Origines
Artemarzialmente
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Una domenica mattina di molti anni fa, ritrovandomi sorprendentemente pieno di energie e sostanzialmente senza nulla da fare decisi di andare alla segreteria dell'Aikikai. Non dico per sbrigare un po' di arretrati – cercavo di non averli sapendo che ne sarei stato travolto - ma per andare un po' avanti e poter tirare il fiato in seguito. O eventualmente avere una riserva quando sarebbe capitato il prossimo “imprevedibile” disastro, periodico quanto frequente.
Il rumore della chiave nella serratura, nella quiete della domenica, in quella grande ex caserma lontana dal traffico e ormai deserta in cui occupavamo quelle che sembra fossero prima le scuderie e poi il circolo ufficiali, in mezzo ai platani e al profumo dei tigli e della camomilla selvatica, ai margini di una enorme piazza d'armi da cui ci separava un muro impenetrabile ma che costituiva in ogni caso un'ulteriore oasi di verde... si deve essere notato.
Un paio di centinaia di occhi erano puntati con grande curiosità nella mia direzione, mentre io ero rimasto fermo, appena entrato; non avrei avuto ragione di andare avanti, oltre la porta si trovavano subito a destra la segreteria del Dojo Centrale e a sinistra quella dell'Aikikai dove ero diretto. Avevo ancora le chiavi in mano ma non mi decidevo ad aprire la porta, attratto irresistibilmente da quello che vedevo.
La grande sala del dojo (il solo tatami misurava 10 metri per 30) avrebbe dovuto essere deserta, evocando – lo dicevano tutti i profani che avevano quella visione – le navate di una cattedrale; che emanano a volte quella che perfino i suddetti profani definiscono santità. Ma non era deserta. I duecento e rotti occhi che continuavano a guardarmi appartenevano infatti a una turba di sconosciute e sconosciuti, per quanto il keikogi e la posizione di seiza li facesse immediatamente identificare come praticanti di aikido. Eppure sconosciuti. Gli iscritti all'Aikikai erano già all'epoca migliaia, ma nel grande cardex (classificatore metallico) alla sinistra della mia scrivania c'erano le “schede verdi” di tutti quanti, con relative foto, e all'epoca si vociferava che io avessi una memoria fotografica. Eppure erano tutti sconosciuti.
No: quasi tutti.... dal lato kamiza scorsi infatti D.S., un insegnante siciliano di aikido di cui sapevo che si fosse trasferito nel sud della Germania. E infatti molti di quegli sconosciuti avevano l'inconfondibile aspetto degli invasori teutonici. Già ero un po' più tranquillo: è dai tempi dei Cimbri e Teutoni che quei signori scendono periodicamente e in massa a Roma, un giorno o l'altro ci faremo il callo.
E vicino a lui, in seiza, proprio nello shihandai, qualcunaltro ancor meno sconosciuto: Hosokawa sensei. Che lanciava a qualcuno occhiatacce, nonché impercettibili e vistosi segni (lo so che è una contraddizione, ma che ci posso fare?). Che frequentando giornalmente il maestro riuscivo a interpretare abbastanza fedelmente: “Vatti a cambiare, cretino! E sbrigati!”. E qui il paziente lettore si merita qualche spiegazione. Grazie alla mia doppia funzione di Segretario Nazionale dell'Aikikai e insegnante del dojo ero uno dei privilegiati autorizzati a lasciare keikogi e hakama nello spogliatoio senza riportarli a casa ogni giorno. Cambiarmi in fretta per essere pronto all'uso (e come seppi poi anche all'abuso) non era un problema. Perchè già, nel frattempo avevo anche fulmineamente intuito che il cretino ero io (e so di essere in ritardo, il lettore ci era arrivato da un pezzo).
D.S. aveva rastrellato in Baviera e dintorni un imponente numero di allievi, che aveva introdotto a un sistema didattico volto a un aikido molto morbido (solo dopo si sarebbe detto soft). Di tanto in tanto affittavano un pulmann e se ne andavano in giro per il mondo in allegria, come attività complementare che aumentasse la coesione del gruppo. Avendo pianificato di passare per Roma avevano messo in programma anche una lezione privata col maestro.
Poi, non so come in quanto arrivai dopo, misteriosamente in quanto praticavano con grande entusiasmo un aikido molto ma molto morbido, chiesero a Hosokawa sensei di vedere qualcosa di “marziale”.
Il maestro rimase molto perplesso: nessuna di quelle bravissime persone sarebbe stato in grado a) di abbozzare attacchi verosimili e b) di sopravvivere alle immediate fatali conseguenze per mano sua.
