Tecnica/Cultura
Il kekkai, questo sconosciuto.
Da alcuni anni Tada sensei a conclusione dei suoi seminari propone una forma di allenamento non precisamente denominata. In termini materiali si tratta di una tecnica in ushirowaza, ossia tesa ad affrontare una ipotesi di minaccia alle proprie spalle. Si pratica in kakari geiko, quindi affrontando più praticanti che si susseguono afferrando tori in ushiro ryotemochi (presa a un avambraccio con entrambe le mani). Le prese devono susseguirsi velocemente e senza interruzione mentre tori deve mantenere la propria postura e limitarsi a ruotare sistematicamente le braccia a ritmo più sostenuto possibile, proiettando ogni uke senza curarsi di controllarne l'azione, né visivamente né in altro modo. Il movimento di tori infatti prescinde in un certo senso dalla presenza o meno di uno o più uke.
E' diventato col tempo un rituale cui molti ambiscono partecipare: inizialmente riservato agli uke abituali del maestro, è stato poi “aperto al pubblico” e chi vuole partecipa, naturalmente in veste di uke, e a ogni nuova occasione si ha l'impressione che siano aumentati i volontari. E' gradito a tutti infatti essere accettati nel kekkai - nel giardino privato - del maestro e interagire fisicamente con lui.
Il significato di kekkai al di fuori dell'ambito dell'aikidō viene tradotto approssimativamente come dominio, in realtà al momento non è agevole fornirne una traduzione esatta senza conoscere gli ideogrammi con cui va reso questo termine. La lingua giapponese è infatti molto ricca di omofoni, vocaboli che si pronunciano nello stesso modo ma hanno significato diverso e scrittura diversa.
Kekkai potrebbe avere infatti significati o perlomeno sfumature non positivi, come rottura, demolizione, collasso (決壊); ma anche positivi come è il caso del termine quando indica un'area all'interno di un dōjō buddista, ad accesso riservato e dedicata a pratiche di purificazione (結界). In ogni caso significati apparentemente lontani da quello adottato nell'aikidō.
In realtà proprio questa accezione potrebbe essere – ma va calcata la mano su questo potrebbe - la chiave di lettura più appropriata sia del termine che del suo significato nel mondo dell'aikidō; ma anche, e non per ultimo, della sua corretta impostazione pratica.
Non mancano certamente in aikidō i termini ambigui, e anche questo potrebbe essere letto in chiave di ostacolo, di barriera al comprendere, ma va piuttosto accettato in termini assolutamente positivi: una sola parola, potendo assumere differenti sfumature di significato, può divenire la chiave di accesso a numerose porte; può segnare l'inizio di differenti cammini, forse tutti altrettanto validi e tutti destinati a portare lontano.
Ci allontaneremo ora apparentemente dal tema, ma come chi affronta un tornante tenendosi a mezza costa, avvicinandosi alla cima in modo sicuramente più agevole e forse anche più veloce di chi affronta e sfida direttamente il pendio.
Affrontiamo un altro esempio: kokyu ho (principio o esercizio di respirazione, 呼吸法). E' noto che il termine si riferisce innanzitutto all'esercizio appunto di respirazione che segna l'inizio di ogni sessione di pratica di aikidō. E fin qui non ci sono problemi. Il termine composto ryotedori kokyu ho o morote dori kokyu ho (諸手取り呼吸法) indica invece una tecnica che si esegue al termine di ogni sessione.
Perché una tecnica apparentemente volta a liberarsi da una presa ostile viene invece denominata esercizio di respirazione? Perché non si deve eseguire utilizzando la forza fisica, non si tratta di naturalmente di sollevamento pesi, e perché non è opportuno né vantaggioso contrastare l'energia dell'uke. Occorre attingere energia al proprio interno, dalla forza del respiro. Mantenere la mente serena e il corpo rilassato, rendendo vana contro una azione interna armonica la disarmonia dell'azione esterna.
La primaria fonte di energia per l'essere vivente è infatti il respiro: possiamo resistere anche per mesi senza il cibo e possiamo resistere per giorni senza acqua. Non possiamo però resistere normalmente più di pochi minuti senza respirare, e siamo in seria difficoltà anche dopo pochi secondi. Il respiro è la nostra primaria fonte di energia e di vita. E' infatti la cessazione del respiro uno degli indizi da cui si constata lo stato di morte.
Ricorriamo quindi nelle situazioni di crisi all'energia che ci proviene dalle forze della natura. Si tratta di un legame nonostante tutto arduo da ristabilire? Appunto: saremo in condizioni di ritrovarlo o perlomeno di renderlo cosciente a noi stessi solamente acquisendo uno stato di assoluta serenità e trasparenza. Mentale e fisica.
Mentre nel kokyu ho il praticante deve acquisire e mantenere uno stato di imperturbabilità durante l'azione, che diventa quasi una non azione, nata comunque da un atteggiamento materialmente statico, in questa altra forma di accoglienza nel kekkai la situazione è inversa.
Il naturale dinamico movimento del corpo, che coinvolge non solo le braccia come appare all'osservatore non avvezzo ma l'intero corpo, viene sottoposto a un tentativo di turbamento, di arresto da parte di numerose differenti forze contrastanti, che si succedono senza soluzione di continuità.
Ed ecco che appare lampante il concetto di dominio. L'esecutore mantiene il dominio di sé stesso, di conseguenza assume il dominio della situazione e determina le sorti di chi tenta di infrangere questo dominio, a prescindere dalla loro forza e dal loro numero.
Un dominio teso non a raggiungere vantaggi personali ma a mantenere l'armonia con le leggi fondamentali che sono alla base della vita. E non solo di quella umana.
Ma non dobbiamo rinunciare per questo alla metafora alternativa: gli uke si introducono nell'area riservata alla purificazione del dōjō immateriale all'interno del quale agisce tori, di quello che altrove il maestro ha appunto felicemente definito come kekkai, il proprio giardino interiore.
L'azione di uke simula disarmonia, non tanto in confronto agli intendimenti e alla serenità di tori ma piuttosto in confronto all'armonia dell'universo, ma non riesce a turbare la purezza del dōjō. Ne viene anzi al contrario purificata. L'azione di tori diviene un gesto d'amore.
Il tutto senza la seriosità che si accompagna troppo spesso alle pratiche di purificazione, in una atmosfera invece che si può serenamente – serenamente – definire giocosa, quasi scherzosa. Al punto che il sottoscritto, notoriamente e inguaribilmente irriverente, ha da tempo adottato per questa versione innominata della pratica del kekkai un termine alternativo, rimasto finora strettamente confidenziale.
Il french can-can.
Il cancan è una coreografia di origini non chiare, ma sicuramente nata nel 1800 in Francia. Viene spesso eseguita con l'accompagnamento musicale del Galop infernal dall'Orfeo all'inferno del musicista franco-tedesco Jacques Offenbah, la cui prima rappresentazione risale al 1858. In realtà Offenbach compose diverse musiche destinate al cancan. In Italia vi si cimentò nel 1882 Romualdo Marenco componendo il galop finale di Excelsior, una coreografia di Luigi Manzotti che ebbe un successo travolgente, continuando a essere rappresentata per decenni in numerose nazioni. Vi si vedeva una simbolica rappresentazione dei successi tecnologici del tardo ottocento che aprivano grandi prospettive al genere umano. Si diffondeva così nel mondo, con Excelsior, il desiderio e forse l'esigenza di esternare con il corpo la gioia di tali futuri successi. Eseguito nei locali di varietà come numero a sé stante, nel quadro di opere più articolate il cancan ne rappresenta invece invariabilmente l'apoteosi finale.