Testi
Kakekashi: Così triste cadere in battaglia
Kakekashi Kumiko
Così triste cadere in battaglia
Einaudi
ISBN 9 788806 190613
E' particolarmente significativo che sia stata una donna ad avere il coraggio di affrontare in questo libro un tema quantomai scottante, un tema riservato tradizionalmente alle discussioni "tra uomini". L'orrore della guerra. E' un segno positivo, ed occorre notarlo. Occorre riflettervi.
Kumiko Kakehashi tratteggia in questo libro (in originale Gyokusai sōshikikan no etegami, Lettere illustrate dal comandante in capo) attraverso rigorose ricerche ma anche attraverso i ricordi dei familiari del generale Tadamichi Kuribayashi e dei soldati che furono ai suoi ordini la figura di una persona completamente diversa da quella che si potrebbe immaginare. Un uomo sensibile, colto, forte e gentile. Preoccupato fino all’ultimo del benessere dei soldati che gli sono vicini e dei familiari che gli sono lontani, ma inflessibile verso se stesso e spietato verso un nemico che conosce - aveva soggiornato per servizio negli Stati Uniti dal 1928 al 1930 ed in Canada dal 1931 al 1933 - che rispetta e in definitiva ammira.
Qui vediamo un ironico autoritratto di Tadamichi Kuribayashi, inviato al figlio Taro durante il suo soggiorno negli Stati Uniti per perfezionare gli studi militari. Il testo della lettera dice:
Caro Taro, ho appena acquistato quest’auto favolosa ... se tu fossi qui ti porterei a fare un giro dove vorresti. Che ne dici? T’immagini un bel viaggetto?
Il libro riporta brani da altre lettere, scritte da Iwō Jima ai familiari - la moglie Yoshii, il figlio Taro e le figlie Yoko e Takako - che mostrano interesse e preoccupazione più per i piccoli eventi della vita quotidiana della famiglia che per la tragedia di Iwō Jima. In una delle sue lettere Kuribayashi si scusa di non essere riuscito prima di partire per la sua ultima missione a venire a capo di una perdita d’acqua nella cucina di casa.
La sua lezione di vita, e di dignitosa tenuta di fronte alla morte, suona in apparente contrasto con la leggenda dell’ateniese Tirteo.
Tirteo fu un maestro di scuola claudicante e dal fisico minuto ma dalla voce possente, che durante la seconda guerra messenica (VII secolo a.C.) venne inviato da Atene in risposta alla richiesta di soccorso di Sparta, in ossequio al responso dell’oracolo di Delfi che prescriveva agli spartani un comandante ateniese.
I canti di Tirteo, che introdusse l'usanza di marciare in battaglia al suono trionfale di un flauto, esaltarono i guerrieri spartani portandoli alla vittoria:
E' bello morire per la patria cadendo tra i combattenti della prima fila
Anche il latino Orazio ammonisce che:
Dulce et decorum est pro patria mori
Tuttavia Kuribayashi non cade nella retorica della “bella morte” che tanto spazio ebbe in ogni parte ed in ogni tempo. Accetta per dovere e a malincuore il suo destino di eroe. D’altra parte le atrocità della guerra moderna non sono assolutamente paragonabili a quelle, che pure ci sono state e che non dobbiamo dimenticare, della guerra classica a misura di uomo.
Infatti lo stesso Orazio confessa altrove di avere abbandonato le file e lo scudo durante la battaglia di Filippi. Quinto Orazio Flacco (65-8 a.C.), nato a Venosa, fu tra i massimi esponenti della poesia latina. Prese parte alla battaglia come tribuno, nell'armata dei cospiratori Bruto e Cassio. E’ presumibilmente un espediente poetico quello cui ricorre confessando di avere abbandonato le fila e lo scudo, essendo improbabile che un ufficiale superiore di legione si trovasse inquadrato tra i fanti di prima linea. Si tratta certamente di un omaggio ad Archiloco, poeta greco del VII secolo a.C., che delle armi aveva fatto professione eppure canta in un suo giambo:
Qualcuno dei Sai si vanta del mio scudo, che presso un cespuglio - arma gloriosa - lasciai non volendo. Ma salvai la mia vita. Quello scudo, che importa? Vada in malora. Un altro ne acquisterò, non meno bello.
