Haiku
Matsu-Kaze: riflessioni sull'arte dello haiku
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Matsu-kaze: Vento tra i pini
Riflessioni sull’arte dello haiku
di Mario Polia
Trattare, in un breve articolo, di un genere poetico vecchio di quasi cinquecento anni non è solo presuntuoso, è impossibile come è impossibile trattare compiutamente del suo sviluppo ed anche solo accennare in modo conveniente ai suoi autori ed alle loro storie.
Quando si tratta, però, di far intendere l’anima di questo genere poetico (haikai) le cose cambiano: non è più, in questo caso, questione di spazio e di quantità di parole, ma di intensità di contenuti, di suscitare eco che penetrino nel cuore producendo assonanze, ridestando sentimenti latenti o sopiti: sentimenti universali, “umani”, a dispetto delle differenze di latitudine, tempo, lingua, religione e cultura.
Un frammento di vetro, infatti, contiene in piccolo la stessa gloria e lo stesso potere del sole; una goccia di brina notturna racchiude, intatta, la natura della luce della luna.
Così, in queste poche pagine ho voluto trasmettere il profumo ed il sapore di questo frutto d’Oriente, un frutto che ha il gusto profondo del cuore: kokoro no aji.
La traduzione è stata condotta sui testi giapponesi, selezionandoli fra quelli che fanno parte di un’ampia raccolta non ancora pubblicata, tentando di rimanere fedele non solo al significato delle espressioni giapponesi, ma al fluire ed al ritmo dei versi.
Di ogni haiku è stata indicata la parola o la frase che, tradizionalmente, indica la stagione (kigo) e sono stati dati alcuni cenni linguistici.
Alcuni haiku sono stati commentati facendo riferimento ai sentimenti che li animano, alle valenze che le parole sottintendono.
Per altri componimenti, ogni commento sarebbe stato inutile: occorre recepire lo haiku in uno stato di silenzio interiore lasciando che le parole e le sensazioni vibrino nel silenzio e si dissolvano in esso.
In questo modo si diverrà come il foglio su cui il poeta fa scorrere ancora il pennello, come la prima volta.
Solo così, infatti, potrà cogliersi l’essenza dell’idea - impossibile da afferrare con la mente, imposibile da esprimere con le parole - che illuminò come lampo fugace l’anima del poeta o che suscitò in essa, come la rana che salta nell’acqua, sonorità e vibrazioni di luce che s’innalzano e si disperdono fino a che l’acqua ritorna alla quiete originaria.
Shinnen: Inizio d’anno
Ransetsu
(1653-1707)
Ganjitsu ya
harete suzume no
monogatari
Inizio d'anno
storie di passeri
sotto un cielo sereno
kigo:
gan-jitsu, “inizio d’anno”;
harete: “senza nubi”, “aperto”;
suzume no (“di passeri”)
monogatari (“racconti”
I passeri che cinguettano sembrano narrare racconti.
L’inizio dell’anno, nel Giappone tradizionale, coincide con gli inizi della primavera evocata dal cinguettare dei passeri e dal limpido cielo che si stende sul mondo come una promessa.
Onitsura
(1660-1738)
Ô–ashita
mukashi fukinishi
matsu no kaze
Primo giorno dell'anno
un vento di mille anni fa
soffia tra i pini
kigo:
ô ashita: lett. “grande giorno”, il capodanno;
mukashi: lett. “(di) tanto tempo fa”: si noti l’effetto onomatopeico delle due terminazioni in -shi che suggeriscono il sibilare del vento.
Un nuovo anno inizia secondo il calendario degli uomini, ma il vento che oggi soffia tra i pini è lo stesso che vide nascere il mondo e lo vedrà morire.
Il tempo dell’esistenza si compie d’accordo alla durata d’ognuna di esse e secondo la percezione che ogni esistenza ha del proprio tempo.
Il tempo, ogni tempo, tuttavia, inizia e termina nel silenzioso cuore del non-tempo, così come appaiono e scompaiono le onde, o le bolle d’aria, sulla superficie del mare.
Haru: Primavera
Sodô
(1641-1716)
Yado no haru
nanimo naki koso
nanimo are
Primavera
nella mia capanna
non c'è nulla e c'è tutto
kigo:
yado no haru: lett. “primavera della mia capanna” (yado: “alloggio”);
nani-mo naki ... nani-mo are: “nulla” ... “tutto c’è”
Dietro l’assoluta povertà delle cose, oltre l’apparente nulla, palpita l’inesauribile ricchezza del cuore.
