Cronache

2010. Il terzo ikkyo: aikido tra i lama

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Fin da molto giovane sono sempre stato attratto dall’incredibile fascino della cultura tibetana. Tutto iniziò quando mia sorella, consapevole della mia totale avversione per la lettura, mi consigliò di provarci con un libro che mi garantiva essere adatto a me.

Ottima intuizione: quel libro si rivelò straordinariamente affascinante. Il testo in questione si intitola “Il terzo occhio” (edito da Mondadori: accanto l'edizione "storica" del 1981, in basso quella reperibile oggigiorno, nella collana Oscar).

E' opera del discusso e discutibile Lobsang Rampa. Per chi non lo conosce è la storia (autobiografica?) di un ragazzo che cresce all’interno di un monastero tibetano e descrive in modo piacevole ed efficace le magiche atmosfere del suo mondo all’epoca in cui sopravviveva ancora splendidamente incontaminato.

 

 

 

 

 

Isolata fra le colossali catene Himalayane dalle influenze del mondo esterno, la medioevale cultura tibetana è infatti miracolosamente sopravvissuta mantenendo il suo secolare equilibrio fatto di perfetta armonia con uno degli ambienti più ostili del pianeta fino al 1959 quando, l’invasione violenta ed ingiustificata da parte della Cina, ha rischiato di porre fine a questa magnifica civiltà, che fedele alla predizione di un antico oracolo è giunta ai giorni nostri rifiutando l’uso della ruota per scopi di trasporto. Le uniche ruote in movimento nel Tibet pre-Cina erano infatti le ruote delle preghiere mosse incessantemente da questo popolo straordinariamente impregnato di religiosità, un popolo che una volta conosciuto non può che essere amato.

Forse la mia giovane mente di quattordicenne era facilmente suggestionabile, ma ancora oggi pensandoci rivivo le emozioni che mi diede la prima lettura di quelle pagine. Fu come essere proiettato nelle atmosfere di una favola, fatta di montagne immense, valli infinite, atmosfere esoteriche e ambienti bui densi di sacralità all’interno dei monasteri. Riflettendo ora mi accorgo che in fondo quel libro seminò nella mia mente quegli entusiasmi che fecero muovere alcuni passi significativi della mia vita e che tutt’ora la trascinano. La curiosità di viaggiare per conoscere civiltà diverse, l’interesse per la cultura orientale e le ricchezze che da questa possono essere attinte e la ricerca di una stupefacente arte marziale che può mettere in grado un immaturo ragazzo di affrontare con successo avversari ben più prestanti di lui.

Forse è partito tutto da lì. Sta di fatto che nell’ ormai lontano 1985 ho intrapreso il mio primo viaggio verso oriente, prima in Tailandia e poi attraverso Hong Kong, per entrare in Cina poco dopo la sua cauta apertura al turismo occidentale. Attratto come da una irresistibile calamita, dopo un percorso incerto irto di difficoltà logistiche e soprattutto burocratiche, il 5 agosto 1985 riuscivo a giungere a Lhasa realizzando un sogno in cui alla partenza non osavo sperare e a prendere il mio primo contatto diretto con questa incredibile cultura annidata sul del tetto del mondo.

Ventisei anni di dominazione cinese si facevano pesantemente notare. Erano evidenti le conseguenze di una sistematica distruzione dei monasteri, di una immigrazione (forzata) di cittadini cinesi e della loro urbanizzazione in stile moderno.

Per una bibliografia orientativa sul problema della sopravvivenza del Tibet tradizionale, vedere al termine dell'articolo.

Questo insediamento volutamente insultava l’architettura autoctona e la discreta struttura della Lhasa originale da sempre dominata dall’imponente presenza del Potala, fortunatamente risparmiato dalla furia iconoclasta cinese.

 

 

 

Tanti erano i segni del vento di distruzione che aveva stravolto il Tibet.

Anche se la mia conoscenza di quella cultura ai tempi era molto superficiale, era evidentissimo il contrasto e vivissima la sensazione di ciò che era andato perduto.

Tutto questo procurava in me - come nei pochissimi viaggiatori occidentali presenti - un sentimento di profonda tristezza, rabbia e compassione.

Mi si stringeva il cuore e l’ammirazione per tutto quello che vedevo era frustrata dalla tristezza.

