Tecnica e storia
Le armi giapponesi del museo Stibbert - La sezione giapponese
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Il secondo piano della grande villa ai piedi di Fiesole è stata dedicato da Frederick Stibbert alla collezione di armi giapponesi, e quasi nulla è cambiato da quando gettò un ultimo sguardo soddisfatto alla sua realzizzazione, prima di aprirla finalmente ai visitatori.
Un drappello di guerrieri giapponesi, che qui Alberto Roatti sta illustrando al gruppo degli studiosi dell'INTK, è schierato in atteggiamento di battaglia nella vasta sala d'ingresso. In analogia con la cavalcata medioevale e la cavalcata islamica esposte al piano terra, il gruppo viene definito cavalcata giapponese.
Spicca tra le altre figure per naturalezza e qualità della realizzazione quella dell'arciere, realizzata in Giappone intorno al 1870 da Kisaburo Matsumoto.
Per quanto la richiesta di realizzare un manichino fosse assolutamente inusuale le maestranze giapponesi, fino ad allora avvezze ad una relativa stabilità nella tecnologia di produzione dei manufatti, si adeguarono prontamente.
L'apparente contraddizione tra la fedeltà alle tradizioni e la capacità di adattamento alle innovazioni più drastiche è la chiave di lettura dei molti successi che può vantare la società giapponese dal momento della sua apertura al mondo esterno.
Il particolare permette di apprezzare la qualità di realizzazione ed il realismo dell'opera.
Una descrizione anche parziale di quanto racchiudono queste ennesime camere delle meraviglie del Museo Stibbert richiederebbe molte più energie di quelle di cui disponiamo.
Sono del resto ben pochi quelli che ne potrebbero disporre: lo Stibbert sembra che abbia nella sua collezioni circa 10.000 armi, e non abbiamo accennato se non di sfuggita alle importanti raccolte di quadri, mobili d'epoca, capi di costume storici ed altro ancora.
Solo il contenuto di questa vetrina, una delle minori, richiederebbe giorni e giorni di studi. Notare che quelli appesi sul fondo non sono scudi ma jingasa: cappelli corazzati da guerra, ma talvolta portati anche in abiti civili.
Occorre soprattutto arrendersi senza condizioni anche soltanto alla visione delle vetrine più grandi ed affollate.
Analizzarle è al di sopra delle nostre forze.
Segnaliamo però almeno un altro articolo di questo sito, che prende lo spunto da una armatura di tipo inconsueto, esposta in posizione un po' defilata nella sala della cinesina, per poi abbandonarsi ad altre considerazioni.
E' doveroso aprire una finestra sulla collezione di tsuba, le guardie amovibili e sostituibili di cui è dotata la katana giapponese. Quelle riservate al tachi hanno caratteristiche diverse e le segnaleremo eventualmente di volta in volta.
Rinunciamo irrevocabilmente ad ogni pretesa di commento tecnico, lasciando eventualmente posto a qualche apprezzamento personale. Ugualmente personali sono stati i criteri di selezione.
In questa tsuba, a sezione yuko ito gata con lobatura agli angoli, è molto gradevole il contrasto tra la la superficie liscia dei fiori, esaltata dalla laccatura, e quella scabra del fondo che separando i due piani aggiunge profondità all'opera.
Ogni tsuba è esposta allo Stibbert dal lato omote, quello normalmente più ricco e dove viene apposta la firma dell'artista.
Naturalmente non è possibile apprezzare una tsuba senza prendere visione anche del suo lato ura, come non è possibile pensare di comprendere il mondo conoscendo solo il sole e la luce e non la notte e le tenebre.
Ancora una volta la fruibilità di preziosi oggetti d'arte è fortemente compromessa dalla loro collocazione: andrebbero disposti in verticale entro vetrine accessibili da entrambi i lati.
In altri casi come già detto sarebbe preferibile mantenere la disposizione originale voluta dallo Stibbert. Qui ci sarebbero i margini per intervenire.
La tsuba a lato è del tipo maru gata (rotonda) con un evidente mimi (anello perimetrale) ed in acciaio, con riporti in oro e, probabilmente, shakudo.
Ancora una marugata in acciaio, con riporti in oro e shakudo.
Come nella grande maggioranza di questi oggetti il tema è ispirato alla natura, questa volta alla vita marina, sempre importante in una nazione circondata dall'oceano.
Questa tsuba di morfologia mokko (quadrilobata) mescola elementi fantastici, la fenice in oro visibile in alto, e scorci della natura, come l'inconfondibile pino giapponese il cui tronco è reso in shakudo o forse rame puro, mentre la chioma è in shibuichi.
Leghe rispettivamente - lo shakudo - in oro, argento e bronzo, da cui si ottiene una lega dal caratteristico colore marrone caldo e - lo shibuichi - in argento e rame, per un prodotto finale dalle affascinanti tonalità bluastre.
Evidenti i sekigane, scivoli in metallo morbido che facilitano l'inserimento della tsuba nel nakago della lama nonché l'adattamento a differenti lame.
Relativamente rara nella collezione la tsuba di tipo sukashi ossia lavorata a traforo, che pure era molto apprezzata in Giappone.
E' possibile che questa lavorazione sia stata considerata troppo povera dai fornitori di Stibbert, che non ebbe mai occasione di recarsi di persona in Giappone.
Gli furono forse proposti soprattutto oggetti ricchi nei materiali e complessi nella lavorazione, che erano effettivamente quelli che maggiormente attraevano i collezionisti europei.
Questa tsuba sukashi riprende un tema molto popolare, la pianta di aoi (malva). Tre foglie di aoi appaiono anche nel mon della famiglia Tokugawa, che ebbe il dominio assoluto del Giappone per tutta l'epoca che dalla dinastia prende il nome.
Un solo esemplare, perlomeno ad una occhiata superficiale, della tsuba maggiormente apprezzata dal guerriero.
E' in tamahagane, la preziosa barra di acciaio multistrato a partire dalla quale si forgiano le lame, e la rifinitura volutamente grezza ne lascia ben visibile la complessa struttura.
Non ha ornamenti, non ha orpelli. In altri esemplari spesso mancano anche kozuka ana e kogai ana: l'arma del samurai è solamente un'arma e non monta accessori.
Presenti invece in basso gli udenuki ana che servono ad assicurare la lama con un cordino in modo che non esca accidentalmente dal fodero o non possa essere estratta volontariamente senza rompere un sigillo; precauzione che era frequente anche in occidente fin da tempi remoti.
Erano sigillati salvo che sui campi di battaglia i gladi dei legionari romani, e in epoca più vicina a noi Benvenuto Cellini venne perseguito dalla giustizia perché il sigillo della sua spada era manomesso.
Non è un caso secondo lo scrivente che questa tsuba sia forse la sola fra tutte quante che rechi segni visibili - è percepibile l'impronta lasciata dalla seppa sul seppadai - di essere stata veramente montata su una spada.
E con questa considerazione che forse non è priva di rilevanza si chiude questo impegnativo ma forse fin troppo succinto resoconto di una visita al Museo Stibbert.