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Dal Bushidô verso il futuro

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La diffusione e l'utilizzo anche in ambito occidentale del termine bushidô, che significa via del guerriero ed identifica l'assieme di regole di condotta etiche, filosofiche e sociali cui si doveva uniformare il guerriero feudale giapponese, è relativamente recente: chi ha riscoperto questo termine e lo ha reso conosciuto in tutto il mondo come sinonimo del sistema filosofico morale cui si sono attenuti per secoli coloro che appartenevano alla classe samurai è Inazo Nitobe, con l'opera omonima, Bushido, pubblicata in inglese nel 1899.

La classe guerriera conosciuta oggigiorno soprattutto con i termini samurai e talvolta bushi tuttavia ha come detto origine lontane: e di conseguenza non è possibile iniziare una analisi di questa cultura in epoca così tarda. Inizia a ad assumere nella società un ruolo rilevante sul finire dell'epoca Heian (vedi la  Cronologia pubblicata su questo sito) ossia intorno alla fine del XII secolo, elaborando e strutturando i precetti derivati dai raggruppamenti spontanei di guerrieri - bushidan - che legati inizialmente tra loro soprattutto da vincoli di parentela iniziarono a sottomettersi volontariamente alla autorità di Minamoto no Yoritomo, che al termine di un lungo periodo di guerre sanguinose riuscì a prendere definitivamente il sopravvento sulla fazione rivale dei Taira, dando inizio all'epoca dello shogunato di Kamakura.

Le funzioni belliche dei buke, gli uomini d'arme, rimasero sostanzialmente invariate anche nel susseguirsi delle varie dinastie shogunali, per avere termine solamente con il crollo della dinastia Tokugawa, nel 1868, col cui avvento (1602) avevano iniziato gradualmente ad avere maggiore importanza anche nel contesto sociale e politico oltre che in quello militare.

Il codice di condotta della classe dei guerrieri, quello appunto che a partire dalla tarda epoca Meiji si comincia a definire con il termine bushidô in precedenza era identificato come mononofu no michi e tsuwamono no michi, utilizzando vocaboli arcaici per definire i guerrieri (michi è invece la lettura giapponese dell'ideogramma cinese tao, che ha il significato di via, cui si affiancò col tempo anche la pronuncia cinesizzante dô).

Questo codice esercitò una enorme influenza sia sull'intero complesso della società feudale giapponese che sulla struttura etico sociale del Giappone moderno.

I concetti cardine su cui si incentrava la dottrina erano:

Chu:

Fedeltà assoluta verso il proprio signore, che veniva materialmente compensata con l'assegnazione di compiti amministrativi in tempo di pace in aggiunta a quelli militari del tempo di guerra. Del resto non sarebbe stata materialmente possibile senza l'assegnazione di rendite l'esistenza di una classe sociale dedita esclusivamente alle armi, con l'obbligo di rispettare il dovere di addestrarsi in continuazione e lasciare immediatamente ogni cosa quando chiamata alle armi, e con la proibizione di praticare commercio artigianato od altre attività economiche che potessero distogliere dai doveri primari. Naturalmente è nostro dovere osservare che il lungo protrarsi della pax Tokugawa ha inevitabilmente condotto ad un attenuamento della componente bellica, generando la necessità di trasmetterne i principi anche con la redazione di compendi scritti.

Ko:

Fedeltà verso i propri genitori e verso i doveri familiari. La famiglia giapponese tradizionale era fortemente gerarchizzata, per molti versi come quella romana classica ove il paterfamilias aveva potere assoluto di vita e di morte nei confronti di ogni componente della famiglia, per quanto godessero di una relativa autonomia le mogli nella gestione della loro dote e i membri impegnati nel servizio militare che disponevano del soldum ricevuto depositandolo in un fondo detto peculium (da cui la parola italiana peculiare), avevano diritto di dettare su un frammento di coccio (testum) le loro ultime volontà (testamento) e godevano insomma di alcune eccezioni alle regole generali. Tornando a parlare del sistema nipponico, va aggiunto che qui Il paterfamilias poteva decidere di ritirarsi dalla vita attiva, passando l'incarico al figlio da lui scelto, non necessariamente il primogenito.