Il componimento esprime in modo luminoso uno dei sentimenti più alti e profondi dell’anima giapponese e del poeta di haiku in particolare: sabi, la serena, distaccata solitudine; la semplicità del cuore raggiunta attraverso la semplificazione dei bisogni, mediante l’ordinamento della vita attorno a un Centro vivente che coincide col Cuore del mondo e del tempo.
Bashô
(1644-1694)
Saki midasu
momo no naka yori
hatsu-zakura
Tra fiori di pesco
che sbocciano ovunque
il primo fior di ciliegio
kigo:
hatsu-zakura “primo (hatsu) fior di ciliegio”
Il primo fiore di sakura che sboccia fra la moltitudine di fiori di pesco esprime una distinzione aristocratica che ricorda quella cui allude il vecchio adagio: Hana wa sakura gi hito wa bushi, “Tra i fiori il ciliegio fra gli uomini il guerriero”.
Bashô
Fuku tabi ni
chô no inaoru
yanagi kana
A ogni soffio di vento
volteggiar di farfalle
tra i rami di salice
kigo:
chô, “farfalla”
Nao mitashi
hana ni akeyuku
kami no kao
Ancora vorrei veder
tra i fiori all'alba vagare
il volto del dio
nao: “ancora una volta”; mitashi (mitai): forma ottativa
Per un attimo solo, che vive intatto nel ricordo, il poeta ha visto, tra i fiori dell’alba, la manifestazione, “il volto del dio”: kami no kao. Di quale dio? Del genio del luogo o dell’albero? Non è necessario saperlo, né il poeta lo dice. Kami significa anche “divino”, esprime ciò che è sacro e da cui il sacro si manifesta.
Ciò che Bashô ha visto, per un attimo solo che neppure appartiene al tempo ordinario, è l’eternità radiante dell’Essere, il “corpo di gloria” del Buddha nei fiori dell’alba e vorrebbe coglierla di nuovo, vederla ancora (nao mitashi) tra i fiori di un’altra alba di primavera. Il sentimento che anima questo haiku è yû-gen: il sentimento che si prova dinanzi al subitaneo balenare del mistero nascosto dietro l’apparenza delle cose.
Yû significa, in cinese, “quieto”, “profondo” e gen significa “nero”, “misterioso”, “nascosto”. “La bocca vorrebbe parlare ma le parole scompaiono. La mente vorrebbe comprendere ma i pensieri svaniscono.” (Zenrinkushu)
Bashô
Kiri-shigure
Fuji wo minu hi zo
Omoshiroki
C'è nebbia e piove
il Fuji non si vede
oggi è un buon giorno
kigo:
kiri-shigure, “nebbia-piovasco primaverile”
Sembra quasi di vedere il poeta pronunciare queste parole mentre apre la finestra al mattino.
E tornano alla mente altre sagge parole: “Se il cuore non è in balia dei venti di tempesta, dovunque s’innalzano azzurre montagne e s’estendono cieli sereni” (Saikontan, 291)
Onitsura
(1660-1738)
Ara ao no
yanagi no ito ya
mizu no nagare
Come sono verdi
i penduli rami del salice
sull'acqua che corre
kigo: yanagi hito “i fili (hito) del salice (yanagi)”; ara ao no: lett. “del (no) [salice] intensamente (ara) verde (ao)”
Jôsô
(1661-1704)
Matsu-kaze wo
uchikoshite kiku
kawazu kana
Odo la brezza
correr tra i pini
fra canti di rane
kigo: kawazu “rana/e”
Mokudô
(1666-1723)
Harukaze ya
mugi no naka yuku
mizu no oto
Vento di primavera
corre fra campi d'orzo
murmure d'acque
kigo:
haru-kaze, “vento di primavera”;
mugi no naka: lett. “fra l’orzo”;
mizu no oto: lett. “suono (oto) d’acqua”
La primavera è resa magistralmente con solo tre elementi caratterizzanti: il vento; i campi d’orzo verdeggianti; il suono dell’acqua che corre.