 

 

 

 

Ricordo la desolazione e il groppo alla gola che mi prese quando girando per Lhasa, tentando di orientarmi e di ritrovare i luoghi descritti nel racconto, chiesi ad un tibetano di indicarmi il Chak Pori.

Il tempio della medicina tibetana, sede delle vicende narrate.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi fu indicata una altura che anche la mappa disegnata sul mio libro riportava.

Ma in cima ad essa non esisteva più nulla se non un enorme traliccio d’acciaio.

Di quel gioiello di architettura tibetana e di quel contenitore di infinita conoscenza e saggezza non restava che un grigio cumulo di macerie, una cascata di polvere e detriti lungo le pendici del promontorio.

Tutto era stato meticolosamente demolito fino alle fondamenta, mattone per mattone come la quasi totalità dei monasteri su tutti i territori occupati. Di quale tesoro inestimabile il mondo era stato privato!

Non mi rendevo conto allora di quella che è stata in fondo per me una immensa fortuna. Vivevo l’esperienza, roso dalla nostalgia di un passato ormai irrimediabilmente perduto, e non mi rendevo conto che le cose di lì a poco sarebbero velocissimamente e inesorabilmente cambiate in peggio. Chi è stato a Lhasa anche pochi anni dopo, descrivendomene la trasformazione, ha completamente azzerato in me il desiderio di tornarci. Troppa la sofferenza nel vedere lo strazio che i Cinesi stavano deliberatamente mettendo in atto per togliere la vita alla cultura tibetana trasformando quella lontana provincia in una fonte di ricchezza, saccheggiandola di ogni sua risorsa, sfruttandola come discarica nucleare e business turistico, militarizzandola all’inverosimile per prevenire ribellioni e per farne un cuscino di difesa dallo scomodo colosso confinante, l’India.

Tutto vano: la cultura tibetana è sopravvissuta ed è più viva che mai. La provvidenziale fuga del Dalai Lama appena in tempo per mettersi in salvo e la generosa accoglienza di asilo prestata dall’India l'hanno preservata. Milioni di tibetani da allora hanno varcato a piedi la catena himalaiana per sfuggire ai soprusi e alle violenze cinesi.

Tutt’ora l’esodo persiste e in continuazione i profughi che sopravvivono alla disperata traversata di quell’oceano di ghiaccio oltre i 5000 metri di quota, vengono accolti dal governo indiano e dalla comunità tibetana che ha ricostituito il centro della propria identità nei pressi della città di Dharamsala nel nord dell’India.

L’innamoramento per la cultura tibetana mi ha in seguito portato a far parte per diversi anni della associazione Italia-Tibet e ad intraprendere un viaggio nel Laddak nel 1986. Effettuata nel 1997 una adozione a distanza, quattro anni fa io e mia moglie abbiamo visitato una grossa colonia di profughi nel sud dell’India e abbiamo finalmente conosciuto quella famiglia e quella bimba tibetana ormai divenuta una timida adolescente che parla però un inglese più corretto del mio.

 

 


 

Fin qui ritengo tutto normale, tutto in fondo prevedibile: se si è attratti da una cultura è logico che prima o poi se ne entri più intimamente in contatto. Quello che mi è successo quest’anno invece non era assolutamente ipotizzabile.

Faccio ancora un passo indietro, nel febbraio 2004, interessato alla pratica dell’Aikido, afferisce al mio Dojo un personaggio singolare, Roberto Rivola, accompagnato da Ivana sua compagna nella vita e nel lavoro.

Un lavoro molto originale, spettacoli di illusionismo con specializzazione nell’escapologia (per intendersi la stessa del famoso Mago Houdini).

Roberto si esibisce sulle navi da crociera con il nome d’arte di Robert Kimera e la sua attività lo porta a viaggiare per tutto il mondo maturando una mentalità particolarmente aperta e cosmopolita. Sua passione fin dall’età di otto anni le arti marziali.

Ha un precocissimo contatto con l’aikido sotto la guida di Maurizio Pastore, che solo pochissimi in Italia possono ricordare, durante una sua breve permanenza a Faenza città d’origine di Roberto.

Continua la pratica assidua quasi ossessiva di vari stili marziali conseguendo nelle varie discipline la cintura nera dal 1° fino al 6° dan; tra questi prima di tutto la Kick Box che lo ha visto protagonista di competizioni a livello internazionale, ma anche Karate Shotokan, Nambudo, Ju Jutsu, Escrima, Wing Chung e vari stili di Kung Fu e Thai Chi.