Orazio è affettuosamente ricordato dal suo protettore Augusto, l'ex nemico di Filippi, come un uomo piccolo e pingue, di aspetto tuttaltro che marziale, epicureo ed amante dei piaceri della vita. Morì premutaramente a 56 anni (ricordiamo che i latini, come i giapponesi, consideravano critica questa età, in quanto multipla di 7), lasciando come cifra interpretativa del suo pensiero e delle sue ambizioni il famoso detto carpe diem: Afferra il giorno, l'attimo, non lasciare che la vita ti sfugga senza che tu te ne renda conto. Vivi intensamente.
Insomma in ogni tempo, in ogni civiltà, i migliori guerrieri accettano serenamente l'esigenza di abbandonare la vita per servire la patria, ma riconoscono che questo elevato ideale può richiedere un prezzo tanto alto che talvolta è lecita l'esitazione ed inevitabile il rimpianto.
Nel giugno 1944 le forze americane invasero la desolata isola di Iwō Jima (isola dello zolfo - 硫黄 iō = zolfo, 島 shima = isola: la trascrizione esatta sarebbe Iō Jima). E' situata a circa 1.250 km in linea d’aria a sud di Tokyo. Una distanza tale da poter essere utilizzata, per la prima volta dall’inizio della guerra, come base per attaccare direttamente il Giappone dall’aria. Durante la terribile incursione aerea su Tokyo del 10 marzo 1945 si calcola abbiano perso la vita tra le 80.000 e le 100.000 persone mentre le bombe incendiarie, appositamente studiate per causare il massimo danno tra gli edifici in legno, distrussero circa 270.000 abitazioni. La perdita dell’isola inoltre privò il Giappone della sua principale postazione radar e dell’ultimo aeroporto da cui i caccia nipponici avrebbero potuto contrastare le incursioni. Il comando americano valutava di poter occupare l’isola in pochi giorni, con un massiccio sbarco preceduto da pesanti martellamenti dal cielo e dal mare, e lo stesso quartier generale nipponico era rassegnato fin dall'inizio ad una rapida sconfitta.
Tadamichi Kuribayashi, 52 anni, comandava la difesa di Iwō Jima. Con straordinaria tenacia impose una rivoluzionaria linea di condotta: non gettarsi sul nemico non appena tentasse lo sbarco, come tradizione dell’esercito imperiale, ma resistere ostinatamente sul posto appoggiandosi ad un intricato ed esteso sistema di cunicoli sotterranei che aveva fatto scavare per tutta l’isola.
In contrasto con la retorica samurai scelse quindi di attaccare solo nei momenti adatti per poi ritirarsi immediatamente al riparo, vietando ai suoi uomini qualunque sconsiderato atto di “eroismo”. In caso di sconfitta proibì loro anche di morire inutilmente adeguandosi all’antico rituale che imponeva allora al soldato di lanciarsi addosso al nemico per trovare una morte gloriosa.
L’8 dicembre 1944 quasi 200 aeroplani sganciarono 800 tonnellate di bombe sull’isola, mentre una squadra navale la colpiva con quasi 7.000 cannonate. Il bombardamento continuò con uguale intensità per altri 74 giorni ma grande fu la meraviglia dei comandi americani quando le fotografie aeree rivelarono che le postazioni difensive non solo non erano state sostanzialmente danneggiate, ma erano addirittura passate da 450 a 750. Tuttavia fu stimato che 5 giorni sarebbero stati sufficienti per occupare l’isola.
L’invasione, preceduta da un bombardamento di tale intensità che un quarto del monte Suribachi saltò letteralmente in aria, ebbe inizio il 19 febbraio 1945 con lo sbarco di 31.000 uomini. Ma solo il 16 marzo, quasi un mese dopo e a prezzo di pesantissime ed impreviste perdite, l’ammiraglio Nimitz poteva comunicare l’avvenuta occupazione dell’isola.