Questa libertà di scelta del successore non modificava tuttavia in alcun modo i rapporti tra i vari membri della famiglia, che rimanevano ben definiti: i fratelli più giovani dovevano rispetto ed obbedienza a quelli anziani, anche se gerarchicamente loro superiori per necessità contingenti, i membri femminili a quelli maschili, le nuore alle suocere, e così via.

Giri:

Determinazione, tale da accettare serenamente la morte se necessaria, nel compiere i propri doveri. Doveri che erano spesso non facili da identificare, in quanto la complessità della società feudale giapponese poteva portare a conflitti tra differenti doveri a differenti livelli, ma tutti a loro modo imprescindibili. Potevano ad esempio sorgere conflitti tra il dovere di lealtà ed obbedienza verso il tenno (imperatore) e quello verso lo shogun (governatore militare, che in realtà deteneva anche il potere politico ed amministrativo); ovvero tra quello dovuto al proprio daimyo (signore del feudo) e quello dovuto al proprio clan, o tra quelli dovuti a differenti membri della famiglia in eventuale contrasto tra di loro. Da qui nacque l'esigenza di raccolte di regole o in alcuni casi di principi di condotta meno dettagliati e legati alle circostanze, che agevolassero il non facile compito del guerriero chiamato a rispondere ai propri doveri.

Per quanto i concetti basilari risalgano ad epoche ben più remote, solamente a partire dall'epoca Edo appaiono come detto questi testi di riferimento destinati ad elencare sia i principi morali cui il guerriero deve improntare la sua vita, ma anche i veri e propri codici di comportamento che lo orientino nella vita quotidiana consentendogli di conformarsi in essa in ogni momento, anche attraverso i dettami dell'etichetta, ai principi richiamati innanzi.

La ragione di questa innovazione, o per meglio dire di tutta una serie di importanti adattamenti sociali di cui i testi menzionati sono solo un esempio,  va identificata senza alcun dubbio nei mutamenti epocali che il dominio Tokugawa portò con se.

Nel 1673 Yamaga Soko (山鹿 素行, 1622-1685) pubblicò il Buke jiki, enciclopedia in 58 volumi avente l'intenzione di fornire ai samurai un compendio di tutte le conoscenze necessarie per svolgere ogni compito nella società. Iniziava con un sunto sulla storia della casata imperiale, seguivano una genealogia delle maggiori famiglie di guerrieri, il Butô Yoryaku, e una narrazione delle più importanti imprese militari risalenti a partire dall'epoca post-Kamakura (ossia a partire dal XIV secolo).

Terminata la parte storica venivano elencati e minuziosamente descritti i compiti dei samurai, gli studi cui dovevano dedicarsi, i concetti morali cui dovevano improntare la propria condotta. Seguirono numerosi altri testi, tra cui va almeno menzionato il Buke shohatto, in realtà precedente (risalendo al 1615) ma emanato direttamente dal governo Tokugawa e quindi testimonianza di una volontà regolatrice calata dall'alto, non ancora nata da una esigenza diffusa nella classe samurai.

Non si creda comunque che la dottrina dell'epoca procedesse già lungo binari consolidati. Yamaga, seguace del confucianesimo, ad un certo punto del suo percorso ideologico abbandonò tutto quanto fatto in precedenza, arrivando perfino a bruciare i suoi libri. Volle ricominciare senza alcun preconcetto, seguendo però le linee della tradizione e non quelle che erano maggiormente affermate al suo tempo.

L'effetto immediato fu un suo allontanamento dal governo dello shogun, di cui era consulente, e solo col tempo le sue idee iniziarono ad affermarsi. Va notato che Yamaga fu uno dei primi teorici a scrivere le sue opere in giapponese e non in cinese come era costume. I fondamenti del suo pensiero vennero messi per iscritto nel Chucho Jijitsu (Vera storia del Regno di Centro). Risalgono alla sua epoca le prime apparizioni nei testi del termine bushidô.