Come a molti marzialisti succede, questo cammino lo riconduce infine all’ Aikido. Durante una fase prolungata di permanenza presso la sua residenza di Cattolica intraprende la pratica nel mio Dojo insieme ad Ivana la quale rivela fin da subito un talento non comune.

La natura del suo lavoro non gli permette di essere assiduo e purtroppo un banale ma grave incidente lo ferma mentre si preparava per una sensazionale performance: lanciarsi col paracadute in caduta libera imprigionato da una camicia di forza.

L’incidente e la lunga riabilitazione lo costringono ad una prolungata pausa durante la quale continua a coltivare la sua passione per la cultura e le religioni orientali, la meditazione e lo Yoga. La sua ricerca interiore e l’interesse per il Buddismo lo portano infine a decidere di trasferirsi in India nel monastero di Palpung Sherabling presso il quale vive da tre anni insieme ad Ivana.

Questo monastero incastonato tra le montagne e sommerso dai boschi è situato a 50 chilometri dalla residenza del Dalai Lama che non si trova come tutti dicono a Dharamsala ma nei pressi di questa, precisamente a McLeod Ganj.

Questo ex villaggio di montagna con l’instaurazione del Dalai Lama si è in 50 anni trasformato in una “Mecca” per chi si interessa di Buddismo, per chi fa turismo alternativo ed è ora un divertentissimo calderone di giovani viaggiatori con abbigliamento e comportamento spesso stravaganti.

In questi tre anni di permanenza Roberto e Ivana sono entrati via via sempre più in sintonia con la vita del monastero. Seguono gli insegnamenti di due fra i personaggi che insieme allo stesso Dalai Lama costituiscono l’attuale vertice del Buddismo Tibetano. Sto parlando del His Holines Gyalwa Karmapa e del Kenting Tai Situ Rimpoche.

Per capirci sulla levatura dei due personaggi, alle cui udienze abbiamo avuto la fortuna di prendere parte, dirò che il primo è colui che sarà destinato a sostituire il Dalai Lama e a riconoscerne la futura reincarnazione, mentre il Tai Situ - che è tra l’altro l’abate reggente del Monastero di Sherabling - è colui che lo dovrà probabilmente istruire.

Il termine Rimpoche, traducibile letteralmente con “prezioso”, è in realtà l’appellativo dato nel Buddismo Tibetano ai personaggi religiosi di cui si conosce per certo la precedente incarnazione.

Nel caso del Karmapa la catena delle esistenze precedenti conduce addirittura al principe Siddarta che, divenuto il Budda dopo aver raggiunto l’illuminazione, ha iniziato la diffusione della dottrina in Asia.

 

 


 

Ho già chiacchierato parecchio ma ancora non si capisce come sia successo quello che dalle foto è già evidente.

E cioè come mai proprio a me che non sono un aikidoka particolarmente meditativo sia capitato di finire in un monastero e per di più non per imparare meditazione o quant’altro ma per insegnare ai monaci l’aikido!

 

 

 

 

 

 

 

 

Il fatto è che Roberto, integrandosi sempre più con la vita del monastero e smanioso di rendersi utile all’interno di quella comunità, ha finito con il dirigere con la benedizione dello stesso Tai Situ un corso di formazione marziale ad ampio raggio mettendo in campo tutta la sua esperienza e polivalenza. Ne potrete sapere di più andando al sito che ha creato per parlare di questa sua avventura.

Roberto è tra l’altro insegnante diplomato I.S.E.F. e una volta che gli è stato affidato un primo gruppo di venti giovani monaci non ha mancato di riscuotere successo, tanto è che quest’anno l’incarico gli è stato confermato raddoppiando il numero degli allievi.

Nel corso del loro ultimo passaggio in Italia Roberto e Ivana sono tornati a far visita al Dojo raccontandoci la loro straordinaria esperienza e il progetto a cui stanno lavorando. Alla fine ne è scaturita una proposta che ho recepito ma che era difficile da prendere in considerazione.