Non era ancora finita. Completamente accerchiato dal nemico, ristretto in uno spazio esiguo in cui non era possibile sottrarsi all’artiglieria ed ai lanciafiamme, senza possibilità di rendere i colpi, Kuribayashi sciolse i suoi soldati dal giuramento che aveva loro richiesto. Non era più necessario sottrarsi alla morte per continuare la lotta. Il 26 marzo comandò i 500 soldati ancora in grado di combattere ad un ultimo disperato attacco. Anche lui perse la vita, ed il suo corpo non venne mai ritrovato. Prima dell’attacco aveva infatti ordinato di rimuovere dalle uniformi ogni insegna di grado o segno di riconoscimento.
Infranse anche la tradizione di compiere seppuku in solitudine dopo aver dato l’ordine dell’attacco, volle invece guidarlo fino all’ultimo mescolandosi tra i suoi uomini. Il suo corpo è probabilmente uno dei 13.000 circa che ancora giacciono insepolti nell’isola.
Nella United State Marine Corps History si afferma, con malcelato stupore ed aperta ammirazione:
L’attacco giapponese sferrato nelle prime ore del mattino del giorno 26 marzo non fu una carica banzai, bensì un piano ben congegnato per causare la massima confusione e distruzione.
Prima di lanciare l'ultimo attacco Kuribayashi aveva inviato un cablogramma al quartier generale:
La battaglia è giunta all’epilogo. Dallo sbarco del nemico, gli uomini al mio comando hanno combattuto in maniera talmente valorosa da commuovere persino gli dei.
In particolare, sommessamente mi compiaccio che abbiano continuato a combattere da coraggiosi, seppure a mani nude e male equipaggiati, sottoposti ad un attacco da terra, dal mare e dal cielo di una superiorità materiale inimmaginabile.
Uno dopo l’altro sono caduti davanti agli attacchi incessanti e tremendi del nemico. Perciò, la situazione è arrivata al punto in cui devo deludere le vostre aspettative e abbandonare questa importante posizione nelle mani del nemico. Con umiltà e sincerità presento le mie più sentite scuse. Non abbiamo più munizionamento e l’acqua è finita. E’ giunto per tutti noi il momento di sferrare il contrattacco finale e combattere valorosamente.
Terminava con questo jisei, poema di addio:
Impossibilitato ad adempiere a questo arduo compito per il nostro paese
Frecce e pallottole esaurite, tristi siamo caduti.
Ma salvo sbaragli il nemico,
Il mio corpo non può marcire nel campo.
Sì, rinascerò nuovamente sette volte
E brandirò la spada.
Quando le lugubri gramaglie ricopriranno quest’isola
Mio unico pensiero sarà la Terra imperiale.
Diversi soldati isolati dai loro compagni continuarono a combattere fino alla fine, alcuni perfino dopo la fine della guerra. Gli ultimi due si arresero il 6 gennaio 1949, a quasi 4 anni dalla conquista dell’isola da parte del nemico, quando la guerra era terminata da circa 3 anni e mezzo. Per comprendere le ragioni di questa ostinata resistenza, non un caso isolato come conferma anche il singolare caso di Hiroo Onoda, occorre riflettere molto seriamente sulla educazione marziale della classe feudale samurai e di quanti, sebbene vissuti in epoca moderna, scelsero di continuare ad adeguarvisi.
Circa il 95% dei 21.000 difensori di Iwō Jima perse la vita, e i pochi superstiti erano quasi tutti gravemente feriti. Le perdite tra le forze di invasione furono ancora superiori: quasi 29.000 tra morti e feriti, ed ovviamente si tratta di dati che vanno interpretati alla luce della enorme disparità di forze e di appoggio logistico tra i due schieramenti in campo. Il generale di Divisione del corpo dei marines Holland M. Smith, comandante dell’attacco a Iwō Jima, così si espresse:
Di tutti i nostri nemici nel Pacifico, Kuribayashi era il più temibile. Alcuni comandanti delle isole giapponesi erano puri nomi per noi, e scomparvero nell’anonimato dei cadaveri nemici lasciati alle squadre di seppellimento. La personalità di Kuribayashi era profondamente impressa nelle difese sotterranee che realizzò ad Iwo Jima.
