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Come detto in precedenza fin dal XVII secolo - epoca in cui inizia il lungo periodo della pax Tokugawa che durò poi fino al 1868 - per quanto la classe guerriera cominciasse a riflettere più profondamente sui propri compiti e sui migliori metodi per preparvisi, molto più di quanto sia possibile se non addiritura consentito in tempi di guerra continua, rimasero comunque separati e distinti i due momenti cruciali del cammino del guerriero: la preparazione materiale e fisica al combattimento e la preparazione mentale, ma anche filosofica e psicologica, che consentisse di cogliere il senso della propria missione.
In parole povere le antiche discipline (koryu) che dovevano essere praticate dal guerriero erano ancora tese a ricercare soprattutto l'efficacia in combattimento, per quanto fosse venuta meno la possibilità - o necessità - di una verifica pratica sui campi di battaglia. Ed erano comunque tutte discipline legate all'uso delle armi ed in modo particolare della spada, riservando un ruolo minore allo studio del combattimento disarmato.
E' infatti risaputo che il samurai aveva obbligo, non facoltà, di essere costantemente armato di due spade, ed era autorizzato od obbligato a deporre quella lunga (di norma la katana) quando era ospite in una dimora altrui, nei locali pubblici e in altre circostanze ancora, ma aveva il dovere di portare sempre sulla persona la seconda lama, il wakizashi ovvero il tanto. E va qui ricercata la differenza concettuale ma con evidenti ripercussioni dal lato tecnico che separa le arti marziali tradizionali giapponesi, destinate ad una elite avvezza all'uso quotidiano della spada, da altre arti che dovremmo definire più popolari se non temessimo con questa definizione di correre il rischio di sembrare critici nei loro confronti.
Tornando alla analisi del samurai di epoca Edo, dobbiamo constatare che la sua formazione intellettuale e psicologica era delegata a discipline differenti, e che a volte agivano per vie indirette: non impartendo al guerriero nozioni particolari ma cercando di stimolare la sua sensibilità attraverso la pratica di arti apparentemente rigidamente strutturate come ad esempio il chanoyu, conosciuto come "la cerimonia del te" oppure al contrario apparentemente informali come la calligrafia shodo
Va comunque osservato che anche nella pratica delle armi debbono esservi stati necessariamente, fin da quell'epoca dei correttivi indirizzati ad una maggiore ricerca interiore piuttosto che al raggiungimento di una mera abilità tecnica. Come esempio non possiamo fare a meno di citare la pratica dello iai o battô ryu, ossia della estrazione rapida della spada per reagire ad un pericolo imminente ma in realtà intangibile, immateriale, simbolico: in quanto la pratica dello iai si effettua prevalentemente a solo, senza alcun contendente.
Del resto lo iai si pratica anche, nella maggior parte dei casi, partendo dalla posizione seiza: che è quella in cui normalmente il porto della spada è interdetto. E' indubbio tuttavia che le antiche scuole (koryu) sono indirizzate soprattutto al combattimento.
E' proprio a partire dall'epoca Meiji, in cui il Giappone viene bruscamente messo a confronto con la civiltà occidentale e si rende conto di dover cambiare radicalmente se vuole mantenere non solo qualche possibilità di sopravvivenza ma anche di salvaguardare le proprie tradizioni, che nasce il problema: non è più possibile mantenere vivo il proprio retaggio marziale continuando ad utilizzare i sistemi del passato. «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi.» La frase, qualcuno l'avrà riconosciuta, non viene dal lontano oriente: è nata dalla mente dello scrittore italiano Giuseppe Tomasi di Lampedusa, nel suo romanzo Il Gattopardo ambientato nella Sicilia del 1860 nel momento dell'invasione garibaldina. Un momento di cambiamenti irrevocabili, come quelli che avrebbe dovuto affrontare poco dopo, all'altra estremità del mondo, il Giappone.
E' in questa epoca di recupero ma contemporaneamente di trasformazione irrevocabile del patrimonio delle tradizioni guerriere del Giappone, che vede la luce il libro che ha reso celebre il termine bushidô. Che non è tuttavia un libro che intenda solamente raccogliere questo patrimonio, ma piuttosto un saggio che intende soprattutto proporre agli occidentali, cui è rivolto e nella cui lingua (l'inglese) è scritto, una interpretazione del travaglio che sta vivendo il Giappone. Lo stesso titolo potrebbe riflettere se non un cedimento alla moda del momento, un tentativo di indicarvi immediatamente il punto cruciale del cambiamento: i nuovi samurai si preparano alla loro missione seguendo un percorso non più legato alla scuola (ryu) e di conseguenza non più legato nemmeno alla tecnica (jutsu); su quale sia questo percorso e come vada definito non vi è unanimità.