Buson
(1715-1783)
Kusa kasumi
mizu ni koe naki
higure kana
Erbe nebbia
fra acque silenti
il tramonto
kigo:
kasumi “nebbia”;
mizu ni koe naki: lett. “fra (ni) acque (mizu) senza suono (koe naki)”;
higure (hi-kure): “tramonto”
Un pallido sole velato dalle nebbie si perde oltre immobili distese di erbe solcate da acque che scorrono senza rumore. Si avverte, soffuso sulle cose, il sentimento di nostalgia (mono no aware) indotto nel poeta dalla sera che scende sui campi ponendo fine a un altro giorno.
Allo stesso tempo, si sente la sensazione di solitudine (sabi) e di quiete, accentuata efficacemente dall’assenza di verbi. Sabi è anche il silenzio della mente e la quiete silenziosa del cuore che permette di cogliere il significato riposto nelle cose e nei fenomeni della natura, il tralucere dell’inesprimibile.
Buson
Hashi nakute
hi bossen to suru
haru no mizu
Non c'è ponte
il giorno è finito
acqua di primavera
kigo:
haru no mizu: "acqua di primavera"
Si fa notte. L’ora e l’assenza del ponte rende impossibile il guado. Solo allora, costretto a fermarsi, il poeta accetta gli eventi e, nella quiete della sera, s’accorge del sussurrante splendore dell’acqua che corre portando con sé primavera.
Vi è una storia zen che illustra una situazione simile: qualcuno, inseguito da una tigre, fuggendo si trova sul bordo di un precipizio.
Mentre la tigre ringhia minacciosa sopra di lui e sotto si spalanca l’abisso, persa ormai ogni possibilità di risalire o scendere, il fuggiasco si aggrappa ad un appiglio e vede, dinanzi a sé una piantina di fragole. Ne coglie una, l’assapora ed esclama: “Quant’è buona!”
Issa
(1763-1827)
Uguisu ya
gozen e detemo
onaji koe
L'usignolo canta
dinanzi a sua maestà
lo stesso canto
kigo:
uguisu, "usignolo"
In giapponese makoto è la sincerità e la fedeltà alla propria natura ed alla natura delle cose. Il canto dell’uguisu, che s’effonde liberamente dal cuore, è immagine poetica della virtù più cara all’etica del Giappone tradizionale: makoto, leale espressione di verità attraverso l’espressione della propria natura. Si narra che un maestro zen, famoso per la sua saggezza e santità, mentre si accingeva a pronunciare un sermone dinanzi ad una moltitudine di monaci convenuti d’ogni parte per ascoltarlo, sostò lungamente in ascolto del canto dell’uguisu.
Quando l’usignolo terminò il suo canto, il maestro s’inchinò verso i suoi monaci e si accomiatò dicendo che il sermone era terminato e che, da parte sua, egli non avrebbe saputo aggiungere altro.
Issa
Asagao no
hana de fuitaru
iori kana
La mia capanna
è ricoperta
da convolvoli in fiore
kigo:
asagao, "convolvoli" (lett. "volto del mattino")
Povertà materiale che s’ammanta di gloria ad ogni nuova primavera; povertà della mente in cui sbocciano i fiori del Risveglio, in cui rifulge la radiosa ricchezza dello spirito: il Corpo di Gloria del Buddha.
Issa
Yû-zakura
kyô mo mukashi ni
nari ni keri
Ciliegi sul far della sera
anche quest'oggi
è diventato ieri
mukashi: lett. “tempo passato”
Contemplando i ciliegi fioriti, sul far della sera, il poeta avverte la caducità della vita, l’inesorabile legge del tempo che tutto travolge, sentimento che ogni anima sensibile prova e che il giapponese rende con mono-no aware: “compassione” (aware), per ogni cosa e creatura. Allo stesso tempo, però, anche senza esprimerla con le parole, percepisce l’eternità nella fragile bellezza dei fiori e nello scorrer del tempo, come solo il saggio e il poeta sanno percepirla.
Kyôshi
(1874-1959)
Saezuri
takamari owari
shizumarinu
Un canto d'uccello
s'innalza svanisce
silenzio
kigo:
saezuri, “gorgheggio”;
takamaru: “innalzarsi”;
owaru: “finire”
Haiku di rara armonia, la sua dimensione più profonda è il silenzio da cui il canto sembra prorompere per poi essere riassorbito in esso. E, come un canto d’uccello che sgorga improvviso rompendo il silenzio, anche lo haiku nasce dal silenzio per tornare al silenzio dopo solo diciassette sillabe.