Da un punto di vista pratico le regole del bushidô richiedevano al guerriero feudale un comportamento attivo al servizio degli ideali della nazione, del feudo, della famiglia, all'adempimento dei quali doveva accingersi non con riluttanza o timore ma con gioia, rivendicando per se l'onore dei compiti più difficili e delle missioni più rischiose. Doveva al tempo stesso  per mezzo di una vita frugale ed operosa porsi nelle migliori condizioni per assolvere quando necessario a questi doveri primari.

A partire dalla media epoca Kamakura (XIII secolo circa), ossia alcune generazioni dopo l'avvento al potere di Minamoto no Yoritomo, l'influsso del pensiero zen aveva profondamente influenzato anche la dottrina del mononofu no michi, mentre la filosofia confuciana, che conobbe un forte sviluppo nell'epoca in cui scriveva Yamaga Soko, gli diede una impronta pù dogmatica, aprendo così la strada a interpretazioni più rigide che lasciavano meno spazio per l'interpretazione personale come quelle teorizzate nell'Hagakure di Yamamoto Tsunetomo, che venne compilato dal suo discepolo Tsuramoto Tashiro tra il 1709 ed il 1716 ma pubblicato solamente diversi anni dopo.

Le profonde trasformazioni dell'era Meiji non intaccarono la validità del mononofu no michi, che venne anche considerato un importante ed imperdibile patrimonio culturale del Giappone. Fu in questa stagione culturale che nacque con l'intento di far partecipe il mondo intero di questo patrimonio l'opera di Nitobe che riportò ad una nuova e fortunata vita il termine bushidô.

Forse, però, non è stata ancora abbastanza avvertita la necessità di adeguare la dottrina ai drastici cambiamenti epocali imposti dalla società moderna. E' evidente che il compito di un guerriero feudale, inserito in una società da lui integralmente accettata cui anzi si prestava come strumento consapevole e pronto a qualunque sacrificio per il raggiungimento dei fini collettivi, è difficile accettabile in una società in cui si stenta a ritrovare degli obiettivi comuni condivisi, ed anzi è sicuro che si debbano compiere spesso delle scelte tra più soluzioni alternative, scelte che difficilmente possono essere fatte da chi ha delegato ad altri le proprie capacità decisionali.

Da qui la necessità di porsi una domanda di importanza vitale: quale è il compito del budoka al giorno d'oggi? E attraverso quale percorso deve arrivare a dotarsi degli strumenti di lavoro necessari ed acquisire l'indispensabile maturità di pensiero per scegliere i propri ideali e difenderli?

Proponiamo una direzione in cui ricercare le soluzioni a queste problematiche partendo da uno spunto preciso: la lezione tenuta da Tada Hiroshi sensei (San Lazzaro, 2008) durante la quale ricordava che le arti marziali classiche erano votate alla formazione dei soldati, e questo compito venne richiesto a lungo anche alle arti marziali moderne. Ma sottolineava subito dopo che per fortuna una evoluzione c'era stata, e verso una accettazione della possibilità del  combattimento pur tuttavia subordinata alla ricerca della pace. Ma, se le moderne vie () di formazione marziale dovessero formare dei combattenti, il loro compito sarebbe piuttosto quello di formare degli ufficiali e non dei soldati. Degli uomini e delle donne capaci di prendere decisioni responsabili e consapevoli, di portarle ad esecuzione e di difenderle personalmente: Ed anche e soprattutto di motivare altre persone a seguire il loro esempio e di formarle per renderle capaci di assolvere ai loro compiti.

Le arti marziali moderne o, per meglio dire, le moderne discipline di formazione derivate dalle antiche arti marziali, non sono destinate a formare soldati, votati esclusivamente ad eseguire fedelmente degli ordini, ma a formare persone autonome, capaci non solamente di distinguere il bene dal male e di scegliere il primo piuttosto che il secondo, ma anche di addestrarsi continuamente, di affinarsi per essere all'altezza del compito e di rispettare i principi etici richiesti a chiunque acceda ad un'arte.

 


 

Come detto in precedenza fin dal XVII secolo - epoca in cui inizia il lungo periodo della pax Tokugawa che durò poi fino al 1868 -  per quanto  la classe guerriera cominciasse a riflettere più profondamente sui propri compiti e sui migliori metodi per preparvisi, molto più di quanto sia possibile se non addiritura consentito in tempi di guerra continua, rimasero comunque separati e distinti i due momenti cruciali del cammino del guerriero: la preparazione materiale e fisica al combattimento e la preparazione mentale, ma anche filosofica e psicologica, che consentisse di cogliere il senso della propria missione.