L’India non è proprio dietro l’angolo e la cultura tibetana non è l’unica che mi interessi, in fondo mi interessano tutte, infatti quest’anno la meta dovevano essere gli aridi scenari del deserto del Rajastan. Casualità vuole però che l’amico Claudio Cardelli, studioso esperto di cultura indiana e tibetana, forte dei suoi trentatre viaggi in quelle regioni, consultato a due giorni dalla partenza mi informa dell’ondata di caldo torrido che sta investendo l’India con temperature oltre 40° a Dheli e oltre i 50° nel Rajastan! Viaggiatori tosti sì, ma masochisti no. Quindi all’ultimo momento si cambia itinerario e si decide di puntare a nord al fresco fra le montagne per organizzare un trekking che ci porterà oltre i 4000 m. A quel punto però è impossibile non far visita ai nostri amici e così, infilati all’ultimo momento keikogi e hakama nello zaino, si parte.

Raggiunta la meta, subito un colpo di fortuna. Appena arrivati al monastero di Palpung Sherabling cerco di rintracciare la coppia e alla fine qualcuno mi conduce in una sala gremita di persone in attesa per l’udienza del Tai Situ, giusto l’ultima prima di un lungo ritiro che inizierà per lui due giorni dopo.

L’udienza ha appena avuto inizio e nella sala privata a colloquio ci sono proprio i miei amici che essendo interni del monastero si sono organizzati per essere i primi ad entrare. Attendo a lungo - in India tutto avviene con molta calma - e intanto scruto le varie delegazioni di fedeli giunte da ogni dove.

Il gruppo più numeroso viene da Hong Kong; sono tutti con una maglietta del color porpora delle vesti monacali con scritte in cinese e recano in dono la scultura di un dragone in giada avvolta in una kata, la rituale sciarpa bianca tibetana.

Ci sono signore occidentali attempate con l’aria da “romantica donna inglese”, diverse persone dai caratteri indiani e la maggior parte evidentemente tibetani. Io passo il tempo conversando con uno strano giovane, padre austriaco e mamma inglese ma che vive in Mongolia! Ha l’aria “fusissima”, le palpebre a mezz’asta e secondo me l’estasi non la ricerca solo tramite la meditazione ma anche attraverso percorsi più sbrigativi.

Alla fine i nostri amici escono ed è gran festa rivedersi in quel posto così speciale e così lontano da casa. Roberto mi spiega che è un’occasione da non perdere e così dopo una lunga attesa in fila anche noi entriamo per una breve udienza del Tai Situ che non esagero nel definire per quella cultura una sorta di Papa. Vengo presentato da Roberto come il suo maestro di Aikido e la proposta è che sia io per un paio di giorni ad insegnare al gruppo di accoliti per le tre ore di lezione. La semplicità e la cordialità del personaggio sono sorprendenti e mi fanno rivivere le sensazioni vissute in un incontro a quattr’occhi avuto col Doshu presso l’Hombu Dojo.

Evidentemente è prerogativa dei grandi saper essere semplici senza far pesare il proprio ruolo e proprio per la sua semplicità questo contatto è stato magico e carico di emozione. Ricevuta sul collo la Kata in segno di benedizione e congedo, mi allontano un poco frastornato. E’ proprio vero? Domani terrò lezione nel dojo del monastero! Ospitati dalla guest house di recentissima costruzione iniziamo l’esplorazione del complesso monastico. L’ambiente più impressionante è l’ampio piazzale coperto antistante il tempio.

Circondato sui restanti tre lati dagli alloggi dei monaci e dalle aule dove essi studiano, l’ambiente come una enorme cassa armonica risuona costantemente di canti intonati in coro, a volte delle voci squillanti dei giovanissimi a volte dei toni incredibilmente bassi dei monaci anziani.

Tamburi, campanelle, il suono grave delle lunghissime trombe che col loro muggito annunciano l’inizio delle funzioni, l’andirivieni continuo dei religiosi nelle loro vesti rosse e gialle… sembra di vivere fuori dalla realtà.

 

 


 

 

Arriva il giorno dopo: alle ore 15,30 inizia la lezione del gruppo principianti organizzato da pochi mesi, ma per l’occasione i due gruppi vengono riuniti e tutti insieme si farà Aikido per tre ore.

Giunto al dojo, organizzato in un cortile interno che è stato coperto da una struttura leggera, trovo i giovani giunti in anticipo chini sul tatami, intenti a ripulirlo con le tipiche scope indiane prive di bastone.

Roberto mi presenta agli allievi e l’avere di fronte il maestro del loro maestro ha un evidente effetto eccitante per questo gruppo di giovani carichi di entusiasmo come candelotti di dinamite.