Il sentimento, espresso intensamente, è lo yûgen, lo stupore sacro dinanzi al profondo mistero sottinteso ad ogni cosa e ad ogni manifestazione della natura. “Il vecchio pino stormisce la divina saggezza. L’uccello nascosto nel bosco canta l’eterna armonia.” (Zenrinkushu).
Natsu: Estate
Bashô
(1644-1694)
Hototogisu
kieyuku kata e
shima hitotsu
Il canto del cuculo
si perde lontano
verso un'isola sola
Kyorai
(1651-1704)
Suzushisa no
noyama ni mitsuru
nembutsu kana
Cantando la gloria del Buddha
la frescura riempie
i campi ed i monti
kigo:
suzushisa “frescura”;
no (“campi”)
yama (“monti”)
Nella recitazione della formula Namuamidabutsu (“Gloria al Buddha della Terra Pura”, giapp. nembutsu) la mente s’acquieta, si distacca dall’oppressione dell’afa soffocante ed una dolce frescura si stende su ogni cosa.
In un’occasione assai più drammatica, nel monastero di Yerin-ji dato alle fiamme da Oda Nobunaga, l’abate Kaisen rivolse ai suoi monaci, che aspettavano la morte seduti in meditazione, l’ultimo sermone: “Per sedere in meditazione quietamente, non c’è bisogno d’andare sui monti, o lungo il corso dei fiumi. Quando la mente è immobile, anche il fuoco è fresco e dà sollievo.”
Kikaku
(1660-1707)
Inazuma ya
kinô wa higashi
kyô wa nishi
Ah, i lampi!
ieri ad oriente
oggi a occidente
kigo:
inazuma “lampi”;
kinô ... kyô: “ieri ... oggi”;
higashi ... nishi: “oriente ... occidente”
Una constatazione apparentemente banale: i lampi scoccano quando e dove vogliono. Già, ma perché? Nella mancata risposta si avverte l’incapacità (e il disinteresse) da parte del poeta di comprendere razionalmente il perché del fenomeno, che egli accetta comunque così com’è.
Allo stesso tempo, dietro l’assenza di risposta e il balenare imprevedibile dei lampi, traspare il senso dell’"oscuro mistero” che avvolge ogni cosa e pure ogni cosa dirige e porta a compimento.
Ryôta
(1707-1787)
Owarete wa
tsuki ni kakururu
hotaru kana
Quando l'insegui
la lucciola s'occulta
nel plenilunio
kigo:
hotaru, “lucciola”
Lo haiku può essere anche interpretato come metafora della conoscenza: spesso siamo simili a colui che insegue lucciole nel plenilunio. Ci affanniamo a inseguire le piccole luci delle opinioni personali o delle idee altrui per rischiarare l’incerto cammino fra le tenebre dimenticando la luce del plenilunio: la verità che splende dovunque, comunque e per tutti coloro che sappiano coglierne la presenza.
E una volta colta, le opinioni e le idee vengono riassorbite nella luce del Risveglio (di cui la luna è metafora) come lucciole nel plenilunio. Purtroppo, molti “Guardando non vedono, udendo non odono” eppure “Nulla da nessuna parte è nascosto, dai tempi dei tempi tutto è chiaro come la luce del giorno.” (Zenrinkushu)
Buson
(1715-1783)
Mijikayo ya
kemushi no ue ni
tsuyu no tama
Breve notte d'estate
sulla peluria del bruco
stille di rugiada
kigo:
mijikayo, “breve notte (d’estate)”;
kemushi no ue ni: lett. “sul bruco (kemushi)”
tsuyu (“rugiada”)
tama (“gocce” ma anche “perle”)
L’estate pervade tutto, anche gli angoli più riposti della natura e le più umili creature. Il poeta canta l’arrivo dell’estate nella brezza e nella rugiada mattutina che accarezzano e imperlano non splendidi fiori ma il vello dorato di un bruco e invita il lettore a fare altrettanto: miyuru, “puoi vedere”. Sempre che si possegga la necessaria semplicità del cuore.
Mano a mano che procede la semplificazione della mente e del cuore del poeta, parimenti procede la sua capacità di prestare attenzione alle piccole cose e quella di cogliere, in esse ed attraverso di esse, l’eterno e l’infinito. Quando si possiede questa capacità di penetrazione, che è capacità di sciogliere il simbolo, non vi è più un soggetto d’ispirazione più grande o meno grande, più illustre o meno illustre, più degno o meno degno, più significativo o meno significativo.