In parole povere le antiche discipline (koryu) che dovevano essere praticate dal guerriero erano ancora tese a ricercare soprattutto l'efficacia in combattimento, per quanto fosse venuta meno la possibilità - o necessità - di una verifica pratica sui campi di battaglia. Ed erano comunque tutte discipline legate all'uso delle armi ed in modo particolare della spada, riservando un ruolo minore allo studio del combattimento disarmato.

E' infatti risaputo che il samurai aveva obbligo, non facoltà, di essere costantemente armato di due spade, ed era autorizzato od obbligato a deporre quella lunga (di norma la katana) quando era ospite in una dimora altrui, nei locali pubblici e in altre circostanze ancora, ma aveva il dovere di portare sempre sulla persona la seconda lama, il wakizashi ovvero il tanto. E va qui ricercata la differenza concettuale ma con evidenti ripercussioni dal lato tecnico che separa le arti marziali tradizionali giapponesi, destinate ad una elite avvezza all'uso quotidiano della spada, da altre arti che dovremmo definire più popolari se non temessimo con questa definizione di correre il rischio di sembrare critici nei loro confronti.

Tornando alla analisi del samurai di epoca Edo, dobbiamo constatare che la sua formazione intellettuale e psicologica era delegata a discipline differenti, e che a volte agivano per vie indirette: non impartendo al guerriero nozioni particolari ma cercando di stimolare la sua sensibilità attraverso la pratica di arti apparentemente rigidamente strutturate come ad esempio il chanoyu, conosciuto come "la cerimonia del te oppure al contrario apparentemente informali come la calligrafia shodo

Va comunque osservato che anche nella pratica delle armi debbono esservi stati necessariamente, fin da quell'epoca dei correttivi indirizzati ad una maggiore ricerca interiore piuttosto che al raggiungimento di una mera abilità tecnica. Come esempio non possiamo fare a meno di citare la pratica dello iai o battô ryu, ossia della estrazione rapida della spada per reagire ad un pericolo imminente ma in realtà intangibile, immateriale, simbolico: in quanto la pratica dello iai si effettua prevalentemente a solo, senza alcun contendente.

Del resto lo iai si pratica anche, nella maggior parte dei casi, partendo dalla posizione seiza: che è quella in cui normalmente il porto della spada è interdetto. E' indubbio tuttavia che le antiche scuole (koryu) sono indirizzate soprattutto al combattimento.

E' proprio a partire dall'epoca Meiji, in cui il Giappone viene bruscamente messo a confronto con la civiltà occidentale e si rende conto di dover cambiare radicalmente se vuole mantenere non solo qualche possibilità di sopravvivenza ma anche di salvaguardare le proprie tradizioni, che nasce il problema: non è più possibile mantenere vivo il proprio retaggio marziale continuando ad utilizzare i sistemi del passato. «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.» La frase, qualcuno l'avrà riconosciuta, non viene dal lontano oriente: è nata dalla mente dello scrittore italiano Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel suo romanzo Il Gattopardo ambientato nella Sicilia del 1860 nel momento dell'invasione garibaldina. Un momento di cambiamenti irrevocabili, come quelli che avrebbe dovuto affrontare poco dopo, all'altra estremità del mondo, il Giappone.

E' in questa epoca di recupero ma contemporaneamente di trasformazione irrevocabile del patrimonio delle tradizioni guerriere del Giappone, che vede la luce il libro che ha reso celebre il termine bushidô. Che non è tuttavia un libro che intenda solamente raccogliere questo patrimonio, ma piuttosto un saggio che intende soprattutto proporre agli occidentali, cui è rivolto e nella cui lingua (l'inglese) è scritto, una interpretazione del travaglio che sta vivendo il Giappone. Lo stesso titolo potrebbe riflettere se non un cedimento alla moda del momento, un tentativo di indicarvi immediatamente il punto cruciale del cambiamento: i nuovi samurai si preparano alla loro missione seguendo un percorso non più legato alla scuola (ryu) e di conseguenza  non più legato nemmeno alla tecnica (jutsu); su quale sia questo percorso e come vada definito non vi è unanimità.

