Randori

2010. Il terzo ikkyo: aikido tra i lama

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Fin da molto giovane sono sempre stato attratto dall’incredibile fascino della cultura tibetana. Tutto iniziò quando mia sorella, consapevole della mia totale avversione per la lettura, mi consigliò di provarci con un libro che mi garantiva essere adatto a me.

Ottima intuizione: quel libro si rivelò straordinariamente affascinante. Il testo in questione si intitola “Il terzo occhio” (edito da Mondadori: accanto l'edizione "storica" del 1981, in basso quella reperibile oggigiorno, nella collana Oscar).

E' opera del discusso e discutibile Lobsang Rampa. Per chi non lo conosce è la storia (autobiografica?) di un ragazzo che cresce all’interno di un monastero tibetano e descrive in modo piacevole ed efficace le magiche atmosfere del suo mondo all’epoca in cui sopravviveva ancora splendidamente incontaminato.

 

 

 

 

 

Isolata fra le colossali catene Himalayane dalle influenze del mondo esterno, la medioevale cultura tibetana è infatti miracolosamente sopravvissuta mantenendo il suo secolare equilibrio fatto di perfetta armonia con uno degli ambienti più ostili del pianeta fino al 1959 quando, l’invasione violenta ed ingiustificata da parte della Cina, ha rischiato di porre fine a questa magnifica civiltà, che fedele alla predizione di un antico oracolo è giunta ai giorni nostri rifiutando l’uso della ruota per scopi di trasporto. Le uniche ruote in movimento nel Tibet pre-Cina erano infatti le ruote delle preghiere mosse incessantemente da questo popolo straordinariamente impregnato di religiosità, un popolo che una volta conosciuto non può che essere amato.

Forse la mia giovane mente di quattordicenne era facilmente suggestionabile, ma ancora oggi pensandoci rivivo le emozioni che mi diede la prima lettura di quelle pagine. Fu come essere proiettato nelle atmosfere di una favola, fatta di montagne immense, valli infinite, atmosfere esoteriche e ambienti bui densi di sacralità all’interno dei monasteri. Riflettendo ora mi accorgo che in fondo quel libro seminò nella mia mente quegli entusiasmi che fecero muovere alcuni passi significativi della mia vita e che tutt’ora la trascinano. La curiosità di viaggiare per conoscere civiltà diverse, l’interesse per la cultura orientale e le ricchezze che da questa possono essere attinte e la ricerca di una stupefacente arte marziale che può mettere in grado un immaturo ragazzo di affrontare con successo avversari ben più prestanti di lui.

Forse è partito tutto da lì. Sta di fatto che nell’ ormai lontano 1985 ho intrapreso il mio primo viaggio verso oriente, prima in Tailandia e poi attraverso Hong Kong, per entrare in Cina poco dopo la sua cauta apertura al turismo occidentale. Attratto come da una irresistibile calamita, dopo un percorso incerto irto di difficoltà logistiche e soprattutto burocratiche, il 5 agosto 1985 riuscivo a giungere a Lhasa realizzando un sogno in cui alla partenza non osavo sperare e a prendere il mio primo contatto diretto con questa incredibile cultura annidata sul del tetto del mondo.

Ventisei anni di dominazione cinese si facevano pesantemente notare. Erano evidenti le conseguenze di una sistematica distruzione dei monasteri, di una immigrazione (forzata) di cittadini cinesi e della loro urbanizzazione in stile moderno.

Per una bibliografia orientativa sul problema della sopravvivenza del Tibet tradizionale, vedere al termine dell'articolo.

Questo insediamento volutamente insultava l’architettura autoctona e la discreta struttura della Lhasa originale da sempre dominata dall’imponente presenza del Potala, fortunatamente risparmiato dalla furia iconoclasta cinese.

 

 

 

Tanti erano i segni del vento di distruzione che aveva stravolto il Tibet.

Anche se la mia conoscenza di quella cultura ai tempi era molto superficiale, era evidentissimo il contrasto e vivissima la sensazione di ciò che era andato perduto.

Tutto questo procurava in me - come nei pochissimi viaggiatori occidentali presenti - un sentimento di profonda tristezza, rabbia e compassione.

Mi si stringeva il cuore e l’ammirazione per tutto quello che vedevo era frustrata dalla tristezza.

 

 

 

 

Ricordo la desolazione e il groppo alla gola che mi prese quando girando per Lhasa, tentando di orientarmi e di ritrovare i luoghi descritti nel racconto, chiesi ad un tibetano di indicarmi il Chak Pori.

Il tempio della medicina tibetana, sede delle vicende narrate.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi fu indicata una altura che anche la mappa disegnata sul mio libro riportava.

Ma in cima ad essa non esisteva più nulla se non un enorme traliccio d’acciaio.

Di quel gioiello di architettura tibetana e di quel contenitore di infinita conoscenza e saggezza non restava che un grigio cumulo di macerie, una cascata di polvere e detriti lungo le pendici del promontorio.

Tutto era stato meticolosamente demolito fino alle fondamenta, mattone per mattone come la quasi totalità dei monasteri su tutti i territori occupati. Di quale tesoro inestimabile il mondo era stato privato!

Non mi rendevo conto allora di quella che è stata in fondo per me una immensa fortuna. Vivevo l’esperienza, roso dalla nostalgia di un passato ormai irrimediabilmente perduto, e non mi rendevo conto che le cose di lì a poco sarebbero velocissimamente e inesorabilmente cambiate in peggio. Chi è stato a Lhasa anche pochi anni dopo, descrivendomene la trasformazione, ha completamente azzerato in me il desiderio di tornarci. Troppa la sofferenza nel vedere lo strazio che i Cinesi stavano deliberatamente mettendo in atto per togliere la vita alla cultura tibetana trasformando quella lontana provincia in una fonte di ricchezza, saccheggiandola di ogni sua risorsa, sfruttandola come discarica nucleare e business turistico, militarizzandola all’inverosimile per prevenire ribellioni e per farne un cuscino di difesa dallo scomodo colosso confinante, l’India.

Tutto vano: la cultura tibetana è sopravvissuta ed è più viva che mai. La provvidenziale fuga del Dalai Lama appena in tempo per mettersi in salvo e la generosa accoglienza di asilo prestata dall’India l'hanno preservata. Milioni di tibetani da allora hanno varcato a piedi la catena himalaiana per sfuggire ai soprusi e alle violenze cinesi.

Tutt’ora l’esodo persiste e in continuazione i profughi che sopravvivono alla disperata traversata di quell’oceano di ghiaccio oltre i 5000 metri di quota, vengono accolti dal governo indiano e dalla comunità tibetana che ha ricostituito il centro della propria identità nei pressi della città di Dharamsala nel nord dell’India.

L’innamoramento per la cultura tibetana mi ha in seguito portato a far parte per diversi anni della associazione Italia-Tibet e ad intraprendere un viaggio nel Laddak nel 1986. Effettuata nel 1997 una adozione a distanza, quattro anni fa io e mia moglie abbiamo visitato una grossa colonia di profughi nel sud dell’India e abbiamo finalmente conosciuto quella famiglia e quella bimba tibetana ormai divenuta una timida adolescente che parla però un inglese più corretto del mio.

 

 

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