E fu così che divenni, rimanendolo per qualche tempo, l'uke di Hosokawa sensei nelle applicazioni “di artemarzialmente” (cfr. Ikeda sensei, Napoli, 1980, passim).
Non si deve pensare che l'impostazione didattica del maestro fosse indirizzata verso la difesa personale: semplicemente non intendeva rescindere il legame storico, ma anche culturale, tra l'aikido e la tradizione millenaria da cui proveniva.
Erano frequenti i suoi richiami durante l'allenamento ma anche, non ci si sorprenda, durante l'aikitaiso alle possibili applicazioni pratiche di quanto facevamo normalmente al solo scopo primario di accrescere le nostre capacità fisiche, mentali e morali. Il tutto era da lui definito aikijutsu, da non confondere con la quasi omonima disciplina conosciuta anche come Daito ryu o Takeda ryu.
Il suo mawashi geri apparteneva per esempio al genere cosidetto proibito e capitò di chiedergli come approssimare queste sue capacità, magari adottando alcuni sistemi del karate; avevamo infatti nel gruppo molti ex praticanti di altre discipline che qualcosa ne sapevano.
Rispose che non era necessario anzi si sarebbe rivelato alla fine dei conti controproducente se vi si fosse troppo insistito. Erano già presenti nell'aikido e nell'aikitaiso i fondamentali che lo permettevano.
L'esercizio preliminare in cui si esegue un kaiten a sinistra (all'epoca ogni movimento iniziava a sinistra e le ripetizioni erano sempre otto) e poi a destra, puntando il tallone posteriore contro il tatami, era propedeutico all'esecuzione di maegeri chudan.
La posizione è anche analoga a quella dei passi unpo del kata hojoken.
La forma maegeri jodan, sia pure possibile, sia pure spetttacolare, era sconsigliabile in quanto fa perdere facilmente l'assetto a chi la esegue.
Per limitare questo rischio tuttavia aveva introdotto nel taiso degli esercizi tipici dei sumotori finalizzati a maggiore scioltezza degli arti inferiori.
Come sanno i suoi discepoli nell'ikkyo di Hosokawa sensei si avanza di solito col piede esterno e poi si esegue un mezzo kaiten verso l'uke, in un certo senso puntandolo. Questo permetterebbe se fosse il caso di vibrare un maegeri con la gamba interna verso la mascella dell'avversario, mettendolo fuori combattimento. Non è naturalmente la scelta di elezione, ma potrebbe rendersi necessario ove gli avversari fossero diversi e non ci fosse modo di immobilizzare tranquillamente il cliente di turno portandolo a terra in osae.
In alternativa era possibile – horresco referens – vibrare il maegeri o hiza geri sul gomito dell'uke, tenuto saldamente fermo, in modo da inabilitarlo a continuare la discussione, o semplicemente salire con il piede sopra il suo gomito, portandolo a terra in modo molto persuasivo. Nella foto (di Simone Chierchini), il maestro esegue questa forma particolare durante il medesimo seminario cui si riferiva la foto precedente.
Il malcapitato gomito poteva essere anche soggetto a trattamento nell'esecuzione di hijikime osae, sostituendo all'osae un atemi vibrato col proprio gomito, sostituibile e sostituendo nell'allenamento quotidiano, per evitare conseguenze spiacevoli, con un deciso movimento del gomito stesso che ripetesse le modalità e la traiettoria dell'atemi ma con rigoroso controllo. In alternativa, consigliata a chi non avesse grande forza fisica come molte donne, ci si poteva lasciar cadere a peso morto sul gomito preventivamente portato in leva, scalciando le gambe verso l'alto in modo da accrescere la forza dell'impatto. Questa modalità veniva ovviamente provata lasciando la presa prima che il corpo arrivasse a contatto col gomito.
Un tecnica ormai praticamente desueta, aikiotoshi, veniva nella esecuzione giornaliera interrotta a metà sollevando l'uke in aria per poi riportarlo a terra oppure lanciarlo dietro le proprie spalle lasciandogli la possibilità di cadere senza danno. In esecuzione aikijutsu veniva proseguita, sollevando energicamente le gambe di uke, fino a quando la sua nuca impattasse energicamente a terra. Ovviamente l'uke preparato a questa evenienza aveva cura di attutire l'urto con le braccia e tenere la testa sollevata (“Guardare tanden!”).