 

 

Giovani che non possiedono nulla se non le vesti che indossano, molto spesso orfani che non conoscono neppure per certo il loro luogo di origine e che faticano anche a comunicare fra loro provenendo dalle più diverse province di quello che una volta era l’antico e vasto regno del Tibet.

Ragazzi che studiano duramente abituati all’austerità della vita monacale a cui nella maggior parte dei casi accedono senza una vera vocazione. Del resto anche la partecipazione a questo corso non è decisa da loro ma dai loro insegnanti.

Ragazzi puri come cristalli la cui luce è evidente nei loro occhi; ragazzi a cui per un giorno si presenta una opportunità che a loro appare come straordinaria. Tutto ciò è evidente senza bisogno di scambiare una sola parola.

Roberto dà il via al loro abituale “riscaldamento libero”e la mia mandibola si spalanca di sbalordimento. Subito ha inizio un turbinio di acrobazie messe in atto con incredibile spontaneità e con un coraggio che è più corretto definire pura incoscienza.

Gli esercizi di stretching sono allucinanti, del tipo uno tira di qua l’altro tira di là e quello in mezzo cerca di sopravvivere allo squartamento.

Qualcuno inizia ad inanellare giri su giri di saltelli per scontare la punizione impartita da Roberto il giorno prima e non perdere la prima parte della mia lezione.

 

 

 

Confrontando quell’energia argentina all’annoiata apatia dei nostri giovani cresciuti a merendine e play station, anche io finisco col sentirmi carico di un entusiasmo particolare che non avevo mai provato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non descriverò ora certo la mia lezione ma dirò che la loro concentrazione il loro impegno la loro giocosa e frizzante energia hanno fatto sì che le mie spiegazioni e le mie strategie didattiche abituali abbiano dato risultati sorprendenti.

Nonostante l’ostacolo di dover spiegare per lo più a gesti, questa selezione di autentici fenomeni assorbiva con sorprendente velocità ogni tecnica e correzione.

Al termine della lezione chi si era divertito più di tutti ero sicuramente io.

Come se non bastasse d’un tratto qualcuno giunge bisbigliando qualcosa con tono trafelato. Il Tai Situ in persona accompagnato da un codazzo di seriosi monaci anziani ci onora della sua visita! Subito un silenzio irreale tronca di netto la chiassosa gioia dei seminaristi per trasformarsi in un atteggiamento colmo di rispetto e devozione.

Raccolte le mie favorevolissime impressioni circa le qualità riscontrate nei ragazzi e sul lavoro svolto da Roberto, il Tai Situ assume atteggiamenti molto informali addirittura scherzosi, assolutamente sorprendenti visto l’alto rango del personaggio soprattutto per i giovani monaci.

Assistiamo così allibiti alla performance del Lama che ingaggia con Roberto alcuni scambi di tecniche, essendo lui stesso affascinato dalle arti marziali.

A quella prima lezione ne hanno fatto seguito altre quattro con crescente soddisfazione di tutti.

La loro sfacciata capacità di apprendere quasi mi provocava.

 

Più presentavo cose tecnicamente difficili più loro evidentemente incuriositi e stimolati mi gratificavano.

Per intenderci nei cinque giorni ho proposto tutte le tecniche fino ai koshinage da svariati tipi di attacco compreso ushirowaza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ultimo giorno la mia curiosità mi ha spinto a volere verificare i progressi fatti.

Con una informale prova di esame sulle tecniche di 6° kyu ho riscontrato che quattordici su venti del gruppo avanzati la avrebbe superata.

Sicuramente non merito mio. Merito del lodevole lavoro di base svolto in precedenza da Roberto nonostante il suo 5° kyu di aikido, dello straordinario talento dei ragazzi e probabilmente di quella magica sintonia che si è spontaneamente stabilita.

Il commiato è avvenuto lasciando ad ognuno di loro il biglietto da visita del mio dojo con annotato l’indirizzo del sito. Anche se raramente, per restare al passo col mondo, questi giovani vengono messi davanti ad un computer: quel semplice pezzo di carta e quell’indirizzo hanno rappresentato per loro un vero dono.

A riprova di questo la sera, mentre eravamo a cena con i nostri amici nell’essenziale taverna del monastero, siamo stati raggiunti da Damchoe Thinley (che traduceva in tibetano il mio essenziale inglese) che con i suoi quasi 30 anni (in Tibet si inizia a contare dal concepimento) è il più maturo fra i ragazzi. Recava in mano un dono per me.