Il quartier generale nipponico censurò l’ultimo messaggio di Kuribayashi, pubblicandolo con pesanti modifiche del 22 marzo 1945:
La battaglia è giunta all’epilogo. A mezzanotte del 17 (sappiamo invece che Kuribayashi attese lucidamente fino all’ultimo il momento migliore per l’attacco, il 26 marzo) sarò alla testa dei miei uomini e, pregando per la vittoria certa e la sicurezza della patria imperiale, tutti sferreremo risolutamente un eroico attacco finale
Tra le altre modifiche, il jisei della versione ufficiale riporta:
Frecce e pallottole esaurite, mortificati siamo caduti.
Ma nel 1994 l’imperatore Akihito, che con l’ascesa al trono ha dato inizio all’epoca Heisei, del Raggiungimento della pace, visitò l’isola di Iwō Jima rendendo omaggio ai caduti. Lasciò una breve poesia, nella quale è impossibile non scorgere un omaggio all’ultimo messaggio di Kuribayashi, che fu allora censurato ma anche in seguito non venne mai ufficialmente divulgato.
Gli uomini che combatterono col cuore e con l’anima
Ancora dormono nel sottosuolo
Di questa triste isola.
Al libro è ispirata la pellicola Iō Jima Kara no Tegami (Lettere da Iwo Jima) di Clint Eastwood, che racconta dal lato giapponese la storia della grande battaglia, in cui il generale Kuribayashi è interpretato da Ken Watanabe.
Eastwood dà spazio alla voce degli sconfitti contraddicendo l’adagio tacitiano che la storia la fa chi vince. Ma occorre ricordare che lo stesso Tacito, sia in La vita di Agricola che in Germania, dà voce ai sentimenti dei britanni e dei germani piegati dalla potenza di Roma.
Occorre dire che la pellicola pur raccomandabile non si può considerare allo stesso livello del libro – ma raramente le immagini possono essere all’altezza della parola scritta – e non riesce a mettere completamente in luce la grande umanità di Kuribayashi, calcando troppo la mano sugli aspetti macabramente spettacolari della guerra moderna anche se con la condivisibile intenzione di condannarli.
Flags of Our Fathers, tratto dall’omonimo libro pubblicato nel 2000 da James Bradley e diretto sempre da Clint Eastwood, tenta di descrivere la terribile battaglia dal lato delle forze d’invasione alleate.
Dopo un non breve preambolo dedicato alla descrizione dei preparativi, e del loro impatto psicologico sui soldati destinati allo sbarco, il regista descrive l'attonito stupore di soldati ed ufficiali quando sbarcano sull'isola senza colpo ferire, e senza che sia possibile vedere un solo nemico all'orizzonte.
E' la terribilmente efficace strategia adottata da Kuribayashi: dopo avere attirato le truppe d'assalto all'interno, a ridosso delle postazioni fortificate, dopo aver attraversato la nuda terra sconvolta dai loro stessi bombardamenti, gli attaccanti sono sottoposti alla rabbiosa reazione a corta distanza dei difensori ben asseragliati, dovendo pagare un pesantissimo tributo in vite umane.
Solo il 23 febbraio 1945, un gruppetto di sei soldati americani, tra cui John Bradley, padre dell’autore del libro Flags of Our Fathers, issa la bandiera sulla cima del monte Suribachi. Joe Rosenthal con questa fotografia vinse il premio Pulitzer.
L’improvvisata asta della bandiera è una tubazione che le esplosioni hanno strappato dalla fitta rete di bunker e cunicoli sotterranei che il generale Kuribayashi aveva fatto costruire tra inimmaginabili difficoltà.
All’interno del Cimitero Nazionale di Arlington negli Stati Uniti un gruppo statuario in bronzo, il più grande al mondo, riproduce l’episodio. Flag of Our Fathers ricostruisce la terribile battaglia seguendo le vicende di tre dei soldati che innalzarono quella bandiera, trascinati loro malgrado in un estenuente e retorico pelelgrinaggio attraverso l'america per sollecitare - in quanto eroi di guerra - contribuzioni ai fondi patriottici.
La resistenza sotterranea dell'esercito giapponese durò ancora più di un mese dopo che venne issata la bandiera statunitense sul monte Suribachi: come già sappiamo l'ultimo micidiale assalto di Kuribayashi, colmo di tristezza per dover cadere in battaglia assieme ai suoi uomini ma inflessibile nel compiere il suo dovere, ebbe luogo nella notte del 26 marzo.