Non sempre le modalità di esecuzione di Hosokawa sensei erano più “di artemarzialmente” rispetto al quelle di altri maestri. Nella fase finale di sankyo a solo titolo di esempio usava eseguire un rapido irimi tenkan per portare il braccio di uke in una posizione simile a quella di hijikime osae ura (tecnica riservata unicamente alle applicazioni “pratiche”, molto raramente mostrata e unicamente a livello yudansha); ma molto attenuata, non oso dire morbida ma ci andava vicino, semplicemente per mantenere il controllo di uke e da lì andare verso l'immobilizzazione finale.
Tada sensei è uso ad accennare a queste modalità con altra formula rituale: “se arte marziale allora...”; seguita spesso da atemi talmente veloci che si intuiscono solamente. Per evitare che uke si sottragga alla immobilizzazione con un mae ukemi, anche involontario in seguito allo squilibrio, il sankyo "normale" lo accompagna invece molto spesso con un deciso atemi all'occipite. Avvertendo tuttavia che non bisogna eccedere in quanto il colpo potrebbe avere conseguenze superiori al previsto, e al voluto.
Tale colpo, ma non lo spiega facendolo piuttosto semplicemente vedere, viene portato in modalità tale che la sua efficacia sia inevitabile, sia per la modalità di esecuzione sia per la direzione e l'angolazione della zona scelta come obiettivo.
L'atemi di aikido infatti non ha molto a che vedere con quello di altre discipline ed è in sostanza quello che viene spontaneamente, ma efficacemente, vibrato da chi ha consuetudine quotidiana con l'utilizzo della spada.
Nel chudantsuki la mano non viene chiusa completamente, rimane semiaperta come se impugnasse un'arma e si colpisce abitualmente con le nocche, come in questa immagine di anni lontani in cui Fujimoto sensei attacca con il tanto.
Un suo attacco a mano nuda sarebbe stato assolutamente simile, salvo la posizione dell'indice che impugnando il tanto ne aiuta la direzionalità ma andrebbe altrimenti raccolto assieme alle altre dita.
L'atemi non andrebbe indirizzato a caso ma dovrebbe essere ben mirato verso dei punti precisi su cui va concentrata l'energia, la superficie di impatto va quindi ridotta il più possibile e non dovrebbe arrivare a toccare semplicemente l'avversario ma oltrepassarlo. E non solo gli atemi: Asai sensei ricordava che all'Honbu Dojo in anni ancora più lontani si raccomandava di terminare shihonage con l'obiettivo di portare uke non a terra, ma idealmente ben al di sotto del livello del suolo.
Nella esecuzione pratica è quindi preferibile deviare l'atemi per non colpire l'uke, piuttosto che arrestarlo prima del contatto: verrebbe inevitabilmente frenato, perdendo in questo modo completamente la sua efficacia. Ed è una abitudine da non prendere, perché nelle situazioni impreviste scompare facilmente l'intuizione e affiora l'abitudine.
Il colpo può essere eseguito in rotazione per aumentarne le capacità di penetrazione, ma essendo il kamae del praticante di aikido simile a quello della spada non dovrebbe partire mai col palmo in alto (come in alcune scuole di karate per intenderci) e se ruotato dovrebbe ruotare di preferenza in direzione inversa (come quando si subisce kotegaeshi) aumentandone la forza di penetrazione e rendendolo difficilmente visibile. Partendo quindi col palmo in verticale per arrivare a colpire col palmo in alto.
Ma in aikido vengono privilegiate non le percussioni, aventi il massimo di energia ma concentrata in un unico punto facilmente evitabile, ma i tagli, che hanno il loro effetto su una intera linea. Sorvolo su ulteriori descrizioni delle relative modalità, accenno solamente a un tipo di allenamento cui ricorreva con una certa frequenza Hosokawa sensei. Il tori doveva essere circondato da 8 uke, o perlomeno da un numero non inferiore a 4, che gli giravano intorno in continuazione come i pellerossa intorno alla carovana nei film western degli anni 50. Al comando dell'insegnante (UTE!) colpivano all'unisono con uno shomen, il compito di tori essendo meramente quello di evitare di essere colpito. Ne usciva fuori di norma meno ingloriosamente chi applicava nell'evasione gli spostamenti canonici di tsuki ashi, okkuri ashi, ayumi ashi, irimi, tenkan, kaiten. Ma quasi tutti nel panico se ne dimenticavano completamente. Eppure si trattava di un panico del tutto ingiustificato, essendo un semplice allenamento.
