Inoguchi, Nakajima, Pineau

Vento Divino

Longanesi, 1967

 

Uscito nel 1967 e più volte ripubblicato, in quegli anni i resoconti delle vicende belliche della seconda guerra mondiale avevano conosciuto un momento di grande interesse da parte del pubblico, questo volume fu uno di quelli più diffusi; l'edizione che stiamo recensendo è infatti del 1974 ed appartiene alla serie economica dei Super Pocket, che avevano superato le 500.000 copie.

Scritto a più mani, riporta le testimonianza degli ufficiali superiori Rikichi Inoguchi e Tadashi Nakajima, che ebbero una parte importante nella costituzione e conduzione dei reparti kamikaze, e la traduzione inglese è redatta e controllata da Roger Pineau, ufficiale di Marina degli Stati Uniti, che la integra con la documentazione disponibile da fonti occidentali.

Colpisce immediatamente il lettore, se riesce a cogliere questo importantissimo particolare che non è un semplice dettaglio, che l'organizzazione di reparti suicidi, che si gettassero con il loro aeroplano sulle portaerei nemiche, non fu come molti credono un folle ordine dei comandi supremi a cui le truppe dovettero rassegnarsi, ma venne incontro ad un sentimento già tra loro diffuso e che avevano ripetutamente espresso ai superiori.

E non necessariamente un sentimento impregnato di cieco fanatismo, anzi spesso crudamente realistico. Nel periodo in cui nacquero i reparti suicidi, ossia nell'ottobre 1944, la guerra nel Pacifico poteva ormai considerarsi tecnicamente perduta per il Giappone, che aveva subito perdite tali da non poter affrontare ad armi pari il nemico. I piloti da caccia di conseguenza, se pure conservavano la speranza di sopravvivere ad ogni singolo scontro, erano statisticamente destinati ad essere inesorabilmente abbattuti entro un certo numero di missioni, e quel che è peggio senza alcuna possibilità di infliggere al nemico perdite significative, spesso senza poter nemmeno vibrare alcun colpo. Avevano oramai la sensazione di essere già destinati alla morte, e ad una morte inutile. Si erano quindi già verificati diversi episodi isolati di attacchi suicidi contro velivoli nemici, un po' ovunque nell'ampio teatro della guerra.

E non solo in Giappone, non mancano nemmeno gli esempi italiani, come ricorda Corrado Ricci nella introduzione: seguendo l'esempio di Arturo Dell'Oro, che nel 1917 trovandosi con le armi inceppate si gettò contro un aeroplano nemico, nel 1940 il capitano Graffer in una situazione analoga speronò un bombardiere britannico, riuscendo però a salvarsi dopo l'impatto lanciandosi con il paracadute, ed il romano tenente Serotini trovò la morte in un attacco suicida durante una incursione notturna contro la sua città. L'ultimo è un esempio particolarmente significativo, in quanto Serotini aveva preannunciato il suo proposito, probabilmente consapevole che sarebbe andato a combattere praticamente inerme contro bombardieri pesantemente corazzati indifferenti al fuoco della sua mitragliatrice.

Inoguchi ricorda di essere stato all'inizio fermamente contrario all'idea di attacchi suicidi: nel 1942, quando gli venne richiesto di selezionare piloti di prima classe per destinarli ad attacchi con sottomarini "tascabili", una tattica estremamente pericolosa che lasciava scarse possibilità di sopravvivenza agli equipaggi, aveva risposto: "Vorrebbe dire mandare quasi certamente quella gente al suicidio il che rappresenterebbe una scelta vergognosa, dal punto di vista della correttezza del comando. Per quanto grande e valoroso sia l'ammiraglio Yamamoto, se fa ritorno alle tattiche suicide gli storici lo condanneranno nel futuro per centinaia di anni. ... Di una tale azione dovrà essere reso conto nei cieli".

I sottomarini d'attacco, pilotati da uno o due uomini, erano stati inventati ed adottati per la prima volta dagli italiani. Celebre l'episodio dell'affondamento alla corazzata Valiant da parte di Luigi Durand de la Penne, nel porto di Alessandria nel dicembre 1941. De la Penne non riuscì per problemi tecnici ad attaccare la parte esplosiva del suo "maiale"come veniva chiamato in gergo, alla corazzata nemica, fu costretto a deporlo sul fondo sotto la chiglia. Poi dovette emergere e fu catturato. Portato a bordo della Valiant stessa, informò il comandante Morgan della necessità di far evacuare la nave prima dell'esplosione. Come "ringraziamento" venne imprigionato accanto al deposito munizioni, per costringerlo a dire dove si trovava l'esplosivo, che i sommozzatori inglesi stavano affannosamente cercando attaccato allo scafo. In realtà sarebbe bastato spostare la nave per metterla al sicuro, ma De La Penne decise di non parlare, andando incontro ad una morte praticamente certa. Sopravvisse invece, miracolosamente, all'esplosione, e senza riportare gravi ferite. Nel dopoguerra fu attivo uomo politico, ed anzi era Sottosegretario alla Difesa proprio negli anni 70, quando veniva pubblicato questo libro.

Certamente si trattò in occidente e in Italia di episodi isolati: l'adozione della tattica kamikaze da parte dell'aviazione giapponese non fu invece un fenomeno di massa, del resto l'aviazione da caccia è un reparto di elite per eccellenza, ma fu adottato sistematicamente e con una altissima percentuale di accettazione, anche entusiastica, da parte dei piloti, che effettuarono migliaia di missioni. In parte sicuramente rilevante questo fu dovuto come abbiamo già detto alla amara constatazione di essere praticamente inermi di fronte ad un nemico preponderante, e alla valutazione realistica di essere costretti a concentrarsi contro obiettivi, le portaerei nemiche e le navi da battaglia, che annullavano le possibilità di sopravvivenza dopo l'impatto. Tanto valeva quindi concentrarsi sull'attacco senza lasciarsene distogliere da irrealistiche speranze o manovre di sopravvivenza.

La valutazione dell'impatto psicologico di questa tragica realtà sui piloti giapponesi, non può prescindere da uno studio attento della cultura in cui erano nati e si erano formati, che risentiva ancora fortemente dello spirito samurai dei secoli passati. E' quindi raccomandabile se non addirittura necessario che chiunque voglia entrare in contatto con la civiltà giapponese e comprenderne la cultura si soffermi su questi episodi della seconda guerra mondiale.

L'ammiraglio Onishi, che era tra quelli che avevano espresso forte contrarietà alle tattiche troppo rischiose per i piloti, e che divenne invece più tardi il primo teorico e l'organizzatore degli attacchi kamikaze, così scrisse in onore dei giovani da lui comandati alla morte:

Oggi ancora in boccio, poi dispersi;

la vita è così simile ad un fiore delicato.

Come possiamo sperare che la loro fragranza possa durare per sempre?