Ma si diffonde l'abitudine di chiamarlo appunto, forse solo temporaneamente ed in attesa di una definizione migliore, percorso: michi. O più spesso, con una delle tante pronuncie alternative che prevede la lingua giapponese, dô. Suffisso con cui vennero via via contrassegnate, a rimarcare la loro discontinuità ideologica anche se non tecnica dalle antiche discipline, le arti moderne che andavano nascendo: il judô, il kendô, il kyudô, più tardi l'aikidô. Ed è con questo stesso suffisso che Inazo Nitobe sceglie di identificare il percorso ideale non di questo o quel guerriero, ma della classe guerriere in generale: il bushidô.

Rimane ora da definire, dopo aver preliminarmente detto da subito che esiste una discontinuità tra gli antichi ryu e i loro antichi metodi jutsu, quali siano le differenze di impostazione rispetto al passato dei vari , e quali siano i loro obiettivi.

Diciamo immediatamente che molto poco si è studiato e pubblicato su questo argomento, forse per mancanza di stabili piattaforme ideologiche da analizzare.  

Non ci sentiamo infatti di affermare che gli scopi del judô moderno siano gli stessi che Kano aveva identificato, e probabilmente non saremmo nemmeno in grado di identificarli.  

Abbiamo già detto altrove che le moderne arti del budo potrebbero dividersi in tre categorie ben distinte: formali, agonistiche e relazionali. Appartengono al primo genere - formale- le arti che formano il praticante soprattutto attraverso il tentativo di uniformarsi ad un modello ideale, per definizione irragiungibile, attraverso la ripetizione costante di una forma immutabile che rappresenta un combattimento in cui è assente l'avversario (kata). Appartengono al secondo - agonistico o competitivo - le arti che, pur prevedendo talvolta anche una parte dedicata ai kata richiedono momenti di verifica attraverso il confronto con altri praticanti (kumite), al termine dei quali viene attribuita la vittoria all'uno od all'altro.

Il terzo metodo formativo, quello relazionale, è a parere dello scrivente quello da cui sarebbe lecito attendersi maggiori risultati. Esso prevede e richiede un rapporto dialettico tra i praticanti, un continuo e programmato scambio dei ruoli di attaccante destinato a soccombere e difensore chiamato a difendere se stesso certamente ma non ad offendere la controparte.

Per utilizzare i termini utilizzati da Tada sensei: «... è necessario adottiare un sistema di allenamento in cui  non vi sia predominio o antagonismo fra i praticanti, ma che piuttosto permetta il generarsi spontaneo delle tecniche.» E più avanti il maestro parla di "Via della purificazione", specificando che «L'esatta definizione usata più volte da Osensei nei suoi poemi didattici (doka) è "Odo no kami (mu) waza", e si riferisce ad un episodio della storia mitologica del Giappone, in cui Izanagi-no-mikoto, ritornato sulla terra dopo essere scappato dal mondo degli inferi, decise di purificare il corpo e lo spirito dalle orrende esperienze vissute, facendo abluzioni (misogi) in un corso d'acqua pura.»

E' inevitabile constatare che l'aikido, arte cui si riferiva Tada sensei - ed arte relazionale per eccellenza - è in sensibile ritardo non diciamo nel conseguimento di questi ambiziosi risultati, ma anche nell'avvicinarsi ad essi. Non possiamo certamente addossare la responsabilità di tutto questo all'arte. E' probabile che siano stati invece troppi "artisti", traditi forse da un eccessvo innamoramento verso i risultati estetici del loro lavoro, a dimenticarne o a metterne in disparte il significato vero e lo scopo irrinunciabile. Non rimane che augurarci una inversione di tendenza, un momento di riflessione che permetta a molti insegnanti di avere una maggiore incidenza positiva nell'animo ma anche se non soprattutto nella vita stessa, dei praticanti. Non solo nei loro gesti tecnici.

Solo così si potrà rendere il dovuto omaggio ai koryu, le antiche scuole marziali, e permettere che il loro messaggio continui ad essere tramandato nei secoli.

 

 

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