Dopo avermi messo al collo una kata bianchissima mi ha consegnato un libro raffigurante opere d’arte del Tai Situ, calligrafie, dipinti e foto artistiche, acquistato facendo una colletta con le loro inesistenti finanze fatte realmente di spiccioli! Commovente, semplicemente commovente. Una stretta di mano con lui seguita da un forte abbraccio ha suggellato il finale di questa avventura che non è detto non possa avere un seguito.

Ciò che mi ha spinto a scrivere questo articolo è la forte emozione vissuta e la traccia indelebile che in me ha lasciato. Comunque vada resta il fatto che qualcosa di speciale è avvenuto.

Questo incontro mi ha dato modo di unire il profondo affetto per la cultura tibetana e la mia competenza e passione per l’aikido. E’ stata una esperienza di insegnamento totalmente diversa da ogni altra.

Una cosa è insegnare nel proprio dojo ai propri allievi o passare conoscenze tecniche a persone che pagano per partecipare ai miei seminari.

Qui lo scambio è avvenuto alla pari, piacere per piacere, soddisfazione di apprendere per soddisfazione di insegnare, di dare qualcosa a questi ragazzi che, benché per certi versi sfortunati, trasmettono una incredibile carica di positività ed ottimismo.

Quel gruppo di giovani monaci mi è rimasto nel cuore e l’unico ostacolo è la grande distanza. Ma, si sa, l’entusiasmo può far spuntare le ali.

Montevecchi Ugo

 

Nota:

Roberto Rivola ha pubblicato nel 2008 un libro sulla questione tibetana e sulle violenze che tutt’ora questo popolo subisce. Il testo intitolato “Verità nascoste” è stato pubblicato a sue spese e il ricavato viene dall’autore devoluto per la causa stessa. Tale testo verrà probabilmente ripubblicato a breve dalla casa editrice “Il Cerchio”.

 


 

Bibliografia consigliata per orientarsi sul problema della sopravvivenza del Tibet tradizionale

 

Harry Wu

Laogai. L'orrore cinese

Spirali, 2008

Pagine 227, cm 14,0x21,5, € 25,00

 

La preziosa testimonianza di un autore impegnato a diffondere la verità sui laogai, i campi di lavoro forzato.

 

 

 

 

 

Laogai Research Foundation

A cura di M.V Cattania e A. Brandi. Prefazione di Harry Wu

Cina, traffici di morte

Guerrini e Associati

€ 21,50

 

Soltanto nel dicembre del 2006 il regime cinese ha riconosciuto che la quasi totalità degli organi umani venduti viene espiantata dai corpi dei prigionieri uccisi. Il traffico degli organi umani è iniziato nel 1984 con almeno 100 ospedali specializzati in questa macabra pratica. Nel 2007 sono oltre 600 gli ospedali in cui si trapiantano gli organi dei condannati a morte. L’incremento di questi ospedali e il graduale aumento del numero dei crimini puniti oggi con la pena capitale avvalorano il sospetto che in Cina si commini con facilità questa misura di pena per ottenere un maggior numero di organi da commerciare. Nel mondo del terzo millennio questi crimini devono cessare. Le nostre coscienze lo richiedono.

 

Bernardo Cervellera

Il rovescio delle medaglie - La Cina e le Olimpiadi

Ancora Editrice, Milano

Pagine 240, € 14,00

 

Sotto i buoni auspici del numero “8”, che in Cina è il numero fortunato, le Olimpiadi di Pechino inaugurate l’8 Agosto del 2008 alle 8 di sera, hanno coperto una serie di violenze e oppressioni avvenute durante la loro preparazione.

 

 

 

 

Claudio Cardelli

Tibetan Shadows

Mediane Edizioni, Milano, 2008

Pagine 280 (140 foto), € 25,00

 

Lingua: Italiano e inglese

 

Racconto, tra parole e immagini, dei viaggi nei territori himalayani. Prefazione di Piero Verni. Presentazione del libro (di Elio Marini): “La “luce” del Tibet, della sua particolare forma di buddismo, della sua originale, strana ed arcaica cultura immutata per secoli, si è irradiata fino ad aree geografiche lontanissime dai confini del “Tibet Nazione” così come si presentava alla vigilia dell’invasione cinese, nell’ottobre 1950. Ovverosia un paese grande più o meno come l’Europa occidentale.

