Jidai
Akira Kurosawa: 1962 - Sanjuro - Il bersaglio cambia
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In Yojimbo i nemici erano dei malviventi organizzati in due grosse bande, che si erano impossessati di una piccola cittadina facendo leva sulle attività semiclandestine come lo spaccio e il contrabbando di alcol o di altri generi di lusso e la prostituzione. Tradizionalmente, in ogni paese del mondo, vengono tacitamente lasciate gestire dalla delinquenza ma coinvolgono sempre di più anche gli onesti cittadini, man mano che la potenza economica e la presenza sul territorio della malvivenza si estendono oltre quei limiti che i benpensanti e la classe dirigente sono abituati ad accettare come fisiologici.
In Sanjuro i nemici sono le istituzioni: la corruzione strisciante che serpeggia proprio nella classe dirigente, per combattere la quale non basta nemmeno il coraggio, quello che mancava ai cittadini oppressi in Yojimbo dalle bande rivali di Ushitora e Kazuemon. Ce l'ha sicuramente il gruppo di giovanissimi samurai che intende ribellarsi al degrado morale delle istituzioni, ma le spade che portano orgogliosamente al fianco si dimostreranno armi assolutamente inadeguate.
Le circostanze richiederanno loro più spesso di nascondersi come topi che di combattere a viso aperto con la spada in pugno, e convinti di sapere perfettamente cosa fare scoprono invece che la sa molto più lunga di loro, sulle cose loro, uno sfaccendato appena appena arrivato, fuori da ogni schema e da ogni convenzione, screanzato e incurante del rispetto dovuto al loro stato sociale.
E pur senza arrivare mai a capire, nemmeno sospettare, chi sia veramente e quali siano i suoi veri scopi, finiranno per seguirlo disciplinatamente: come topolini.
Viene infatti occasionalmente in loro soccorso il vagabondo Sanjuro, che si era appartato per schiacciare un pisolino nell'edificio dove il gruppo di cospiratori al contrario si era riunito per decidere il da farsi, ascoltando involontariamente i loro discorsi.
La sua arma principale, quella che si dimostra praticamente infallibile, e ben più micidiale della sua pur temibile lama, è il cinismo, il disincanto. Sanjuro è fondamentalmente disilluso, appartiene a quella corrente di pensiero che si attiene al principio che, per citare un concetto nostrano, a pensare male si fa peccato. Ma ci si azzecca.
Non che Sanjuro sembri un decisionista: la sua tattica preferita è quella di attendere, schiacciandoci magari sopra l'ennesimo pisolino.
Ripensiamo alle vicende di Sanjuro in questa ottica alternativa: certamente non inedita ma che Kurosawa contrariamente al suo solito non ha sussurrato, preferendo un'opera dai toni molto carichi e dai riferimenti espliciti. Altrettanto certamente però non è stata nemmeno ipotizzata dalla maggioranza di pubblico e critica. Nell'edizione utilizzata per questa recensione, quella inglese, i giudizi concordano: "Rattles along like a John Ford Western... Irresistibly funny" (Tom Mine, The Observer). E ancora: "The humour is bitter, the action ferocious. A minor masterpiece." (Philip French, The Observer).
Quindi secondo molti critici se non tutti, un film di puro intrattenimento. Un'opera minore.
Ma con una riflessione più attenta il giudizio finale complessivo, così come la valutazione dei singoli episodi, può - e probabilmente deve - cambiare.
Nasce il sospetto che le auto citazioni di Kurosawa, quel suo tornare su eventi e su situazioni psicologiche già visti in Yojimbo, non siano frutto del mestiere, espedienti commerciali dell'abile venditore che scommette di nuovo sul prodotto che ha avuto successo l'anno prima, ma necessarie pietre di paragone che l'autore ha voluto introdurre per permettere ai fruitori dell'opera di comprendere se ci siano differenze tra la guerra alla malvivenza e quella alla corruzione del sistema.
Il rapporto conflittuale ma anche dialettico tra Sanjuro e la sua controparte in negativo Muroto, impersonato da Nakadai con la sua impareggiabile capacità di adattarsi in modo assolutamente naturale alle parti in nero nonostante la natura bonaria e riflessiva che emerge nelle interviste, va forse anchesso rivisto sotto questa potenziale prospettiva.
Non c'è sostanziale differenza di pensiero e nemmeno di atteggiamento decisionale tra chi combatte da una parte e dall'altra. Le energie naturali del combattente hanno bisogno di una causa per cui spendersi, qualunque essa sia, e la differenza tra il bene ed il male appare sfumata quando l'esigenza dell'azione, sia che nasca dall'interno sia che dipenda da circostanze esterne, diventa impellente.