Non si creda che le posizioni in materia di aikijutsu fossero le stesse per tutti i maestri storici dell'Aikikai. Hosokawa sensei e Ikeda sensei non solo avevano impostazioni simili ma spesso elaboravano addirittura assieme i loro programmi didattici, della impostazione di Tada sensei ho già accennato.
Fujimoto sensei aveva una ideologia di base differente. Per lui, perlomeno all'epoca poi non ne parlammo più, l'aikido non poteva più essere considerata un'arte marziale, era già qualcosa di diverso. Forse se gliene avessi parlato avrebbe sposato senza riserve la definizione che ne diede Tada sensei, per quanto diversi anni dopo: “una disciplina di formazione derivata dalle antiche arti marziali”.
Ma nemmeno lui voleva rompere il legame tecnico con la tradizione, vi poneva semplicemente meno enfasi. Ricordo una lezione per yudansha in cui dibattè a lungo sul tema gokyo, applicato a una ipotesi di attacco all'alto con tanto (non particolarmente accademica, basta immaginare che al posto del tanto ci sia una bottiglia oppure una sedia e diventa molto realistica).
Propose una sua versione personale, premettendo che non era assolutamente una critica all'altra versione proposta usualmente da Tada sensei. Si dichiarava certo che su 100 esecuzioni il maestro fosse in grado di portarne fino in fondo con assoluta coerenza almeno 101, ma Fuji confessava di non sentirsi alla sua altezza. Proponeva di conseguenza una esecuzione più alla portata dell'essere umano medio, in parole povere più realistica. Il fulcro del tutto, oltre a una entrata meno diretta che permettesse maggiore distanza dall'arma, era la tecnica di disarmo. Rinunciando all'eleganza, che pure era uno dei suoi leit motiv anzi sicuramente quello più ricorrente, privilegiava l'efficacia pratica. L'aikijutsu.
Di cui non ho in realtà particolare nostalgia, come potrebbe pensare chi ha avuto la pazienza di arrivare fin qui. E' semplicemente il nostro antenato, e fa piacere – anche se non lo si ritenesse necessario – sapere da dove proveniamo e di chi siamo discendenti. Senza per questo vivere nel passato.
Trovatomi per un caso fortuito, addirittura divertente, a fungere da uke in un corso privato di difesa personale tenuto da Hosokawa sensei, che mi trovò non disadatto al ruolo e volle che continuassi (non che io fossi del tutto d'accordo, ma al termine della lezione non ero del tutto capace di intendere e di volere e non obiettai) so per esperienza diretta che il maestro continuò in seguito anche quando i casi della vita ci allontanarono per qualche tempo a tenere questi corsi e a coltivare queste esperienze. Sia pure spesso omettendo di precisare che facevano parte di un complesso strutturato e non erano semplici divagazioni.
Non è infatti l'aikido di tutti i giorni. E' una sezione specializzata dell'aikido, che richiede un allenamento intenso, un briciolo di predisposizione naturale, un impegno anche mentale maggiore rispetto a quanto richiesto dall'allenamento normale, ammesso che abbia senso definire cosa sia normale e cosa no. Anche Ikeda sensei amava questi approfondimenti. Fu durante un seminario a Napoli a cavallo tra gli anni 70 e 80 che anticipò che Hosokawa avrebbe mostrato “ikkyo di artemarzialmente”. Infatti concordavano spesso assieme i loro programmi, nell'abitazione di Hoso a Roma, mentre talvolta il sottoscritto che era addetto alla manutenzione dell'acquedotto del caffé, indispensabile ai fini didattici, allungava le orecchie.
Il tutto è stato mai verificato sul campo? No.
Prima di tutto per una ragione morale, parola che in aikido si spende molto. Il praticante di aikido, come il guerriero, combatte solo se e quando è necessario e sempre in assoluta serenità, senza accanimento. Non combatte per placare i suoi dubbi esistenziali o per vedere se quella tecnica funziona. E' salutare che si abitui a convivere col dubbio, e le fisiologiche tentazioni giovanili è opportuno rimangano tali.
In secondo luogo ogni verifica è sostanzialmente vana: quello che ha funzionato oggi non funzionerà necessariamente domani in altre circostanze, o per meglio dire se hai funzionato tu oggi non è detto che funzionerai domani. Non devi mai allentare la tensione: trasformandola necessariamente in tensione positiva perché una negativa ti distruggerebbe in breve.
E' naturale che affiori una obiezione: se il jutsu è solo una parte secondaria dell'aikido, e per giunta immaginabile solo con un allenamento serio e intenso, come è mai possibile arrivarci con una pratica saltuaria?
