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Miyao: gli artigiani Meiji di fronte alla rivoluzione industriale - Un breve momento di gloria, poi la decadenza

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Il leggendario guerriero Minamoto no Yoshitsune.  Fusione in bronzo con dorature e patinature, occhi riportati in lega di shakudo (una lega di oro e rame dalla sorprendente patina nera). L’opera è firmata Dai Niho Tokyo Miyao Sei, Katsutoshi saku. Altezza 126 centimetri, risalente al 1895 circa.

La ditta Miyao di Yokohama venne fondata da Miyao Eisuke e si fece conoscere a partire dal 1881 partecipando alle varie esposizioni dell’epoca. Il Katsutoshi che ha firmato quest’opera, una delle poche firmate che siano uscite dall’officina Miyao, potrebbe essere Katsutoshi Nakajima o Katsutoshi Mizuno; di entrambi si sa che erano attivi in quell’epoca.

Minamoto no Yoshitsune è forse il personaggio piú conosciuto dell’epopea feudale del Giappone. Appartenente ad una delle due famiglie in lotta per lo shogunato (Taira e Minamoto, note letterariamente come Heike e Genji), sopravvvisse allo sterminio del suo clan e solo dopo grandi peripezie riuscí a ricongiungersi con l’altro superstite, il fratellastro Yorimoto.

Dopo aver dato innumerevoli prove di coraggio e di maestría come generale e aver guidato il clan Minamoto alla vittoria contro i Taira (battaglia navale di Dannoura, 24 marzo 1185) , vittima della gelosia del fratello dovette fuggire assieme ad un pugno di seguaci. Quando fu infine raggiunto e l’altro eroe Musashibo Benkei, fedelmente al suo servizio dopo esserne stato vinto in un leggendario duello, si immoló trattenendo i nemici per lasciargli il tempo di compiere seppuku sfuggendo alla cattura. Al momento della sua morte aveva circa 28 anni.

L'opera di esordio di Akira Kurosawa nel genere jidai vero e proprio, Gli uomini che camminavano sulla coda della tigre, narra uno degli episodi della saga del fuggiasco Yoshitsune.

Rimarrebbe ancora molto da dire a proposito di questa epoca di trasformazioni e di rivoluzioni, non sempre verso il meglio. Ma lo spazio non lo consente. Sarà forse interessante esaminare in futuro quali sistemi abbia adottato il governo giapponese per evitare la perdita totale delle proprie radici culturali e della propria produzione artistica. Mi riferisco in particolar modo alla istituzione, all’inizio del secolo XX, dei “tesori nazionali viventi”. Personaggi riconosciuti degni di tutela da parte dello stato per le loro capacità in una qualunque delle arti tradizionali giapponesi, sottratti alle logiche di mercato o perlomeno in grado di non esserne schiavi e liberi di prosguire la loro ricerca senza condizionamenti. E ai severi protocolli imposti dallo stato per la produzione dei manufatti culturali, come ad esempio le spade.

Ma adesso getteremo un breve sguardo a volo d’uccello sul dopo. A distanza di circa 100 anni i prodotti della Miyao continuano ad essere tra i piú ricercati sia dai collezionisti che dai musei.

Potete osservare nella illustrazione a lato una coppia di samurai in combattimento tra di loro, firmati Miyao Zo. Il pezzo maggiore misura 64 centimetri di altezza. Sono andati all’asta presso Sotheby’s a Londra il 19 giugno 2001, con una valutazione compresa tra i 50.000 ed i 60.000 dollari.

E non è un’eccezione: un incensiere alto 84 centimetri è stato aggiudicato in Germania nel novembre 1999 per 195.000 marchi (circa 200 milioni delle nostre lire oramai a fine carriera, o 100.000€).

E’ evidente quindi che i prodotti della prima “industrializzazione” culturale giapponese, pur se nettamente inferiori a quelli che li avevano preceduti, sono comunque oggetti di grande valore.

 

 

 

Al punto che anche essi, per una bizzarra legge del contrappasso, sia perché prodotti in numero insufficiente a  soddisfare la domanda sempre crescente dei collezionisti, sia perché proposti a prezzi irrangiungibili dalle tasche dei comuni mortali, hanno dato vita a loro volta a delle imitazioni, a prodotti di terza generazione che ormai di creativo e di artistico non hanno piú nulla se non la vuota forma esteriore.

La scultura che vedete ora, di provenienza della manifattura Miyao e firmata Sogen saku, è andata all’asta presso la galleria Asiatika di Vienna nell’ottobre del 1995, con una valutazione tra 7.000 e 14.00 dollari.

Rappresenta un principe in atto di tirare l’arco (la freccia e la corda sono una aggiunta di restauro). Indossa una mezza armatura decorata con il mon di famiglia.

Come di consueto nelle opere Miyao gli effetti di coloritura non sono dovuti all’uso di metalli differenti ma a sapienti e suggestive patinature.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma ecco infatti un manufatto proposto sul sito d’aste on line eBay nei primi giorni dell’ottobre 2001.

E’ chiaramente una fusione ricavata in qualche modo dall’opera precedente. Non un calco, piú semplicemente una brutta copia eseguita sulla base di foto o disegni, e senza alcun tipo di rifinitura che non sia una generica patinatura “antica”.

Risale probabilmente agli anni trenta del secolo scorso, epoca in cui si presume  anche la Miyao avesse cessato l’attività (non abbiamo notizie in proposito) non potendo reggere la concorrenza di queste nuove imitazioni prodotte in serie.

Occorre dire che il pezzo in questione veniva presentato come una rara scultura firmata (vedere il particolare).

Ma in realtà non si tratta nemmeno - come è facile vedere - di un punzone col marchio di fabbrica ma semplicemente della fusione vera e propria; non è tantomeno una vera firma incisa a mano.

Sono stati offerti 230 dollari ed è rimasto invenduto. Ove si conferma che queste micidiali operazioni commerciali oltre ad uccidere il prodotto buono finiscono poi per uccidere se stesse.

Il bronzo esposto al Sablon, che ha suggerito la ripubblicazione di questo articolo, pur essendo indiscutibilmente già attribuibile al periodo della decadenza, ha una ricchezza di dettagli ed una complessità esecutiva che lo fanno ritenere comunque una manufatto di notevole interesse.

Il raffronto con le opere precedenti dovrebbe però lasciar facilmente comprendere come sia indiscutibilmente manieristico, e probabilmente copia di opera più celebre e più antica.

Difficile trarre una morale da quanto sopra.

E in ogni caso non potremmo essere noi occidentali a trarla: con la nostra mancata comprensione del vero valore di queste opere d’arte, che andavano valutate con i metri di giudizio della stessa cultura che le aveva prodotte, abbiamo irrimediabilmente ucciso una intera generazione di artisti senza permettere nemmeno che ne sopravvivesse erede alcuno.

O forse più semplicemente (se si trattasse di un problema semplice) il veleno mortale è stato inoculato dal desiderio non frenabile del possesso materiale di queste opere d'arte, che ha indotto alla fabbricazione massiccia di falsi grossolani ed imitazioni servili.

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