Tutto diviene “significativo” in quanto le cose compiono la loro funzione di “segni”, di simboli, appunto e la realtà acquista significato, la “significatione” dell’Altissimo di cui cantava Frate Francesco.
Buson
Yamabata wo
kosame hareyuku
wakaba kana
Sui campi montani
pioggia leggera svanisce
fra tenere foglie
kigo:
wakaba, lett. “giovani (waka) foglie (ha)”;
yama-bata: “campi coltivati (bata) in montagna (yama)”;
hare-yuku <hareru “schiarire”, “rasserenarsi” (del tempo) e yuku, “andare”;
ko-same: lett. “piccola (ko) pioggia”
Issa
(1763-1827)
Furusato ya
hotoke no kao no
katatsumuri
Ah, il mio luogo natio
il volto della lumaca
è quello del Buddha
kigo:
katatsumuri “chiocciola di terra”
E’ necessaria una buona dose d’irriverenza, o d’illuminazione, per vedere nel muso della lumaca il volto del Buddha. Qui, però, si tratta del secondo caso: visitando i luoghi natali, il poeta torna bambino e nella fanciullezza del cuore, che coincide con la pienezza del Risveglio, vede ogni cosa nella sua vera natura: la medesima del Corpo di Gloria del Buddha.
Eterna e serena, al di là dei nomi e delle forme. “Quando si è penetrato il profondo mistero dell’unica natura, di colpo dimentichiamo i grovigli esterni. Quando le diecimila cose sono viste nella loro unità torniamo all’origine e restiamo dove sempre siamo stati.” (Seng t’san / Sosan: Shinjin mei)
Aki: autunno
Ryûho
(1594-1669)
Tsukikage wo
kumi-koboshikeri
chôzubachi
Attingo e travaso
limpida luce di luna
dal lavatoio
kigo:
tsuki-kage: lett., “luce (kage) di luna (tsuki)”
Il chiarore della luna autunnale empie la vasca del lavatoio ed il secchio con cui l’acqua è attinta e versata. E l’acqua non è più acqua, ma liquida luce di luna. E la luna è la mente, è il cuore.
Bashô
(1644-1694)
Hasu-ike ya
orade sono mama
tama-matsuri
Laghetto dei loti
come sono non colti
per la festa dei morti
kigo:
tama-matsuri, lett. “festa (matsuri) degli spiriti (tama)”; tama-matsuri: indica il compimento dei doveri rituali (matsuri) nei confronti degli spiriti (tama) degli antenati; sono mama: “proprio così”
In occasione della festa dei morti, sul piccolo altare domestico, il tama-dana, si offrono fiori ai morti fra lampade votive. Il poeta vede la natura cogli occhi del risveglio e preferisce non cogliere i fiori di loto del laghetto. Sono essi stessi l’offerta che l’uomo non ha creato e che non occorre cogliere. Il laghetto, l’intera natura sono l’altare d’offerta che la natura, attraverso il poeta, ha dedicato loro. Gli spiriti degli antenati sono lì, fra i loti, a riceverla.
Bashô
Tsuki hayashi
kozue wa ame wo
mochinagara
Tra i rami
bagnati di pioggia
fuggevole luna
kigo:
tsuki hayashi, “luna veloce”;
lett.: “luna (tsuki) veloce (hayashi) mentre (nagara) i rami (kozue) trattengono (mochi) la pioggia (ame)”
Immagine fugace e luminosa che evoca la compassione per le cose percepite quasi attraverso un velo sereno di lacrime.
Bashô
Yo no naka wa
inekaru koro ka
kusa no io
Là fuori
è già tempo di mietere il riso?
capanna di fronde
kigo:
inekaru, “mietitura del riso”; yo no naka ni: lett. “nel mondo”
Nel riparo precario dalle pareti di rami e dal tetto di fronde, dove il poeta si è ritirato per meditare in solitudine, le leggi del tempo sono sospese. Fuori, “nel mondo”, fervono i ritmi della vita e delle stagioni. Forse un canto lontano di mietitori ricorda al poeta che è giunto il tempo della raccolta del riso e gli rammenta che il lavoro è parte del dharma, come lo è la sua solitaria meditazione. Un giorno anch’egli, per vivere, dovrà mangiare di quel riso e chi glielo offrirà chiederà, forse, in cambio una sua preghiera, o una sua poesia.