Dal punto di vista fisico, l'allenamento dell'aikido “normale” e della parte funzionale all'autodifesa non cambiano; chi è ben preparato per l'uno è in condizione di affrontare anche l'altra, eventualmente cercando maggiore intensità. Al giorno d'oggi però è raro, va detto subito. I miei ex allievi ricordano certamente che a volte (anche su loro richiesta) ho mostrato alcune tecniche particolari. Ma sempre facendo presente che vedere non significa essere in grado di rifare, non essendo il loro grado di allenamento né la loro età del tutto compatibili. Infatti, tanto per dirne un'altra, la “vittima” di queste tecniche era solo un allievo che potrebbe essermi pronipote e in ottima forma, dotato della necessaria reattività per evitare spiacevoli conseguenze; e il tutto veniva mostrato e dimostrato ma ben raramente lo facevo ripetere agli astanti.
Ma non è un discorso che valga solo per le tecniche mirate all'efficacia, è un discorso più vasto. Il semplice shihonage “alla Hosokawa” (yokomen e non shomen) io l'ho mostrato abbastanza spesso, perché ha molti motivi di interesse, ma ammonendo che non sarebbero stati in grado di subirlo facilmente come uke, non allenandosi 5 giorni alla settimana, non essendo più mediamente dei fiorellini di campo, non praticando 30 minuti di aikitaiso “alla Hoso” all'inizio di ogni lezione. Infatti a chi lo provava "non piaceva". Non particolarmente almeno.
Dal punto di vista mentale possiamo dire la stessa cosa: avere raggiunto un livello di pratica in cui siano presenti e abbiano effetti importanti la serenità d'animo, l'imperturbabilità, il distacco dai risultati materiali, aiuta in ogni circostanza della vita. Non fanno eccezioni le situazioni di conflitto, in cui il furore non porta lontano.
E qui arriviamo finalmente alla fine del discorso. E allora a che serve pensare all'autodifesa, se è in pratica inattuabile? In realtà è attuabile, ma questo non è provabile. E nemmeno è consigliabile compiacersi di essere tra i pochi che potranno. Nessuno di noi lo può sapere, ma l'avremo reso possibile se abbiamo lavorato con coscienza. Al momento opportuno saremo in grado di agire nel modo migliore a noi consentito.
Tada sensei ricorda spesso che alcune tecniche da lui illustrate le ha viste una sola volta nella sua vita, eseguite da o sensei. Come gli è possibile richiamarle in vita? Perché il suo allenamento - fisico, mentale e morale – gli permette di assimilare anche quello che è nascosto nella pratica quotidiana. E perché tutto quello che mostrava il fondatore non sfuggiva ai principi fondamentali che governano ogni atto dell'aikido, compresi i “banali” ikkyo, nikyo e sankyo.
Nella pratica quotidiana si celano anche i principi della difesa personale, e l'allenamento assiduo nel corso di tutta la vita offre la possibilità, nientaltro che la possibilità, che affiorino se e quando necessario.
E' vano “provarli” in situazioni irreali, come è per antonomasia la prova: se cerchi la rissa per verificare le tue capacità ti trovi in modalità offensiva, non difensiva...
Come già detto non si deve desiderare di vivere nel passato, e nemmeno viverlo mentalmente quando la realtà richiamerebbe a ben altro. Occorre solamente avere ben presente il cammino che ha percorso chi è venuto prima di noi, solo così ci renderemo conto di dove ci troviamo ora e perchè, solo così sapremo dove puntare per il futuro.
Il tema originale da cui sono partite, in altra sede, le riflessioni fin qui esposte per raccoglierle, se non altro a futura memoria dello scrivente, voleva però essere un altro: che risposta dare quando dall'esterno – singole persone o istituzioni – si chiede insistentemente all'aikido l'autodifesa? Senza sapere nemmeno che cosa sia, e immaginata come risoluzione miracolosa di quelli che sono gravi problemi dell'essere umano e non semplci situazioni contingenti.
Come è possibile rispondere a queste richieste senza deludere le aspettative di chi in fondo sta cercando soluzioni a problemi gravi come quello del crescente bullismo, senza tuttavia minimamente tradire l'essenza dell'arte, portando anzi gli osservatori esterni a modificare le loro percezioni e le loro richieste per scegliere quelle offerte dall'aikido? Abbiamo una risposta dalle nostre “istituzioni”? Sembra difficile affermarlo, per quanto ci siano indizi sicuri che molti insegnanti e molti dojo queste risposte le stanno cercando autonomamente e le stanno già proponendo all'esterno.