Jidai
Takashi Miike: Ichimei
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Takashi Miike: Ichimei (Death of a samurai)
2011
Ebizo Ishikawa, Koji Yakusho, Eita, Hikari Mitsushima.
Takashi Miike è un autore estremamente prolifico, gira in media 6 film l'anno, che ama le tinte forti e i rifacimenti di opere del passato. Abbiamo già parlato di lui nella recensione di Sukiyaki Django, una immaginifica opera in cui vengono mescolati ingredienti tra i più diversi, come i generi western e jidai, come le citazioni nobili e quelle triviali. E torneremo sicuramente ad occuparci di lui.
Ichimei è stato presentato al Festival di Cannes nel 2011, venendo segnalato soprattutto come il primo film in concorso realizzato con tecnica tridimensionale, ma lasciando tiepida la critica e dubbioso Paolo Mereghetti - sul Corriere della Sera on line - per la eccessiva irrealistica nobiltà della trama e del linguaggio dei protagonisti. Con tutto il rispetto dovuto all'illustre critico, è proprio di una certa dignità di comportamento che si avverte la mancanza nella società moderna, mentre ne abbiamo numerosi esempi e non solo giapponesi, nelle culture di altri tempi. Che meritano quindi di essere rivisitate: che abbiamo bisogno di rivisitare.
Si tratta di un omaggio ad Harakiri, opera del 1962 di Masaki Kobayashi, che ebbe due grandi protagonisti: Tatsuya Nakadai e Rentaro Mikuni. Miike ricorre invece a Ebizo Ishikawa nei panni di Hanshiro Tsugumo, il samurai che sfida l'ordine costiuito rappresentato dall'intendente Saito, della casata di Iyi (Koji Yakusho). I costumi sono di Kazuko Kurosawa. E' la seconda opera di ambientazione storica di Miike, ma la prima, 13 assassini, anchessa rifacimento di un film degli anni 60, concedeva quasi tutto all'azione mentre qui la vicenda è molto statica, reggendosi fino alla conclusione finale quasi esclusivamente sul dialogo.
La colonna sonora di Riuichi Sakamoto concede molto allo stile musicale occidentale, mentre quella originale del 1962, di Toru Takemitsu (al suo primo serio impegno prima di divenire giustamente famoso) era di gusto tipicamente giapponese, ma non per ragioni ideologiche: l'autore trovò impossibile seguendo i canoni musicali occidentali esprimere in poche battute i sentimenti richiesti dalle azioni, che spesso concentravano i momenti topici nello spazio di pochi secondi. Riusciva altrove, al contrario, a rendere meno difficili da affrontare le scene più cruente, come nella sanguinosa rappresentazione del seppuku eseguito con una finta lama di bambu. La scena era scandita più che commentata dal triste suono del biwa, tipico strumento a corde giapponese dalle tonalità non riproducibili con analoghi strumenti occidentali.
Potete vedere qui (con sottotitoli in spagnolo) una intervista a Masaki Kobayashi effettuata in occasione di una riedizione della sua opera originale: non tragga in inganno il dialogo, non si sta parlando del rifacimento di Takashi Miike, risalente al 2011. Kobayashi (1916-1996) era già scomparso da tempo al momento che partì il progetto di Miike.
Qui lo vediamo infatti, per quanto non abbiamo informazioni sulla data cui risale l'intervista, già in tarda età e un po' affaticato: dovremmo trovarci nei primi anni 90. Si rianima di colpo quando viene affrontato l'argomento dei suoi collaboratori: erano tutti di grande livello, dagli attori allo sceneggiatore Shinobu Hashimoto, dai direttori artistici Junichi Ozumi e Shigemasa Toda al già ricordato Toru Takemitsu per le musiche: fu un caso fortunato vedere riuniti tanti talenti intorno allo stesso progetto e la carriera di tutti da quel momento decollò.
Kobayashi ricorda anche che a quei tempi di un regista si soleva chiedere se aveva uno stile "alla Mizoguchi" o piuttosto "alla Yamanaka", si era classificati automaticamente in questo o quello stilema. Ma pressoché contemporaneamente diversi direttori decisero di esplorare nuove vie espressive. Era per esempio il caso di Kurosawa, che più o meno nello stesso periodo stava girando Yoshimbo (1961) o forse Sanjuro (1962).
Anche Harakiri venne presentato a Cannes, e Kobayashi ricorda che ci furono diversi fischi di disapprovazione durante le scene più crude, che si convertirono però in applausi quando la magistrale interpretazione di Nakadai rese giustizia al personaggio principale e alle sue ragioni.
Dopo, ebbe l'impressione che gli stessi giornalisti avessero acceso una discussione tra di loro per capirne di più, mentre lui assisteva interessato e divertito.
In quanto al film, venne infine addirittura premiato.
Ricorda però anche che il suo scopo nel dirigere ogni opera era naturalmente di incontrare il favore del pubblico e della critica ma soprattutto di poter immaginare che l'uno o l'altro dei suoi mentori ed ispiratori, Keisuke Kinoshita (1912-1998) ed il poeta Yaichi Aizu (1881-1956), gli dicesse "Bravo, hai fatto un buon lavoro!".
Eppure Kinoshita si rifiutò a lungo di vedere Harakiri, turbato dalla crudezza della trama. Solo diversi anni dopo Kobayashi ebbe la soddisfazione di riceverne i complimenti.
Crediamo con questo di avere incoraggiato la legittima curiosità del lettore, probabilmente desideroso di comprendere come mai un regista già famoso anzi sulla cresta dell'onda come Takashi Miike abbia sentito il bisogno di reinterpretare, a distanza di quasi 50 anni, questo lavoro di Masaki Kobayashi.
E' ora di passare alla recensione di Ichimei.