Ransetsu
(1653-1707)
Hito ha chiru
totsu hito ha chiru
kaze no ue
Una foglia cade
totsu! solo una foglia
sulle ali del vento
lett.: “sul vento (kaze no ue)”
totsu! è un’esclamazione zen volutamente priva di senso, come kwatz! E per questo non l’abbiamo resa in altro modo. Questo haiku è il poema di commiato dalla vita composto da Ransetsu poco prima della sua morte: una foglia si distacca dall’albero della vita, quand’è giunta la sua stagione, e il vento la porta con sé. Da dove viene e dove va il vento? Silenzio, yû-gen, “oscuro mistero”.
Kyoroku
(1655-1715)
Imo wo niru
nabe no naka made
tsukiyo kana
Pur nella pentola
dove bollo patate
la notte di luna!
kigo:
tsuki-yo, "notte di luna"
Tutti (o quasi) sanno apprezzare la bellezza della luna che splende alta nel cielo ma soltanto il poeta è capace di vederla, intatta nella sua bellezza, nell’acqua di una pentola, in una cucina oscura in cui la luna entra dalla finestra. La distanza concreta e la differenza qualitativa, apparentemente infinita, fra la lucente regina della notte e il povero recipiente domestico sporco di fuliggine è abolita. La luna è dovunque, è sostanza immateriale e luminosa. E’ qui ed ora: è l’anima della notte d’autunno. Il tono aulico della poesia che canta la luna nel cielo è stato smesso dal poeta come una veste consunta.
Il cielo e la luna sono anche nella cucina dove il poeta ne contempla la luce, “persino” (made) nella pentola dove cuociono patate per la sua povera cena. La luna splende nella sua anima: è la sua anima ed essa coglie la Realtà “così com’è” (sono mama), nella sua semplice, divina interezza.
E questo è un magnifico esempio di cosa vuol dire haikai, fare haiku. Ma, prima ancora, di cosa significhi vedere il mondo cogli occhi del Risveglio.
Buson
(1715-1783)
Akikaze no
ugokashite yuku
kakashi kana
Vento d'autunno
scuote lo spaventapasseri
e va
kigo:
akikaze, “vento d’autunno”
Il sussulto dello spaventapasseri svela la presenza del vento. Prima e dopo di quel breve sussulto: immobile quiete. Il vuoto del cielo autunnale. Un soffio di vento, per un attimo solo, infonde vita a quello scheletro inerte coperto di stracci. Poi passa oltre e lo spaventapasseri rimane un patetico oggetto abbandonato nei campi. In poche sillabe il poeta coglie nella vita -in ogni vita- il proteiforme gioco della Vita che, per un attimo solo, animando le forme appare e scompare come un riflesso cangiante di luci nel cuore sereno del Vuoto.
Ryôkan
(1756-1831)
Nusubito ni
torinokosareshi
mado no tsuki
Il ladro
ha lasciato la luna
nella finestra
lett. “di ciò che è stato preso (tori no) dal ladro (nusu-hito ni) è rimasta (kosareshi) la luna nella finestra"
Una notte, tornando nella sua capanna, forse dopo aver girato nel villaggio per mendicare un po’ di riso bollito, il monaco zen Ryôkan s’accorge che un ladro gli ha portato via l’unica cosa di un certo valore: la coperta imbottita. Pensa al ladro: un poveraccio ancor più disgraziato di lui, che forse, con l’anima fra i denti, sta ancora correndo col misero bottino su per i monti e sente compassione per lui.
Nella finestra, chiara, splende la luna. La stessa luna illumina il monaco Ryôkan e l’anonimo ladro. Questi non ha potuto portarsela via e non ha potuto neppure rubare dall’anima del monaco il prezioso tesoro della sua illuminazione - di cui la luna è simbolo - lo stesso che gli permette di sorridere della buona e dell’avversa fortuna.
Issa
(1763-1827)
Shiratsuyu no
tama fungaku na
kirigirisu
Grillo
non calpestare le gocce
di bianca rugiada
kigo:
kirigirisu, “grillo”;
shira ... tama: “bianche … gocce”, forse perché illuminate dal plenilunio
Il poeta ammira commosso le goccioline lucenti che il plenilunio trasforma in fragili perle e percepisce tutta la bellezza della loro fugace esistenza, del lucente candore, della chiara verginità. Le gocce di rugiada si trasformano, così, in simbolo di bellezza ed esprimono l’impermanenza di ogni cosa esistente. Nella loro bellezza, che dura una sola notte, il poeta coglie la presenza dell’eterno e prega quindi il grillo di non turbare quell’attimo.
