Jidai
Akira Kurosawa: 1957 - Il trono di sangue - Epilogo
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Washizu, che sta ancora tentando invano di far tornare in se Akaji, è improvvisamente richiamato fuori da un improvviso clamore.
Uscito nella corte d'armi scopre che le truppe sono in preda al panico, e i soldati corrono all'impazzata in cerca di una impossibile salvezza.
Mentre la nebbia si addensa di nuovo, simbolo della nebbia che ha avvolto il cuore degli uomini, Washizu arresta la corsa di un ufficiale e gli chiede cosa mai stia succedendo.
La risposta è strabiliante: la foresta si muove.
Gli alberi stanno circondando il Castello del Ragno.
Salito sugli spalti, Washizu vuole verificare di persona.
Non riesce a credere a quanto ha appena ascoltato.
Eppure è così.
Avvolti dalla nebbia dell'alba, gli alberi della foresta si stanno muovendo.
Terribili ed inesorabili, si avvicinano sempre più alla cinta muraria del Castello del Ragno.
Washizu non sa più cosa fare, cosa dire alle sue truppe.
Tenta invano di richiamarle all'ordine, di giustificare in qualche modo quello che stanno vedendo dinanzi ai loro occhi.
E' sato proprio lui, rivelando la profezia, a vincolarsi indissolubilmente ad essa.
La foresta sta marciando contro di lui: il suo regno, la sua vita, sono arrivati alla fine.
Travolto dall'ira non è riuscito a trattenersi dall'inveire contro i suoi uomini, accusandoli di tradimento e di vigliaccheria.
Non era in grado di rendersi conto che quella sarebbe stata la goccia che avrebbe fatto definitivamente traboccare il vaso.
Gli aricieri che hanno rivolto le loro armi contro di lui, lo braccano, non gli danno scampo.
L'agonia di Washizu, scandita dal sinistro sibilo delle innumerevoli frecce e dal loro impatto contro le mura della fortezza o contro il corpo di Washizu, o dalle grida di terrore di questulptimo, dura un tempo che allo spettatore sembra interminabile, ed insopportabile.
La freccia che trafigge la gola di Washizu sembra voler finalmente porre termine allo strazio.
Immediatamente chi assiste alla scena si rende conto che quello è il colpo fatale, anche perché simultaneamente, come per un tacito accordo, gli arcieri cessano all'istante i loro tiri.
Non è così: anche se ferito a morte Washizu trova l'estrema energia per scendere dagli spalti, ed avanzare nello spiazzo verso la moltitudine ostile che lo attornia, tentando di impugnare per l'ultima volta la sua spada.
Non ne avrà il tempo.
Crolla nella polvere, che si mescola con la nebbia che ha avvolto fin dall'inizio della vicenda il Castello del Ragno.
I soldati assistono immobili, muti, al suo crollo.
Alla luce dell'alba l'armata nemica si sta avvicinando alle mura, e quello che sembrava il più inestricabile dei misteri si chiarisce.
Sono stati i guerrieri del'esercito nemico a tagliare gli alberi durante la notte, era quella la ragone degli incessanti ciolpi di ascia che si erano sentiti dai posti di guardia.
Era anche quella la ragione per cui i corvi, cacciati dalla foresta, avevano invaso la fortezza e gettato il disordine nella mente dei difensori, con i loro folli voli senza apparente ragione.
Ed ora, nascondendoi dietro gli alberi, sono arrivati talmente vicino da poter lanciare l'ultimo assalto, senza ancora sapere che sarà inutile perché Washizu è stato ucciso dai suoi stessi uomini.
Kurosawa sembra voler lasciare le porte aperte ad una spiegazione razionale degli eventi, pur non rinnegando l'intervento del sovrannaturale.
E' stato il generale Noriyasu, che ha preparato accuratamente il piano di attacco, ad ordinare alle sue truppe di tagliare gli alberi e di proseguire la marcia di avvicinamento alla fortezza facendosi riparo dietro di essi, per non essere avvistati se non all'ultimo e per nascondere la presenza delle macchine da assedio.
L'inquadratura riprende ancora una volta il Castello del Ragno, perennemente avvolto dalla nebbia.
Lentamente la nebbia torna ad avvolgerlo, fino a farlo scomparire del tutto.
Uno squarcio torna poi a farlo intravvedere, ma sono ormai solamente delle rovine, le stesse rovine che avevamo visto nelle immagini di apertura.
Quelle poche rovine che il tempo inesorabile ha voluto lasciare, marcate da un cippo.
Le parole incise su quella stele vengono cantate dal coro:
Ecco, mirate il desolato luogo
ove si ergeva superbo un castello
in cui le brame ebber selvaggio sfogo,
finché soltanto fu di morte ostello.
Regnò, su questa terra che ora langue,
da un furor di potere fatto insano,
un guerriero il cui trono fu di sangue:
ma il trionfo del male è sempre vano.