Ma si diffonde l'abitudine di chiamarlo appunto, forse solo temporaneamente ed in attesa di una definizione migliore, percorso: michi. O più spesso, con una delle tante pronuncie alternative che prevede la lingua giapponese, dô. Suffisso con cui vennero via via contrassegnate, a rimarcare la loro discontinuità ideologica anche se non tecnica dalle antiche discipline, le arti moderne che andavano nascendo: il judô, il kendô, il kyudô, più tardi l'aikidô. Ed è con questo stesso suffisso che Inazo Nitobe sceglie di identificare il percorso ideale non di questo o quel guerriero, ma della classe guerriere in generale: il bushidô.
Rimane ora da definire, dopo aver preliminarmente detto da subito che esiste una discontinuità tra gli antichi ryu e i loro antichi metodi jutsu, quali siano le differenze di impostazione rispetto al passato dei vari dô, e quali siano i loro obiettivi.
Diciamo immediatamente che molto poco si è studiato e pubblicato su questo argomento, forse per mancanza di stabili piattaforme ideologiche da analizzare.
Non ci sentiamo infatti di affermare che gli scopi del judô moderno siano gli stessi che Kano aveva identificato, e probabilmente non saremmo nemmeno in grado di identificarli.
Abbiamo già detto altrove che le moderne arti del budo potrebbero dividersi in tre categorie ben distinte: formali, agonistiche e relazionali. Appartengono al primo genere - formale- le arti che formano il praticante soprattutto attraverso il tentativo di uniformarsi ad un modello ideale, per definizione irragiungibile, attraverso la ripetizione costante di una forma immutabile che rappresenta un combattimento in cui è assente l'avversario (kata). Appartengono al secondo - agonistico o competitivo - le arti che, pur prevedendo talvolta anche una parte dedicata ai kata richiedono momenti di verifica attraverso il confronto con altri praticanti (kumite), al termine dei quali viene attribuita la vittoria all'uno od all'altro.
Il terzo metodo formativo, quello relazionale, è a parere dello scrivente quello da cui sarebbe lecito attendersi maggiori risultati. Esso prevede e richiede un rapporto dialettico tra i praticanti, un continuo e programmato scambio dei ruoli di attaccante destinato a soccombere e difensore chiamato a difendere se stesso certamente ma non ad offendere la controparte.
Per utilizzare i termini utilizzati da Tada sensei: «... è necessario adottiare un sistema di allenamento in cui non vi sia predominio o antagonismo fra i praticanti, ma che piuttosto permetta il generarsi spontaneo delle tecniche.» E più avanti il maestro parla di "Via della purificazione", specificando che «L'esatta definizione usata più volte da Osensei nei suoi poemi didattici (doka) è "Odo no kami (mu) waza", e si riferisce ad un episodio della storia mitologica del Giappone, in cui Izanagi-no-mikoto, ritornato sulla terra dopo essere scappato dal mondo degli inferi, decise di purificare il corpo e lo spirito dalle orrende esperienze vissute, facendo abluzioni (misogi) in un corso d'acqua pura.»
E' inevitabile constatare che l'aikido, arte cui si riferiva Tada sensei - ed arte relazionale per eccellenza - è in sensibile ritardo non diciamo nel conseguimento di questi ambiziosi risultati, ma anche nell'avvicinarsi ad essi. Non possiamo certamente addossare la responsabilità di tutto questo all'arte. E' probabile che siano stati invece troppi "artisti", traditi forse da un eccessvo innamoramento verso i risultati estetici del loro lavoro, a dimenticarne o a metterne in disparte il significato vero e lo scopo irrinunciabile. Non rimane che augurarci una inversione di tendenza, un momento di riflessione che permetta a molti insegnanti di avere una maggiore incidenza positiva nell'animo ma anche se non soprattutto nella vita stessa, dei praticanti. Non solo nei loro gesti tecnici.
Solo così si potrà rendere il dovuto omaggio ai koryu, le antiche scuole marziali, e permettere che il loro messaggio continui ad essere tramandato nei secoli.