Shiki
(1866-1902)
Nashi muku ya
amaki shizuku no
ha wo taruru
Sbuccio una pera
dalla lama dolce
stilla una goccia
kigo:
nashi, “pera”
Una situazione comune, forse banale, che il poeta rappresenta “così com’è”, ma anche la situazione più comune è specchio del profondo. Coglierne il senso è prerogativa del poeta e del saggio. La dolcezza del frutto bagna la lama che lo taglia, una goccia di dolcezza è il suo ultimo dono. Allo stesso modo, prima di divenire Buddha, nella precedente esistenza il Bodhisattwa offrì il suo giovane corpo a una vecchia tigre ormai incapace di cacciare. Allo stesso modo, in una poesia di Tagore, l’albero del sandalo profuma la lama dell’ascia che lo abbatte.
Fuyu: inverno
Basho
(1644-1694)
Ochikochi ni
taki no oto kiku
ochiba kana
Lontano e vicino si ode
crosciar di cascate
tra foglie cadute
kigo:
ochiba, “foglie (ha) cadute (ochi)”
“Lontano e vicino” (ochi-kochi) amplifica lo spazio e sottintende le diverse intensità del suono delle acque nel bosco.
Basho
Fuyugare ya
yo wa hito iro ni
kaze no oto
Desolazione invernale
in un mondo d'un solo colore
il suono del vento
kigo:
fuyu-gare “desolazione (kare) d’inverno (fuyu)”
Basho
Toginaosu
kagami no kiyoshi
yuki no hana
Chiaro diviene
e puro lo specchio
tra fiori di neve
kigo:
yuki no hana, “fiori di neve”: i cristalli di ghiaccio
Il poeta si riferisce a uno specchio materiale o alla sua mente, diventata limpido specchio tra i cristalli di neve?
Taigi
(1709-1772)
Hakikeru ga
tsui ni wa hakazu e
ochiba kana
Spazzarle via
e poi non spazzar più
le foglie cadute
All’inizio dell’inverno il poeta spazza le foglie morte che il vento ammucchia sulla soglia ma, con l’inoltrarsi della stagione, i mucchi di foglie sono sempre più grandi e spazzarle diviene inutile.
Così il poeta s’arrende, accettando che la natura faccia il suo corso. Depone l’inutile ramazza e passeggia sul tappeto di foglie odoroso e frusciante.
Buson
(1715-1783)
Suisen ni
kitsune asobu ya
yoi tsukiyo
Fra i narcisi
giocano le volpi
bella notte di luna
kigo:
suisen, “narcisi”
Un quadretto di vita selvaggia al chiaro di luna, con un sapore di mistero. Le volpi, infatti, in Giappone spesso sono metamorfosi di spiriti della natura. In questo caso le volpi possono essere semplicemente tali, o essere dèi che danzano sotto la chiara luna d’inverno.
Le due cose sono possibili, entrambi sono reali ed è la capacità di trasfigurare la realtà materiale (capacità che i Greci chiamarono poiesis e ritennero un dono divino) che contraddistingue il poeta.
Buson
Furuike no
oshidori ni yuki furu
yûbe kana
Vecchio stagno
sulle anatre cade la neve
sul far della sera
kigo:
yuki furu, “cade (furu) la neve”;
oshidori: “anatre mandarine”
Una scena invernale ritratta nella sua immediata espressività, come in un rapido schizzo tracciato col pennello e la china: un vecchio stagno, alcune anatre che galleggiano placidamente, quasi immobili; la neve che fiocca lenta sul far della sera. Una scena che infonde un sentimento soffuso di solitudine, silenzio, nostalgia: l’anima dell’inverno si riflette in quella del poeta come in uno specchio.
Seisei
(1869-1937)
Chikurin ni
shigure fukikomu
yûbe kana
Nel bosco di bambù
soffi di gelida pioggia
sul far della sera
Arô
(1879-1951)
Hiyodori no
sorekiri nakazu
yuki no kure
Un uccello ha cantato
poi di nuovo silenzio
nel tramonto nevoso
“Il vento cessa ma ancora piovono fiori. Un uccello canta: la montagna si fa ancor più misteriosa”. (Zenrinkushu)