 

Claudio Cardelli

Il mio diario indiano

Editrice Mediane

Pagine 360, 170 foto a colori, € 25,00

Testo: Italiano e Inglese

 

Dopo Tibetan Shadows, uscito un anno prima, Cardelli ha raccolto, in un ricco volume di trecentosessanta pagine, immagini e ricordi dei suoi viaggi più significativi nel subcontinente indiano.

La prefazione, come per Tibetan Shadows, è di Piero Verni.

 

Dalai Lama

La mia terra, la mia gente

Sperling & Kupfer, 2009

Pagine 416, €17,50

 

Nuova edizione aggiornata e ampliata per il 50° anniversario dell’esilio, con un’appendice a cura di Piero Verni, dell’autobiografia del Dalai Lama. Il primo e, forse, il più bello dei libri scritti dal leader tibetano.

 

 

 

 

 

 

Danilo Di Giangi

Fra barbari e dei. La vera politica cinese in Tibet

 

Editrice L'Arciere

Pagine 160, cm 14 x 21, € 13,00

 

 

 

 

 

Ma Jian

Tira fuori la lingua - Storie dal Tibet

Feltrinelli

Pagine 80, € 9,00

 

Il libro che ha costretto Ma Jian all’esilio. Un vivido ritratto del Tibet lontano dall’immagine mitica e stereotipata cui è di solito associato. Cinque racconti che mostrano come la povertà e la repressione politica abbiano annientato quella che un tempo era considerata una cultura ricca e brillante.

 

 

 

 

 

Raimondo Bultrini

Il demone e il Dalai Lama

Baldini Castoldi Dalai

Pagine 406, € 18,00

Editore: Baldini Castoldi Dalai

 

Shugden, demone "feroce" del Pantheon tibetano nato nel 1600, ritorna, dopo secoli di oblio, a scatenare paure e tensioni tra la comunità tibetana esule in India.

 

 

 

 

Inoltre:

 

* David Snellgrove & Hugh Richardson, Segreto Tibet, Corbaccio, 1998

* ICLT, The case of Tibet – Tibet sovereignity and the Tibetan people right to self determination, 1998

* Tulku Thondup, L’arte di curarsi con la mente, Sperling & Kupfer, 1998

* Gilles Van Grasdorff, Panchen Lama, ostaggio di Pechino, Sperling & Kupfer, 1998

* Chogyam Trungpa, Nato in Tibet, Sperling & Kupfer, 1999

* Isabel Hilton, The Search for the Panchen Lama, Viking 1999

* Antonio Attisani, A Ce Lha Mo, studio sulle forme della teatralità tibetana, Leo S. Olschki Editore, Firenze 2001

* Antonio Attisani, Uno strano teatro, Legenda, Torino 2001

* Tenzin Choedrak, Il Palazzo degli Arcobaleni, Sperling & Kupfer, 2000

* Massimo Dusi, La fuga del Piccolo Buddha, Marsilio editori, 2000

* Ani Panchen (con Adelaide Donnelly), Storia di Ani-La, la monaca guerriera del Tibet, Piemme, 2000

* Patrick French, Oltre le porte della Città Proibita, Sperling & Kupfer, 2000

* Eliot Pattison, Il Mantra del Reato, Hobby & Work, Milano 2001

* Charles Allen, Alla ricerca di Shangri-la, Newton & Compton editori, Roma 2000

* P. Broussard, D. Laeng, La Prigioniera di Lhasa, Fandango Libri, Roma 2002

* Gilles Van Grasdorff, La favolosa evasione del Piccolo Buddha, Il Punto d’Incontro, 2002

* Jamyang Norbu, Il Mandala di Sherlock Holmes, Instar edizioni, Torino 2002

* Renata Pisu, Oriente Express, Storie dall’Asia, Sperling & Kupfer, 2002

* Piero Verni, Massimo Bocale, Tibet, ai confini del cielo tra natura e spiritualità, Polaris, 2003

* Piero Verni, Tibet, White Star edizioni, 2003

* Autori Vari, Tibet and Her Neighbours, Hansjorg Mayer, Londra 2003

* Giuseppe Cederna, Il Grande Viaggio, Feltrinelli, Milano 2004

* Jamyang Norbu, La Carta dell’Indipendenza Tibetana, ed. ISCOS Piemonte, Torino 2004

* Danilo di Gangi, Il Gioiello di Neve, L’Arciere, 2004

* Jung Chang - Jon Halliday, Mao, la storia sconosciuta, Milano 2006

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