblato accoppiando le due tsuba col motivo musubi. Normalmente una tsuba per wakizashi misura 6/7 cm di diametro, dagli 8 cm in su quella per katana (più difficile da trovare). Queste non differiscono di molto nel diametro ma il wakizashi ha una misura importante (54 cm di nagasa, lunghezza della lama) e richiede una tsuba di grandezza adeguata.

Ci sembra di poter dire che questo assieme, che ha incontrato il favore del maestro, possa incontrare anche il favore anche di chiunque ami gli oggetti artisticamente essenziali.

Il ricercatore è abituato a non scoraggiarsi, sa che il "vento" cambia spesso secondo regole che non gli è consentito né prevedere né comprendere. La prima tsuba con il motivo musubi è stata rinvenuta dopo molti anni dall'inizio delle ricerche. In un certo periodo successivo è sembrato al contrario che fossero loro a farsi avanti, ad offrirsi al ricercatore, per quanto non sempre il livello artistico e lo stato di conservazione fossero adeguati. Ecco l'ultimo rinvenimento. Per ora.

Attribuita alla scuola shoami, questa tsuba per katana ha un livello di esecuzione tecnica indubbiamente superiore alle precedenti. Il kikumon (kiku = crisantemo, mon = stemma) a 16 petali è riservato alla casata imperiale, e solo ad artisti di provata fama è concesso di apporlo sulle loro opere. Il manufatto è tuttavia mumei (non firmato).

Il motivo del Sol Levante potrebbe alludere anche alla simbologia della ruota, senza che sia possibile tuttavia essere certi dell'intenzione dell'artista. La foglia di kiri (pawlonia) è tradizionalmente associata allo spirito guerriero: ancora nella seconda guerra mondiale le forniture delle spade dell'esercito giapponese (shingunto) recavano il simbolo del kiri, che rappresenta l'autunno come il crisantemo rappresenta la primavera. Non è facile identificare il lato omote: le due facce hanno lo stesso grado di decorazione e finitura e le presenza dei sekigane (scivoli in rame che facilitano il montaggio e lo smontaggio della tsuba) non ha reso necessarie le tacche di adattamento che avrebbero aiutato a distinguere. Sembra che l'artista abbia voluto deliberatamente confondere le acque: i fori passanti per i coltelli di servizio sono identici, ambedue del tipo kogai ana, e non apportano alcun contributo.

Il maestro ha esaminato questa tsuba e ha dato il suo responso: quello che vedete è il lato omote. Il suo giudizio conferma quanto indica il kantei, la perizia ove vengono riportati una foto o un calco (oshigata) del lato omote convalidati dal timbro a secco dell'autorità che ha rilasciato il certificato. E' mancato finora l'occasione per conoscere i motivi della interpretazione del maestro, ma questo non ha importanza: l'insegnamento del maestro Hosokawa è destinato ad accompagnarci ancora a lungo.

E' tuttavia, come nella tradizione samurai, anchesso essenziale e stringato. I primi tentativi di ottenere spiegazioni hanno avuto il prevedibile risultato di vederlo sorridere mentre indicava nuovamente la tsuba: la verità è là, esposta a tutti. Ma per essere in grado di comprenderla occorre innalzare il proprio livello di sensibilità, e senza ricorrere ad aiuti esterni.

Foto: L'estensore dell'articolo, la signorina Eli (che si ringrazia per la gentile collaborazione e la piacevole compagnia) ed il maestro Hideki Hosokawa.

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